Il danno da demansionamento va risarcito anche in caso di illegittima sospensione in CIG

Il danno da illegittima sospensione in cassa integrazione guadagni ed il danno da demansionamento subiti dal lavoratore nel periodo di sospensione sono concettualmente distinti poiché i piani risarcitori sono riconducibili alla violazione di precetti normativi differenti e, cioè, quelli attinenti all’osservanza dei criteri di rotazione e quelli posti a tutela della professionalità e della personalità del lavoratore consacrati dall’art. 2103 c.c. , oltre che risarcibili alla stregua di diversi parametri.

Dunque, non è corretto concludere che l’accertamento del diritto risarcitorio scaturito dalla violazione delle norme in tema di rotazione, cui consegue il diritto a percepire le differenze tra la retribuzione mensile dovuta e l’indennità di cassa integrazione percepita, possa assorbire anche il diritto derivante dalla violazione dell’art. 2103 c.c., da cui consegue, invece, il diritto al risarcimento di danni non patrimoniali cagionati dall’illegittima lesione della professionalità del lavoratore Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza depositata il 28 settembre 2020, n. 20466 . Il caso. Il Tribunale di Milano dichiarava l’illegittimità della collocazione di una lavoratrice in cassa integrazione guadagni, condannando il datore di lavoro al pagamento di somme corrispondenti alla differenza tra quanto spettante a titoli di retribuzione per il periodo di sospensione e quanto percepito a titolo di indennità di cassa integrazione . Il Giudice accertava altresì il demansionamento subito dalla lavoratrice durante i periodi di illegittima sospensione in cassa integrazione, condannando la società al risarcimento del danno alla professionalità, quantificato nella misura del 100%. La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento del danno da demansionamento, condannando la lavoratrice alla restituzione di quanto percepito in seguito all’esecuzione della sentenza di primo grado. La lavoratrice ha chiesto la cassazione della sentenza di secondo grado, di cui stigmatizza la contraddittorietà, per aver la Corte territoriale accertato, da un lato, che nei periodi di rotazione la stessa non aveva ricevuto l’assegnazione di alcuna mansione, ponendo tale accertamento a fondamento della pronuncia di illegittimità della collocazione in CIG, salvo poi negare il diritto al risarcimento del danno da demansionamento, ritenendo tale danno assorbito dall’indennità liquidata per mancata rotazione. La tutela differenziata dei crediti in ragione del loro rilievo socioeconomico. La Suprema Corte ha accolto la domanda della lavoratrice, ritenendo non sovrapponibili il risarcimento del danno da illegittima sospensione in cassa integrazione e quello derivante dalla lesione alla professionalità conseguente al demansionamento. Richiamando le note sentenze a Sezioni Unite del 2008 in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, la Corte di Cassazione ha precisato che l’assegnazione a mansioni inferiori o, come in questo caso, la totale privazione di mansioni rappresenta un fatto idoneo a produrre conseguenze dannose sia di natura patrimoniale mancata acquisizione di un maggior sapere e/o pregiudizio da perdita di chances sia di natura non patrimoniale, sotto l’aspetto del diritto del lavoratore all’effettivo dispiegamento della sua professionalità mediante l’espletamento delle mansioni che gli competono. Non si possono sovrapporre i diversi piani risarcitori. Nello specifico, la Corte d’Appello di Milano aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno da demansionamento, sul rilievo che la privazione delle mansioni era circoscritta a limitati periodi di rotazione e risultava comunque inserita nello specifico contesto dell’illegittima collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, già sanzionata mediante la condanna al pagamento delle differenze retributive. Invero, qualora il datore di lavoro lasci il dipendente in condizioni di inattività, non solo viola l’art. 2103 c.c. ma ne lede il fondamentale diritto al lavoro , inteso come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza. Tale condotta comporta la lesione della dignità professionale del lavoratore e produce un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 17 dicembre 2019 – 28 settembre 2020, n. 20466 Presidente Berrino – Relatore Lorito Rilevato che Il Tribunale di Milano accoglieva in parte le domande proposte da O.L. nei confronti di Univer s.p.a. e dichiarava l’illegittimità della collocazione in CIG per i periodi analiticamente indicati in ricorso CIGO febbraio 2009-luglio 2010 CIG in deroga, dal luglio 2010 all’aprile 2011 e CIGS dal maggio 2011 , condannando la società al pagamento delle somme corrispondenti alla differenza fra quanto spettante a titolo di retribuzioni per i periodi di sospensione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e quanto percepito nei medesimi periodi a titolo di indennità di cassa integrazione. Il Tribunale accertava altresì il demansionamento patito dalla lavoratrice nei periodi di lavoro prestato successivamente al 2/2/2009 allorché non si trovava collocata in CIGO, CIGS e CIG in deroga, condannando la società al risarcimento del danno alla professionalità quantificato nella misura del 100%. Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che, con sentenza resa pubblica il 27/3/2015, rigettava la domanda proposta dalla lavoratrice a titolo di risarcimento danni da demansionamento, e la condannava alla restituzione di quanto percepito in seguito alla esecuzione della sentenza di primo grado. La cassazione di tale decisione è domandata da O.L. sulla base di unico motivo, illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c., al quale oppone difese la società intimata. Considerato che 1. Con unico motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 13 e dell’art. 2103 c.c Si duole che la Corte territoriale, con argomentare peraltro contraddittorio, abbia da un canto accertato che nei periodi di rotazione, la ricorrente non aveva ricevuto l’assegnazione di alcuna mansione poiché le attività da essa in precedenza svolte, erano state già redistribuite fra i colleghi, ponendo tale accertamento a fondamento della pronuncia di illegittimità della collocazione in CIGS dall’altro, non abbia considerato il medesimo fatto, quale prova della dequalificazione professionale risentita. Stigmatizza l’impugnata sentenza per aver denegato tutela al diritto azionato, argomentando - in assenza di alcuna coerenza logico-formale sulla esiguità dei periodi di inattività e sulla circostanza che la riconosciuta indennità per violazione delle norme in tema di rotazione CIGS, avrebbe dovuto assorbire l’eventuale indennizzo relativo alla dequalificazione professionale intervenuta. Osserva per contro la ricorrente che la totale accertata privazione di mansioni ha concretizzato la violazione di due precetti normativi il primo riguardante l’inosservanza della normativa contrattuale collettiva, relativa ai criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga il secondo, la violazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 13. Rimarca al riguardo, che mentre il danno da illegittima sospensione in CIGS corrisponde alle precise differenze retributive fra l’indennizzo percepito dal lavoratore sospeso e quanto avrebbe percepito se avesse prestato la propria attività lavorativa, quello derivante da demansionamento può essere valutato anche in via presuntiva ed equitativa. Argomenta, quindi, che la totale e prolungata privazione delle mansioni aveva sostanziato un comportamento oggettivamente grave della parte datoriale, idoneo a frustrare la specifica professionalità di essa ricorrente, legata all’azienda da un rapporto ultratrentennale e deprivata in favore di colleghi non soggetti ad alcun tipo di mobilità, subendo l’estirpazione delle sue specifiche attività che maggiormente la rendevano visibile in ambito aziendale . 2. Il motivo è fondato e va accolto per le ragioni di seguito esposte. Occorre in via di premessa, richiamare taluni generali concetti in relazione al tema qui delibato, che rimandano a quella che è stata denominata in dottrina la tutela differenziata dei crediti in ragione del loro rilievo socioeconomico. Detta tutela si rinviene - oltre che in un corpus di disposizioni processuali le ordinanze anticipatorie di cui all’art. 423 c.p.c., l’esecutorietà della sentenza di primo grado ex art. 431 c.p.c., la rivalutazione dei crediti di lavoro ex art. 429 c.p.c., u.c. , in numerose disposizioni di diritto sostanziale, nel cui ambito vanno incluse, tra le espressioni più significative, le norme dettate a garanzia della persona del lavoratore dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, ed il disposto dell’art. 2087 c.c. secondo cui l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio della impresa le misura che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro . In altri termini nella disciplina del rapporto di lavoro si riscontra un reticolato di disposizioni specifiche volte ad assicurare una ampia e speciale tutela alla persona del lavoratore con il riconoscimento espresso dei diritti a copertura costituzionale artt. 32 e 37 Cost. . In siffatto contesto si è quindi, fondatamente ritenuto che la modifica in peius delle mansioni ascritte al lavoratore, è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti. Infatti questa Corte, a Sezioni unite vedi Cass. 11 novembre 2008 nn. 26972, 26973, 26974, 26975 , dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista. La dignità personale del lavoratore, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., viene configurata come diritto inviolabile, la cui lesione si risolve in pregiudizio alla professionalità da dequalificazione, che si traduce nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità nell’ambito della formazione sociale costituita dall’impresa. L’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre conseguenze dannose, non solo di natura patrimoniale mancata acquisizione di un maggior saper fare, pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali v. tra le altre v. Cass. n. 11045 del 10/6/2004 , ma anche di natura non patrimoniale, dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore derivando il diritto fondamentale di quest’ultimo, al pieno ed effettivo dispiegamento della sua professionalità, espletando le mansioni che gli competono. Orbene, nello specifico la Corte di merito è pervenuta alla reiezione della domanda di accertamento dell’intervenuto demansionamento e della consequenziale istanza risarcitoria, sul rilievo che la privazione di mansioni era stata circoscritta a limitati periodi di rotazione e risultava comunque inserita nello specifico contesto dell’illegittima collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, già sanzionata mediante la condanna al pagamento delle differenze retributive fra il relativo trattamento e le retribuzioni maturate nei rispettivi periodi . Gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito non appaiono coerenti coi ricordati insegnamenti, perché finiscono per sovrapporre piani risarcitori che rimangono concettualmente distinti perché riconducibili alla violazione di precetti normativi distinti quelli attinenti all’osservanza dei criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e quelli posti a tutela della professionalità e della personalità del lavoratore, consacrati dall’art. 2103 c.c. nella versione di testo pro tempore vigente, anteriore alla novella operata con il D.Lgs. n. 81 del 2015 , oltre che risarcibili alla stregua di diversi parametri infatti, secondo la elaborazione della giurisprudenza di legittimità, la non patrimonialità del diritto leso comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno vada determinato in base a valutazione equitativa, anche mediante il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l’unica fonte di convincimento del giudice ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit. . Non è, dunque, predicabile un principio, quale quello affermato dalla Corte distrettuale, in base al quale l’accertamento di un diritto scaturito dalla violazione di una norma possa assorbire anche quello derivante dalla violazione di altro precetto normativo fermo restando che in linea generale, anche un’unica condotta contra legem - come anche fatto cenno in precedenza - possa essere fonte di una pluralità di eventi dannosi, autonomamente risarcibili, giacché la lesione in sé della posizione giuridica soggettiva del lavoratore sotto il profilo della professionalità, ha attitudine generatrice di danni sia a contenuto patrimoniale, pregiudicando quel complesso di capacità e di attitudini che è di certo bene economicamente valutabile, sia a contenuto non patrimoniale, risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona. Chiarita la potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che qualora questi lasci in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza tale comportamento comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual’è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo v. Cass. 18/5/2012 n. 7963 e tale lesione produce un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa vedi in proposito anche Cass. 20/04/2018 n. 9901 che ha ravvisato una violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico - determinabile in relazione alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla cassa integrazione, non erano stati, fra l’altro, assegnati compiti da svolgere . Nella fattispecie qui scrutinata, la lavoratrice, per effetto della sospensione illegittima dal lavoro protrattasi dal 2/2/2009 al 2/5/2011 e dello stato di forzata inattività nel quale è stata mantenuta fra un periodo di sospensione e l’altro, è stata deprivata delle mansioni a lei ascritte, con evidente pregiudizio quanto alla posizione giuridica soggettiva, della normalità delle relazioni di cui era titolare nel contesto aziendale in cui operava. La prospettazione del danno derivante dal demansionamento idoneo a frustrare la specifica professionalità della lavoratrice, fedele dipendente per più di 30 anni all’interno dell’azienda, quanto a toglierle autorevolezza e rispetto nell’ambito del suo stesso enturage lavorativo , secondo quanto riferito in ricorso , ed immanente nella condizione stessa di inerzia nella quale la lavoratrice è stata illegittimamente collocata dalla parte datoriale, è, dunque, suscettibile di ristoro per equivalente ed alla stregua del criterio equitativo, secondo i principi generali acquisiti dalla giurisprudenza di questa Corte ai quali si è fatto richiamo. La pronuncia della Corte distrettuale che, per quanto sinora detto, a detti principi non si è attenuta, va rimessa ad altro giudice di appello, designato come in dispositivo. Questi nel procedere al rinnovato scrutinio della controversia si atterrà ai principi innanzi esposti. Al medesimo giudice va demandata la regolamentazione delle spese del giudizio di Cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio.