Il giudice non può rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte

La disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa. Pertanto, il giudice non può rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte.

Così ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 8/20, depositata il 2 gennaio. Il fatto. La Corte d’Appello respingeva il reclamo proposto da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato nei suoi confronti dal Ministero degli Affari Esteri per gravi irregolarità commesse nel rilasciare visti di ingresso in Italia in qualità di funzionario amministrativo del Consolato. Avverso la decisione propone ricorso il dipendente pubblico lamentando che il procedimento disciplinare risulterebbe viziato per essere stato attivato, dopo la sentenza penale definitiva, oltre il termine di 60 giorni e sarebbe stato concluso oltre il termine dei 180 giorni in violazione dell’art. 55-ter n. 4 del d.lgs. n. 165/2001. Nel sollevare tale profilo di censura, il ricorrete riconosce di non averlo sollevato nei gradi di merito ma a suo dire questo era rilevabile d’ufficio, in quanto relativo a c.d. nullità di protezione. Non rilevabilità d’ufficio. La Cassazione, non ritenendo condivisibile l’assunto del ricorrente, ricorda il principio già espresso dalla giurisprudenza Cass. n. 23869/18, Cass. n. 9675/19, Cass. n. 18705/19 secondo cui la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa , non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte . Chiarito questo, la Cassazione rigetta il ricorso del lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 ottobre 2019 – 2 gennaio 2020, n. 8 Presidente Napoletano – Relatore Bellè Fatti di causa 1. La Corte d’Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto da S.P. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato nei suoi confronti dal Ministero degli Affari Esteri, per gravissime irregolarità commesse dal medesimo, quale funzionario amministrativo del Consolato generale d’Italia a San Paolo del Brasile, nel rilascio di visti per l’ingresso in Italia. La Corte riteneva che, nonostante il proscioglimento per prescrizione pronunciato in sede penale, gli atti provenienti dal Tribunale penale e valutati in sede disciplinare attestassero appieno le condotte perseguite e supportassero la scelta della P.A. di adottare la massima sanzione. 2. S.P. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico articolato motivo, poi illustrato da memoria, cui ha resistito con controricorso il Ministero. Ragioni della decisione 1. Con l’unico articolato motivo il ricorrente afferma, richiamando l’art. 360 c.p.c., la nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4 e art. 55-ter, commi 2, 3 e 4, nonché dell’art. 653 c.p., comma 1-bis. 1.1 Da un primo punto di vista S.P. sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che il Ministero avesse verificato la sussistenza della sua responsabilità per i fatti attribuitigli in occasione del licenziamento disciplinare, essendosi viceversa limitato a richiamare i fatti così come valutati dal giudice penale nel corso del giudizio di primo grado svolto in quella sede, senza alcun autonomo apprezzamento. La censura è infondata, in quanto la Corte territoriale ha espressamente ritenuto che gli atti penali fossero stati viceversa valutati in sede disciplinare, riportando stralci del provvedimento di licenziamento in cui risulta articolata un’ampia motivazione in proposito, riferita a vari elementi ed ove si fa riferimento anche ad un un’ ulteriore controllo da parte dell’U.P.D 1.2 Da altro punto di vista il ricorrente sostiene che vi sarebbe stata violazione delle norme sull’efficacia extrapenale di giudicato della pronuncia di estinzione del reato per prescrizione, ma si tratta di censura inammissibile, perché incoerente rispetto alla ratio decidendi, in quanto nè la P.A., nè la Corte d’Appello hanno fatto leva sull’efficacia di giudicato delle pronunce rese in sede penale, quanto piuttosto sulle risultanze delle indagini e dell’istruttoria penale, qual mere fonti di prova dell’illecito perseguito. 1.3 Un terzo profilo di censura consiste nel rilievo secondo cui il procedimento disciplinare risulterebbe viziato per essere stato riattivato, dopo la sentenza penale definitiva, oltre il termine di sessanta giorni, in violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, n. 4 e art. 55-ter, n. 4, ed esso sarebbe stato altresì concluso oltre il termine di 180 giorni in violazione ancora del disposto dell’art. 55-ter, n. 4 cit Lo stesso ricorrente riconosce che tali censure non erano state precedentemente sollevate nei gradi merito, ma a suo dire esse sarebbero rilevabili d’ufficio, perché relative a nullità c.d. di protezione. Si tratta di assunto non condivisibile, essendosi ripetutamente affermato ed è qui condiviso anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 118 disp. att. c.p.c., che la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa . , non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte in ordine di tempo, Cass. 24 marzo 2017, n. 7687 Cass. 2 ottobre 2018, n. 23869 Cass. 5 aprile 2019, n. 9675 Cass. 11 luglio 2019, n. 18705 . Ciò esclude dunque, come argomentato nelle citate pronunce, la rilevazione anche delle nullità c.d. di protezione e rende pertanto inammissibili i corrispondenti profili di censura qui prospettati ex novo. 1.4 Il ricorrente infine afferma che la sanzione disciplinare sarebbe illegittima, perché irrogata sulla base di una previsione di contratto collettivo non più esistente al momento del licenziamento. In proposito è pacifico che i fatti da cui deriva la sanzione, posti in essere tra il novembre 2000 e l’aprile 2001, hanno costituito oggetto di contestazione il 28.5.2001, con procedimento disciplinare sospeso il 16.7.2001, quindi riattivato nel 2015, fino al licenziamento del 2.11.2015. Così come è pacifico che, all’epoca della commissione dei fatti e della loro contestazione, vigeva il c.c.n.l. 1994-1997 ed al momento del licenziamento il c.c.n.l. 2002-2005. In effetti, l’art. 16, comma 2, del secondo c.c.n.l. ha previsto, rispetto a fatti commessi prima della sua entrata in vigore ma per i quali il procedimento fosse ancora pendente, l’applicazione della previgente contrattazione, se più favorevole. Tuttavia, è palese che, rispetto alla vicenda oggetto di causa, la normativa previgente e quella sopravvenuta sono identiche e dunque il problema in realtà non si pone. La sanzione è stata irrogata lo ragione di gravissime irregolarità commesse nell’ambito del rilascio dei visti , per le quali si svolse il processo pehale, poi chiuso con la declaratoria di prescrizione per i reati ascritti. Il licenziamento è stato irrogato richiamando l’art. 25, comma 5, lett a e d del c.c.n.l. 1994-1997 e dunque le fattispecie inerenti la commissione in servizio di gravi fatti illeciti di rilevanza penale lett. a e la commissione di fatti o atti dolosi, non ricompresi nella lett. a , anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro lett. d . Il recesso è stato dunque esercitato, come dimostra il richiamo alla lett. d , anche a prescindere dalla rilevanza penale dei fatti addebitati L’art. 13, comma 6, del c.c.n.l. sopravvenuto prevede parimenti alla lett. d il licenziamento per la commissione in genere - anche nei confronti di terzi - di fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro e dunque appunto anche a prescindere dall’integrare, i fatti contestati, un illecito penale. Il raffronto, qui ammissibile perché attinente a profili di diritto suscettibili di diretta interpretazione da parte di questa Corte art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione ai contratti collettivi nazionali di lavoro , porta dunque a concludere che, per gli illeciti contestati, è previsto il licenziamento sia nel regime sostanziale previgente che in quello successivo e dunque, come giustamente sostenuto nelle difese della P.A., la questione sull’efficacia nel tempo delle diverse discipline è priva di rilievo, perché non ve ne è una che sia più favorevole o più sfavorevole per il ricorrente. Sicché, anche a voler considerare come prevalente la disciplina sostanziale esistente al momento del licenziamento, il richiamo nell’atto di recesso alla contrattazione esistente al momento della commissione del fatto si traduce in un irrilevante erronea indicazione della norma sanzionatoria, ma non in un effettivo vizio di diritto sostanziale. 2. Il ricorso va quindi integralmente rigettato, con regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.