Disciplina dell’invalidità del licenziamento vs disciplina generale delle invalidità contrattuali

In tema di impugnativa del licenziamento, la parte, dopo aver proposto il ricorso giudiziale, non può sollevare nuove ragioni di invalidità del recesso datoriale, che non siano giustificate da fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né il giudice può rilevare di ufficio ragioni di invalidità del licenziamento diverse da quelle eccepite dalla parte stessa.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con sentenza n. 18705/19, depositata l’11 luglio. La vicenda. La Corte d’Appello rigettava il gravame proposto da un lavoratore avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto l’impugnativa di licenziamento disciplinare intimatogli dal Comune, giudicando nelle forme del cosiddetto rito Fornero. In particolare il ricorrente era stato sanzionato per aver attestato falsamente la presenza di sua moglie, anch’ella dipendente comunale, in ufficio attraverso l’utilizzo improprio del badge, cagionando così un danno alla P.A Avverso la decisione di secondo grado, il lavoratore ricorre in Cassazione. L’impugnativa di licenziamento. Il tema da affrontare in tale sede è quello relativo alla disciplina concreta dell’impugnativa dell’atto. Come già osservato dalla Suprema Corte l’azione invalidante finalizzata alla declaratoria di invalidità del licenziamento si deve attuare in un determinato termine e dalla molteplicità dei profili di nullità, annullabilità e inefficacia che possono incidere sulla validità in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarità proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo . Con riferimento dunque al licenziamento in sé considerato e alla tecnica impugnatoria, gli Ermellini, rifacendosi anche al caso in esame, affermano il principio secondo cui, la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità rispetto a quella generale delle invalidità contrattuali, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza, dopo la necessaria impugnazione stragiudiziale, per il promovimento dell’azione giudiziale . A ciò consegue che, dopo aver proposto il ricorso giudiziale, la parte non può sollevare in giudizio nuove ragioni di invalidità del recesso da parte del datore di lavoro, che non siano giustificate da fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né il giudice può rilevare di ufficio ragioni di invalidità del licenziamento diverse da quelle eccepite dalla parte . Per tale ragione, dato che nella fattispecie le ragioni della illegittimità sollevate solo nel corso del giudizio, nonostante giustamente ritenute tardive della Corte distrettuale, il ricorso deve essere rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 maggio – 11 luglio 2019, n. 18705 Presidente Napoletano – Relatore Belle’ Fatti di causa 1. La Corte d’Appello di Bari ha rigettato il gravame interposto da S.A. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che, giudicando nelle forme del c.d. rito Fornero, aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al ricorrente dal Comune di Foggia, di cui era dirigente. La sanzione era stata fondata sul fatto di avere lo S. attestato falsamente le presenza in ufficio della di lui moglie, anch’essa dipendente comunale, inducendo in errore il datore di lavoro attraverso un’utilizzazione impropria del badge e così cagionando anche un danno all’ente pubblico, in misura pari alla retribuzione corrisposta alla donna senza ricezione della controprestazione. 2. La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, riteneva tardiva la deduzione di illegittimità della sanzione per violazione delle regole di composizione e funzionamento dell’Ufficio Procedimento Disciplinari U.P.D. , in quanto sollevata solo nel corso del processo già introdotto con l’opposizione, da parte del lavoratore, avverso l’ordinanza resa nella prima fase del rito speciale. Per completezza di motivazione la Corte disattendeva anche nel merito la questione, osservando come la normativa nulla disponesse rispetto alla composizione collegiale dell’U.P.D. e comunque rilevando che la contestazione era stata sottoscritta dal Dott. T. nella qualità di Presidente dell’U.P.D., sicché non si poteva sostenere che essa non fosse ascrivibile ad una manifestazione di volontà dell’Ufficio stesso. 3. Avverso la sentenza lo S. ha proposto tre motivi di ricorso per cassazione, poi illustrati da memoria e resistiti dal Comune di Foggia. Ragioni della decisione 1. Il ricorrente denuncia primo motivo la violazione o falsa applicazione art. 360 c.p.c., n. 3 , della L. n. 604 del 1966, art. 5, per avere la Corte territoriale dichiarato inammissibili i motivi di illegittimità del licenziamento dedotti nel corso del processo di merito di primo grado, ma dopo la sua introduzione e riguardanti profilo poi riproposto con il secondo motivo di ricorso per cassazione il fatto che la contestazione dell’addebito fosse stata effettuata dal solo Presidente dell’U.P.D. e non dall’organo collegiale, in violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 1 e 4, nonché il fatto che, essendo egli dirigente, la sanzione avrebbe dovuto essere irrogata dal dirigente generale o titolare di incarico conferito ai sensi dell’art. 19, comma 3, e non dall’U.P.D., il tutto anche sub specie terzo motivo del ricorso per cassazione dell’erronea interpretazione art. 1362 c.c. del Regolamento disciplinare del personale del comparto Regioni e Autonomie Locali, ove non inteso nel senso che il collegio disciplinare fosse da considerare perfetto e dovesse conseguentemente operare in tale forma, senza contare ancora terzo motivo che anche un collegio imperfetto non avrebbe potuto ridursi ad operare attraverso uno solo dei suoi membri, di fatto venendosi ad equiparare ad un organo monocratico. 2. In fatto è accaduto che il ricorrente avesse impugnato il licenziamento disciplinare nelle forme del c.d. rito Fornero. Respinto il ricorso con ordinanza sommaria, lo S. aveva proposto opposizione. Solo a verbale di udienza del giudizio di opposizione erano state avanzate le ragioni di illegittimità sopra evidenziate e riproposte poi, in esito al rigetto di tale opposizione, anche con il reclamo proposto avverso di essa e, quindi, con il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione. Il ricorrente sostiene che, trattandosi di nullità c.d. di protezione, i vizi del licenziamento sarebbero sempre rilevabili d’ufficio e quindi non vi sarebbe mai tardività, senza contare che il difetto di legittimazione rispetto all’irrogazione della sanzione comporterebbe l’inesistenza giuridica dello stesso e non una mera causa di invalidità. 3. Il primo motivo è infondato. Va infatti data continuità all’orientamento già espresso da questa Corte Cass. 24 marzo 2017, n. 7687, poi seguita da Cass. 11 dicembre 2018, n. 31987 e Cass. 5 aprile 2019, n. 9675 , secondo cui l’impugnativa di licenziamento resta delimitata dalle ragioni di nullità dell’atto quali introdotte nel proporre il giudizio, cui non è consentito alla parte aggiungere ulteriori ragioni di invalidità nel corso del processo, se non per fatti che fossero sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né al giudice di procedere a rilievo officioso di ragioni di nullità del licenziamento diverse da quella eccepite. L’orientamento è stato argomentato da Cass. 7687/2017 rinnovando, sulla base di più complesse considerazioni sollecitate dall’evolversi dell’ordinamento, un tradizionale indirizzo di questa Corte, che va anch’esso qui confermato. 3.1 La questione non attiene tanto all’individuazione del solo atto quale oggetto del processo, dovendosi ritenere che l’effetto del giudicato necessariamente si estenda, all’esito del giudizio, anche all’esistenza o inesistenza del rapporto, così come che eventuali vicende relative al rapporto ad es. fatti estintivi successivi rispetto ad un licenziamento in ipotesi riconosciuto come illegittimo rientrino certamente nell’ambito del processo, pur non riguardando direttamente il contenuto dell’atto. 3.2 Il tema è invece quello della disciplina concreta di tale impugnativa dell’atto. Come osservato dalla citata Cass. 7687/2017, l’azione di invalidità finalizzata alla declaratoria di invalidità del licenziamento è costruita, dal diritto vigente, come tale da doversi attuare in un dato termine e dalla molteplicità dei profili di nullità, annullabilità e inefficacia che possono incidere sulla validità in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarità proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo . Tale conclusione, si è rilevato in dottrina, si radica nella scelta, da parte del legislatore, di una ben precisa tecnica processuale c.d. impugnatoria, diffusa in ambito di atti unilaterali licenziamento sanzioni amministrative ai sensi della L. n. 689 del 1981 impugnative tributarie impugnative atti amministrativi e caratterizzata dal fatto che l’azione giudiziale è da attuare in un dato termine, pena l’irreversibile consolidarsi degli effetti dell’atto rispetto al rapporto sostanziale su cui esso insiste. Tale tecnica, rispetto al caso del licenziamento, si è affinata in una delle sue forme più evolute, in quanto l’atto che manifesta il diritto potestativo di recesso è ormai costantemente destinatario ex ante, di regole procedurali, quanto meno sotto il profilo della motivazione sempre necessaria, L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 ma anche, talora, procedimentali licenziamento disciplinare licenziamento per g.m.o. nei casi di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 7, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 . Tali regole sono destinate a definire un quadro giuridico di esercizio del potere che delinea il perimetro, dal lato datoriale, dei fatti rilevanti e consente al destinatario la reazione giudiziale nei termini stabiliti dalla legge tanto è vero che l’azione ancor oggi non è in senso stretto impugnatoria ed è dunque svincolata dai termini decadenziali, allorquando manchi la forma minima e ricorra il licenziamento orale Cass. 11 gennaio 2019, n. 523 Cass. 12 ottobre 2018, n. 25561 . In tale contesto, l’impostazione legale non consente a priori, come rilevato sempre da Cass. 7687/2017, di fare riferimento al concetto di diritti c.d. autodeterminati in quanto, a fronte di azioni impugnatorie, è solo la legge, qualora intenda derogare all’assetto processuale di delimitazione delle cognizione sull’atto quale sopra delineato, a stabilirlo espressamente come accade, ad es., rispetto alle nullità degli atti amministrativi, regolate come perpetua ad excipiendum e munita di un regime di rilievo officioso D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 31, comma 4 v. invece, per il divieto di rilevazione d’ufficio di vizi non dedotti dal ricorrente, v. in tema di sanzioni amministrative Cass. 31 ottobre 2018, n. 27909 Cass. 10 agosto 2007, n. 17625 Cass. 16 aprile 2003, n. 6013 in tema di impugnative tributarie Cass. 12 luglio 2018, n. 18425 Cass. 6 aprile 2017, n. 9020 . Il che esclude altresì la possibilità di estendere alla materia i principi affermati da Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242, rispetto alle impugnative negoziali ed alle c.d. nullità di protezione, posto che la applicabilità agli atti unilaterali della normativa che regola la materia contrattuale in tanto è possibile ex art. 1324 c.c., in quanto la disciplina, che a tal fine non può essere disgiunta dalla sua interpretazione, sia compatibile con la natura dell’atto che viene in rilievo e non sia derogata da diverse disposizioni di legge così, ancora Cass. 7687/2017 , come invece è nel caso del licenziamento e sulla base del diverso sistema processuale per esso delineato dal legislatore e sopra sinteticamente descritto. La disciplina processuale concentra dunque la cognizione giudiziale, con riferimento al licenziamento in sé considerato, agli aspetti reciprocamente incardinati dal procedimento-atto di recesso dal lato datoriale e dalla sua impugnativa dal lato del lavoratore . 3.3 L’utilizzazione per legge della predetta tecnica processuale, allorquando operi in ambito di atti unilaterali, svincola dunque il regime giuridico dalla disciplina delle nullità di protezione. Tale impostazione non va d’altra parte disgiunta dai profili di diritto sostanziale che parimenti la ispirano. Infatti, il riconoscimento di situazioni potestative potere datoriale di far cessare il rapporto di lavoro poteri amministrativi facoltà della P.A. di formare titoli esecutivi per i propri crediti sanzionatori o tributari è conseguenza del fatto che l’ordinamento reputa volta a volta adeguato che la disciplina degli interessi sottesi a determinate vicende sia esercitata attraverso atti unilaterali. La tecnica impugnatoria sopra esaminata, nella propria concreta disciplina delle singole ipotesi, manifesta il risvolto e la misura della specialità della tutela processuale assicurata a tali assetti sostanziali, il che, vedendo la questione per quanto attiene al licenziamento, si realizza delimitando la cognizione giudiziale attraverso una disciplina di rigorosa attuazione del principio di preclusione, già in sé proprio del rito del lavoro, anche sotto il profilo della delimitazione ab origine, sulla scorta dell’impugnativa di parte, dei vizi dell’atto suscettibili di trattazione. 4. Va quindi ribadito e generalizzato quanto affermato dalla citata giurisprudenza, affermandosi il principio per cui la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità rispetto a quella generale delle invalidità contrattuali, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza, dopo la necessaria impugnazione stragiudiziale, per il promovimento dell’azione giudiziale. Ne consegue che la parte, dopo avere proposto il ricorso giudiziale, non può sollevare in giudizio nuove ragioni di invalidità del recesso datoriale, che non siano giustificate da fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né il giudice può rilevare di ufficio ragioni di invalidità del licenziamento diverse da quelle eccepita dalla parte . 5. Rispetto al caso di specie, le ragioni di asserita illegittimità sollevate solo nel corso del giudizio, risultando palesemente circostanze note, sono state dunque ritenute giustamente tardive dalla Corte territoriale. 5.1 Né ha pregio l’affermazione di cui alle difese del ricorrente secondo la quale la violazione delle regole di competenza per la contestazione dell’infrazione si riporterebbe ad un’ipotesi di inesistenza dell’atto finale poi impugnato. 5.2 Tale distinzione non è infatti contenuta nella legge. D’altra parte, trattandosi di profili riguardanti la legittimazione all’esercizio di competenze comunque spettanti ad organi o uffici della P.A. convenuta, non vi è luogo ad ipotizzare profili di insussistenza, per difetto assoluto di attribuzione, dei corrispondenti atti per il principio, pur se in un diverso settore in cui opera il modello delle azioni impugnatorie in senso stretto Cass. 5 novembre 2018, n. 28108 . 6. Da quanto sopra deriva l’assorbimento del secondo e del terzo motivo, che riguardano il merito delle censure di illegittimità del licenziamento da ritenere inammissibili per le ragioni testé evidenziate. 7. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.