Il demansionamento nel pubblico impiego contrattualizzato

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, la disciplina delle mansioni non è dettata dall’art. 2013 c.c., bensì dalla norma speciale di cui all’art. 52 d.lgs. n. 165/2001 che, nel testo antecedente al d.lgs. n. 150/2009, attribuiva rilevanza solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi.

Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16311/19, depositata il 18 giugno. Il caso. La Corte d’Appello di Roma respingeva le domande presentate da un dipendente dell’Università degli Studi di Cassino che, deducendo di essere stato assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle di inquadramento, chiedeva la reintegrazione in funzioni confacenti alla qualifica posseduta oltre al risarcimento dei danni, patrimoniali e non. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore. Demansionamento. Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, richiamato dal Collegio, nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato la disciplina delle mansioni non è dettata dall’art. 2013 c.c., bensì dalla norma speciale di cui all’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, che nel testo applicabile ratione temporis precedente al d.lgs. n. 150/2009 assegna rilievo per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità acquisita e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione . Tale premessa comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria sono esigibili dal datore di lavoro sicché a fronte di un’equivalenza sul piano contrattuale, una dequalificazione è ipotizzabile solo qualora la nuova assegnazione comporti un sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa . Avendo nel caso di specie correttamente applicato tale principio, la sentenza impugnata risulta immune da censure e il ricorso viene rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 7 maggio – 18 giugno 2019, n. 16311 Presidente Torrice – Relatore Di Paolantonio Rilevato che 1. la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Cassino che aveva parzialmente accolto il ricorso, ha respinto le domande proposte da P.B. il quale, nel convenire in giudizio l’Università degli Studi di Cassino, aveva dedotto di essere stato assegnato, con decorrenza dal 2 febbraio 2004, a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della categoria EP2 di inquadramento ed aveva domandato la reintegrazione in funzioni confacenti alla qualifica posseduta nonché il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti 2. la Corte territoriale, riassunti i termini della vicenda e le rispettive deduzioni delle parti, ha ritenuto non condivisibili le conclusioni alle quali il Tribunale era pervenuto ed ha evidenziato che a l’assegnazione ad un incarico meno impegnativo rispetto a quelli ricoperti in passato era stata sollecitata dallo stesso P. , il quale aveva fatto leva su esigenze di carattere familiare e sulla necessità di assistere madre e figlia, entrambe affette da handicap b la sola circostanza che al settore patrimonio fossero assegnate unità di personale in numero inferiore a quello del settore affari generali, non poteva integrare di per sé dequalificazione, tanto più che era stato lo stesso ricorrente a sollecitare mansioni qualitativamente e quantitativamente meno gravose c il regolamento di Ateneo prevedeva che la responsabilità del settore patrimonio, anche successivamente allo scorporo dell’ufficio economato, dovesse essere affidata ad un dipendente in possesso della qualifica di inquadramento del P. EP e ciò perché le attività connesse alla gestione di mobili ed immobili comportavano, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, un grado di autonomia relativa alla soluzione di problemi complessi di carattere organizzativo e professionale nonché un grado di responsabilità relativo alla qualità ed economicità dei risultati ottenuti propri della categoria EP d le dichiarazioni rese dai testi addotti dall’Università, che il primo giudice aveva erroneamente disatteso, trovavano conferma nella produzione documentale, dalla quale emergeva che la preposizione al settore patrimonio aveva riguardato attività di rilievo per l’Ateneo, espletate dal P. anche mediante azioni propositive di cambiamenti e suggerimenti di modifiche, con l’adozione degli atti di competenza, la gestione e il controllo del personale ed il raggiungimento degli obiettivi assegnatigli 3. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P.B. sulla base di tre motivi ai quali l’Università degli Studi di Cassino ha opposto difese con tempestivo controricorso. Considerato che 1. con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 37 e della tabella A del CCNL 22.9.2000 per il personale del comparto Università nonché dell’art. 1362 c.c. e rileva, in sintesi, che ha errato la Corte territoriale nel valorizzare la richiesta del dipendente di essere assegnato ad altro incarico perché, in realtà, l’ordinanza n. 13/2004, con la quale il P. era stato assegnato al settore patrimonio, era intervenuta a distanza di mesi dalla richiesta, neppure menzionata nell’atto, ed inoltre giustificava la diversa assegnazione richiamando il principio della rotazione degli incarichi 1.1. aggiunge che dalla documentazione prodotta emergeva la volontà del dipendente di continuare a svolgere un ruolo di responsabilità, non ravvisabile nella preposizione ad un settore senza personale, strutture e con un regolamento alquanto confuso e farraginoso 2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione, oltre che della disciplina contrattuale richiamata nel primo motivo, dell’art. 2103 c.c., nella parte in cui richiede, per il legittimo esercizio dello ius variandi, l’equivalenza delle mansioni 2.1. il ricorrente sostiene che la comparazione fra le mansioni deve essere effettuata non in astratto, ossia sulla base del solo livello di categoria, bensì tenendo conto della specifica competenza del dipendente, del quale il datore di lavoro deve salvaguardare la capacità professionale 2.2. aggiunge che la Corte territoriale ha errato nella valutazione delle deposizioni dei testi e richiama le dichiarazioni dagli stessi rese per sostenere che, a causa della carenza di personale e della mancanza delle necessarie dotazioni d’ufficio, di fatto egli era stato lasciato in una situazione di sostanziale inattività o, comunque, di sottoutilizzazione 3. infine con il terzo motivo P.B. denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e si duole della mancata considerazione da parte del giudice d’appello della documentazione versata in atti, ed in particolare delle numerose missive con le quali erano state denunciate la carenza di personale e la mancanza degli strumenti necessari per procedere alla corretta inventariazione del patrimonio mobiliare ed immobiliare 4. i motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente in ragione della loro connessione logico-giuridica, sono infondati nella parte in cui invocano l’art. 2103 c.c., comma 1, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 81 del 2015, ed inammissibili per il resto 4.1. è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento, condiviso dal Collegio e qui ribadito, secondo cui per il rapporto di pubblico impiego contrattualizzato la disciplina delle mansioni è dettata, non dall’art. 2103 c.c., bensì dalla norma speciale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 Cass. S.U. n. 8074/2008 che, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis antecedente alla riformulazione operata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità acquisita e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione cfr. fra le più recenti Cass. nn. 976 e 450 del 2019 Cass. nn. 32592, 32151, 18817, 7304, 5696 del 2018 4.2. si è precisato che tale nozione di equivalenza in senso formale comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria sono esigibili dal datore di lavoro, sicché, a fronte di un’equivalenza sul piano contrattuale, una dequalificazione è ipotizzabile solo qualora la nuova assegnazione comporti un sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa 5. al richiamato principio di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale, la quale è pervenuta al rigetto della domanda sulla base delle considerazioni riassunte nello storico di lite, da un lato escludendo che il P. fosse stato relegato in una posizione di sostanziale inattività, dall’altro evidenziando che, al contrario, allo stesso erano stati assegnati compiti di responsabilità, affidabili, secondo il regolamento di Ateneo, solo a dipendenti inquadrati nella categoria EP 6. il primo ed il terzo motivo di ricorso, con i quali si addebita al giudice d’appello di non avere correttamente valutato le risultanze istruttorie e la documentazione versata in atti, presentano plurimi profili di inammissibilità, perché formulati senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4 e perché finiscono con l’esprimere un mero dissenso valutativo rispetto al motivato apprezzamento delle risultanze istruttorie effettuato dalla Corte d’appello 6.1. l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile alla fattispecie ratione temporis la sentenza gravata è stata pubblicata il 20.6.2014 , può essere invocato nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l’esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, sicché l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie Cass. S.U. n. 8053/2014 6.2. nel caso di specie il ricorso denuncia, non l’omesso esame di un fatto storico decisivo, perché la Corte territoriale ha valutato tutte le circostanze rilevanti ai fini di causa, bensì la mancata valorizzazione di risultanze istruttorie, che si assumono di segno opposto rispetto a quelle sulle quali il giudice del merito ha fondato il proprio convincimento, e ciò fa senza riportare nel corpo dei motivi il contenuto dei documenti che si assumono non esaminati o erroneamente interpretati 7. il ricorso va, pertanto, rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo 7.1. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.