Muore per esposizione ad amianto: responsabile il datore di lavoro che non lo ha tutelato

Se viene accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute del dipendente. Tutto ciò secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia non ha importanza, infatti, che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto.

Lo sostiene la Corte di Cassazione nell’ordinanza 15561/19, depositata il 10 giugno. La fattispecie. La Corte d’Appello di Roma accoglieva la domanda, proposta dagli eredi di un uomo nei confronti della società presso cui prestava servizio, avente ad oggetto il risarcimento del danno biologico e morale derivante dalla morte del loro dante causa quale conseguenza di patologia contratta nell'espletamento del rapporto di lavoro. In particolare, la Corte territoriale confermava il diretto collegamento tra la morte per carcinoma del lavoratore e il suo contatto continuo con l’amianto, rilevando che fosse già noto, in quegli anni, il rischio di patologie contratte a causa di questa sostanza. La società datrice di lavoro ricorre in Cassazione. Datore di lavoro responsabile se non preserva la salute del dipendente. Secondo la ricorrente, l'obbligo di sicurezza del datore di lavoro va necessariamente parametrato agli standard di conoscenze tecniche disponibili all'epoca, le quali - nel caso di specie - non comprendevano l'efficienza cancerogena dell'amianto. La Corte di Cassazione ribadisce che la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio. Questo principio vale anche nel caso di esposizione all'amianto. Il datore di lavoro deve provare di aver tutelato il dipendente. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute del dipendente. Tutto ciò secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia non ha importanza, infatti, che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto. Al primo posto sempre la salute del lavoratore, anche a costo di interventi drastici. La sentenza impugnata si è conformata a tali principi, rilevando che il rischio da esposizione all'amianto era noto all'epoca dei fatti, come dimostrato sia dalla presenza di pubblicazioni scientifiche già all'inizio del secolo scorso che consideravano pericolose le lavorazioni collegate all'amianto sia dall'adozione di normativa europea in materia. A fronte di tale situazione, quindi, il datore di lavoro aveva il dovere di escludere l'esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l'adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie. Per questi motivi, la Suprema Corte respinge il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 11 aprile – 10 giugno 2019, n. 15561 Presidente Nobile – Relatore Boghetich Rilevato in fatto che 1. Con sentenza n. 4801 del 2.7.2015, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima sede che aveva accolto la domanda, proposta dagli eredi di V.P. nei confronti di Atac s.p.a., avente ad oggetto il risarcimento del danno biologico e morale derivante dalla morte del loro dante causa quale conseguenza di patologia contratta nell’espletamento del rapporto di lavoro. 2. In particolare, la Corte territoriale ha affermato la responsabilità del datore di lavoro in relazione alla morte per carcinoma del lavoratore che aveva svolto mansioni di operaio specializzato elettromeccanico ed era perciò stato a contatto con materiali di amianto motori ed apparati elettrici , all’epoca 1960-1990 usati ampiamente per la coibentazione dei componenti e dei ricambi dei veicoli, rilevando che fosse già noto, in quegli anni, il rischio collegato alle fibre di amianto. 3. Propone ricorso avverso tale sentenza la società affidandosi a tre motivi, illustrati da memoria, e la controparte D.F.T. , V.F. e A. resiste con controricorso. Considerato in diritto che 4. Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la sentenza impugnata trascurato che l’obbligo di sicurezza del datore di lavoro va necessariamente parametrato agli standards di conoscenze tecniche disponibili all’epoca, le quali nel caso non comprendevano l’efficienza cancerogena dell’amianto la cui utilizzazione era stata vietata infatti in Italia solo con la legge del 1992 , tanto più che non erano state individuate le regole di condotta violate dal datore, con conseguente non configurabilità di una sua responsabilità. 5. Con il secondo ed il terzo motivo di ricorso, si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 194 c.p.c., e artt. 2087 e 2697 c.c., essendosi, la sentenza impugnata, erroneamente basata su accertamenti l’accertamento Inail tramite Contarp e le valutazioni dei periti nominati sia in primo grado che in appello non effettuati, in quanto la documentazione non è mai stata ritualmente prodotta in giudizio e i periti si sono limitati ad accertare il nesso di causalità e non l’esposizione alla sostanza nociva del de cuius, non avendo, pertanto, le parti ricorrente assolto all’onere probatorio su di loro incombente . 6. I tre motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente e devono essere rigettati. 7. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato tra le tante, Cass. n. 15156 del 2011 che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio il principio è stato applicato specificamente con riferimento al rischio da esposizione all’amianto cfr. Cass. n. 2491 del 2008, che ha confermato la sentenza della Corte territoriale che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro considerando come noto al tempo dei fatti di causa, ossia 1975 - 1995, il rischio da inalazione di polveri di amianto Cass. n. 644 del 2005, con riguardo agli anni sessanta da ultimo, Cass. n. 18626 del 2013, secondo cui la responsabilità dell’imprenditore non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, comprendendo anche l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico in senso conforme, Cass. n. 18267 del 2013 in fattispecie di esposizione ad amianto e tabagismo, Cass. n. 10425 del 2014, Cass. n. 18503 del 2016, Cass. n. 24217 del 2017, Cass. n. 27952 del 2018 . 8. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel D.Lgs. n. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. 10. 9. La sentenza impugnata si è conformata a tali principi, rilevando che il rischio da esposizione all’amianto era noto all’epoca dei fatti, come dimostrato sia dalla presenza di pubblicazioni scientifiche già all’inizio del secolo scorso che consideravano pericolose le lavorazioni collegate all’amianto sia dall’adozione di normativa Europea Regolamento n. 1169 e direttiva n. 477 del 1983 che faceva riferimento al rischio di inalazione di polveri di amianto. 10. Come ripetutamente affermato da questa Corte, a fronte di tale situazione, il dovere del datore di lavoro era di escludere comunque l’esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l’adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie. 11. Le censure attinenti alla perizia del consulente tecnico d’ufficio ed alla valenza probatoria dell’accertamento Inail del rischio di esposizione all’amianto, tramite Contarp, non possono utilmente essere contestate in sede di ricorso per cassazione mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse di diverse valutazioni perché tali contestazioni si rivelano dirette non già ad un riscontro della correttezza del giudizio formulato dal giudice di appello bensì ad una diversa valutazione delle risultanze processuali e tale profilo non rappresenta un elemento riconducibile al procedimento logico seguito dal giudice bensì costituisce semplicemente una richiesta di riesame del merito della controversia, inammissibile in sede di legittimità Cfr. ex plurimis, Cass. nn. 14374 del 2008, Cass. n. 7341 del 2004 e Cass. n. 15796 del 2004 . 12. Il ricorso va, pertanto, rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c 13. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 legge di stabilità 2013 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge con attribuzione agli avvocati Pasquale e Massimo Nappi. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dekricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.