Quando il procedimento penale si intreccia con quello disciplinare…

In materia di impiego pubblico contrattualizzato, la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale, di cui all’art 55-ter, comma 1, d. lgs. n. 165/2001, costituisce facoltà discrezionale attribuita alla P.A. che può esercitarla, fermo il principio della tendenziale autonomia del primo procedimento rispetto al secondo, qualora, per la complessità degli accertamenti o per altre cause non disponga degli elementi necessari per la definizione del procedimento. Ne consegue che il datore di lavoro pubblico, anche prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 75/2017, è legittimato a riprendere il procedimento disciplinare, senza attendere che quello penale venga definito con sentenza irrevocabile, allorquando ritenga, pur dopo aver disposto la sospensione, che gli elementi successivamente acquisiti consentano la decisione.

Da qui deriva che il termine di decadenza per la ripresa del procedimento disciplinare di cui all’art 55 ter d.lgs. 165/2001 va riferito solo al caso in cui la riattivazione sia successiva all’irrevocabilità della sentenza penale, mentre restano irrilevanti i termini entro cui il procedimento disciplinare sia ripreso, qualora ciò avvenga anteriormente al sopravvenire di tale pronuncia definitiva. Questo l’articolato, ma puntuale, principio espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12662/2019, depositata il 13.5.2019. Un accertamento complicato Il caso giunto agli ermellini riguarda la legittimità di un licenziamento disciplinare comminato a un dipendente pubblico in seguito all’accertamento in sede penale di alcuni fatti-reato a lui imputabili. Nella specie, la P.A. datrice di lavoro riceveva dalla Procura competente il fascicolo attinente le indagini preliminari rivolte al suo dipendente e, pochi giorni dopo, procedeva alla contestazione disciplinare degli stessi fatti. Successivamente alla contestazione disciplinare, prima dello scadere dei 120 giorni previsti ex art. 55-ter, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, la p.a. sospendeva il procedimento disciplinare in attesa degli esiti del procedimento penale in atto. A seguito della condanna in primo grado, la p.a. riattivava il procedimento disciplinare, irrogando licenziamento senza preavviso. Il dipendente licenziato impugnava il licenziamento sotto il profilo dell’intempestività della contestazione disciplinare, sul presupposto che gli addebiti mossi abuso di permessi retribuiti sarebbero stati apprezzabili sul piano disciplinare indipendentemente dall’esito del procedimento penale, sicché la P.A. avrebbe dovuto sanzionarli rispettando il principio di tempestività. Diversamente, trascorsi i termini previsti ex lege , si doveva presumere che la p.a. avesse perso l’interesse a sanzionare una condotta disciplinarmente rilevante. Tali difese venivano accolte dal giudice di prime cure, ma la querelle proseguiva sino alla Suprema Corte Il procedimento disciplinare per i dipendenti della P.A Per sciogliere la questione circa la tempestività della sanzione disciplinare, la Corte di Cassazione ragiona intorno alla ratio dell’art. 55- ter d.lgs. n. 150/2009 che ha introdotto il principio di tendenziale autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale. Tale principio risponde all’esigenza che la P.A. non sia più costretta a lasciare impunite alcune condotte disciplinarmente rilevanti in attesa di una sentenza penale che ne confermi la sussistenza. L’attesa lunga della conclusione del procedimento penale può infatti allontanare temporalmente la contestazione dalla sanzione, riservando a quest’ultima il carattere di mero strumento di governo del personale”. A ciò si accompagna il fatto che, a seconda degli addebiti / reati, la P.A. deve poter valutare se condurre a termine un procedimento disciplinare, pur in pendenza di un procedimento penale pendente, soprattutto nelle ipotesi in cui il provvedimento disciplinare influisca sulla prestazione lavorativa a discapito dell’interesse patrimoniale del datore di lavoro. Si pensi ad esempio ad una sospensione molto lunga che impedisca alla p.a. di beneficiare della prestazione del lavoratore, causando svantaggi sul piano economico ed organizzativo. Dall’altro lato, il dipendente non subisce pregiudizio alcuno dalla sospensione del procedimento disciplinare a suo carico, ma, al contrario, si vede assicurato ex ante un accertamento più accurato, potendo comunque contare sul percepimento medio tempore della retribuzione. La discrezionalità della sospensione, vista come canone di prudenza, risponde quindi agli interessi di tutti i soggetti coinvolti, ivi compreso il buon andamento della P.A Conseguenze Se dunque è facoltà della p.a. sospendere il procedimento disciplinare è altresì facoltà di quest’ultima riattivarlo, pertanto il termine decadenziale di sessanta giorni per la ripresa di cui all’art. 55- ter, comma 4, è da riferirsi solo al caso in cui la riattivazione sia successiva all’irrevocabilità della sentenza penale, mentre restano irrilevanti i termini entro cui il procedimento disciplinare sia ripreso. Tutto ciò con due precisazioni il procedimento disciplinare deve comunque concludersi entro i successivi 180 giorni e la riattivazione deve avvenire prima della pronuncia definitiva in sede penale.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 marzo – 13 maggio 2019, n. 12662 Presidente Napoletano – Relatore Belle’ Fatti di causa 1. La Provincia di Pordenone, con nota del 26 luglio 2013, successiva a lettera di contestazione degli addebiti dell’aprile dello stesso anno addebiti consistenti nell’aver fruito di permessi retribuiti ai sensi della D.Lgs. n. 151 del 2001 e della L. n. 104 del 1992, per l’assistenza alla madre, in realtà non residente con il ricorrente ed assistita da altro fratello comunicava a D.T.M. , proprio dipendente, la sospensione del procedimento disciplinare, fino al termine di quello penale, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter. Successivamente, in esito alla condanna penale del D.T. in primo grado, essa trasmetteva comunicazione di riattivazione del procedimento disciplinare, ed infine, raccolte le rituali difese, procedeva a licenziamento senza preavviso. 2. Il licenziamento è stato impugnato dal D.T. , con domanda originariamente accolta dal Tribunale di Pordenone, sul presupposto che gli addebiti a carico del dipendente fossero apprezzabili a prescindere dal procedimento penale e che il procedimento disciplinare fosse stato anche riattivato oltre i termini previsti rispetto alla sentenza penale di primo grado al cui esito la P.A. aveva ritenuto di darvi ulteriore corso. 3. La pronuncia del Tribunale è stata interamente riformata dalla Corte d’Appello di Trieste. La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, pronunciando nel contraddittorio della Regione Friuli Venezia Giulia medio tempore subentrata nel rapporto per effetto della L.R. n. 26 del 2014, riteneva viceversa che la contestazione non fosse tardiva, sebbene avvenuta dopo circa due anni dalla denuncia penale per gli stessi fatti sporta dalla Provincia, e ciò in quanto i dati di cui il datore di lavoro era in possesso al momento della denuncia non avrebbero potuto che essere di natura cartacea o basati, probabilmente, su voci o informazioni reperite presso il luogo di lavoro e quindi tali da rendere opportuna un’integrazione mediante indagini di polizia giudiziaria sul campo e verifiche di migliore certezza. Non diversamente, rispetto alla sospensione, oltre a rilevare la carenza di interesse dell’incolpato, al quale la sospensione giova sia in termini economici sia in termini di accuratezza degli accertamenti, la Corte sottolineava come la scelta fosse stata ispirata da canoni di prudenza, anche alla luce dell’atteggiamento negatorio assunto dal D.T. in sede penale. Quanto al periodo successivo alla sentenza di primo grado, la Corte riteneva che il termine per la riattivazione andasse computato solo dal momento della comunicazione integrale della sentenza all’Amministrazione e non dai momenti anteriori della pronuncia del dispositivo o del deposito della motivazione stessa, sicché in concreto non vi era stata violazione dei termini stessi. La Corte triestina, ritenendo altresì gli addebiti fondati nel merito, riformava quindi, come detto, la sentenza impugnata, rigettando l’impugnativa del lavoratore. 4. Il D.T. ha proposto ricorso per cassazione affidandosi a sette motivi, resistiti da controricorso della Regione Friuli Venezia Giulia. Entrambe le parti hanno poi depositato memorie illustrative. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente afferma la violazione e falsa applicazione art. 360 c.p.c., n. 3 del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 2 ed all’art. 97 Cost. per avere la Corte territoriale escluso l’intervenuta decadenza dall’esercizio della potestà disciplinare nonostante il Segretario Generale della Provincia di Pordenone abbia investito l’autorità giudiziaria per l’accertamento di fatti dei quali era già perfettamente al corrente, come dimostrato dalla circostanziata denuncia sporta ai Carabinieri, poi seguita da una richiesta di informazioni sugli esiti finalizzata alle decisioni disciplinari, oltre che alla Corte dei Conti, circostanze tutte il cui esame sarebbe stato omesso dalla sentenza impugnata, che risulterebbe pertanto sul punto immotivata o non sufficientemente motivata. 1.1 Il motivo non può trovare accoglimento. 1.2 In fatto è accaduto che Segretario Generale della Provincia, funzionario con delega anche per l’esercizio del potere disciplinare, in data 16.8.2011 abbia sporto denuncia presso i Carabinieri, nei confronti del dipendente, senza procedere a contestazione disciplinare. Un anno dopo la Provincia sollecitò i medesimi Carabinieri, onde richiedere di essere informata dell’esito delle indagini, al fine di eventuali azioni disciplinari. La contestazione dell’addebito si è invece avuta in data 23.4.2013. 1.3 La Corte d’Appello, andando di contrario avviso rispetto al giudice di prime cure, ha ritenuto che i poteri istruttori propri della P.A. non fossero sufficienti a corrispondere all’esigenza di verifiche fattuali e frutto di indagini sul campo , per le quali era stato ritenuto meglio affidarsi a quanto avrebbe potuto accertare la polizia giudiziaria. La norma D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4 fa riferimento, per la decorrenza del termine decadenziale di quaranta giorni, al momento in cui l’ufficio destinato ai procedimento disciplinari abbia acquisito notizia dell’infrazione . Con ciò intendendosi, in giurisprudenza, la data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione Cass. 21 settembre 2016, n. 18517 e che la contestazione sia da considerare tardiva, per violazione dei termini, solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte Cass. 25 giugno 2018, n. 16706 e dunque quando già sussistano elementi sufficienti a dare un corretto avvio al procedimento disciplinare , mentre il termine non può decorrere se la notizia, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione, ma richieda accertamenti di carattere preliminare, volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito Cass. 11 settembre 2018, n. 22075 . 1.4 Il ragionamento sulla sufficienza dei dati già acquisiti al fine di procedere alla contestazione, come osservato dal Pubblico Ministero, è giudizio di fatto, che si sottrae a censura di legittimità ove correttamente motivato. La motivazione nel caso di specie vi è stata, nei termini di cui si è detto pag. 11 della sentenza , cui si aggiunto altresì, da parte della Corte territoriale, un riepilogo pag. 12 dei dati formali in possesso dell’ufficio e indicati nella denuncia, con gli elementi che avrebbero smentito la documentazione addotta dal dipendente al fine di godere dei permessi. Si tratta di motivazione che ruota attorno al non implausibile presupposto che, dovendosi smentire o rettificare documentazione anagrafica, una sufficiente certezza sarebbe potuta derivare solo da indagini sul campo , non potendosi ritenere sufficienti neppure voci e informazioni intese dai colleghi di lavoro , non a caso riportate nella denuncia in forma dubitativa pare si legge in tale denuncia, rispetto al fatto che la casa della madre del D.T. sarebbe stata chiusa o generica da informazioni , si dice rispetto al luogo di effettiva vivenza dello stesso . Nè può dirsi che vi sia stata omessa considerazione di fatti, per giunta decisivi, in ipotesi da riportare al caso di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5, proprio perché la disamina ha riguardato, nei termini sopra detti, anche quanto contenuto nella denuncia. 2. Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per aver violato o falsamente applicato art. 360 c.p.c., n. 3 il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, anche in relazione agli artt. 1364, 1367 e 1370 c.c. ed ai principi sul giusto processo, in quanto era stata ritenuta legittima la riattivazione del procedimento disciplinare sospeso ai sensi del comma 1 del medesimo art. 55-ter, anziché attendere il termine di quello penale, come peraltro indicato nel relativo provvedimento, non esaminato in parte qua, così manifestandosi anche il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Con il terzo motivo si afferma la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per non essersi ritenuto che il dies a quo per la riattivazione dopo la sentenza penale di primo grado dovesse essere riferito al momento in cui la Provincia aveva ricevuto comunicazione della sentenza da parte della Cancelleria e non dal momento in cui, quale parte civile del processo, aveva provveduto ad ottenere copia autentica di essa e quindi a notificare la stessa munita di formula esecutiva in una con l’atto di precetto. Il quarto motivo deduce la stessa questione di cui al terzo motivo sotto la forma della violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter e dell’art. 154-ter disp. att. c.p.p., richiamandosi altresì, come possibili momenti di decorrenza di tale termine, quello della pronuncia del dispositivo o del deposito della motivazione. Con il quinto motivo D.T.M. denuncia la violazione e falsa applicazione art. 360 c.p.c., n. 3 del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 55-bis e 55-ter, in combinato disposto tra loro ed in relazione al L. n. 604 del 1966, art. 2 ed all’art. 97 Cost., per non avere la Corte territoriale dichiarato l’intervenuta decadenza dall’esercizio dell’azione disciplinare nonostante il decorso del termine massimo di 120 giorni entro cui il procedimento avrebbe dovuto concludersi, non essendo stata, da un lato, motivata in concreto la sussistenza dei presupposti per sospendere il procedimento, comunque insussistenti, senza procedere, per altro verso, agli accertamenti necessari e ciò anche per l’omesso esame art. 360 c.p.c., n. 5 del provvedimento di rinvio a giudizio per truffa aggravata e dei correlati atti di indagine, che avevano dato al datore di lavoro piena contezza del fatto addebitato disciplinarmente. Il sesto motivo deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa motivazione sulla sussistenza dei presupposti che avrebbero legittimato la sospensione del procedimento, comunque da ritenere non sussistenti. Infine il settimo motivo è articolato, a completamento di quanto dedotto con il secondo motivo di ricorso, affermandosi la violazione dell’art. 55-bis in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter perché la Corte territoriale, una volta ritenuto che il procedimento disciplinare potesse essere ripreso pur se il processo penale non si era concluso con pronuncia definitiva, avrebbe dovuto applicare al procedimento così riaperto, il termine di 120 giorni di cui all’art. 55-bis, comma 4 e non quello di 180 giorni di cui all’art. 55-ter, comma 4, inerente il solo caso di ripresa conseguente a sentenza penale irrevocabile. 3. I motivi vanno esaminati congiuntamente, risultando da essi coinvolti vari aspetti del rapporto tra procedimento penale e disciplinare, in stretta connessione e consequenzialità logica tra loro. 3.1 In punto di fatto risulta che, poco prima della contestazione del 23.4.2014, la Provincia ricevette, in data 16.4.2013, copia dell’intero fascicolo della Procura della Repubblica contenente gli atti di indagine. In data 26.7.2013 e quindi prima che decorresse il termine di 120 giorni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, comma 1, per l’ultimazione del procedimento disciplinare, quest’ultimo venne sospeso in attesa degli esiti del procedimento penale. In esito alla sentenza penale di primo grado del 2.12.2014, depositata il 23.12.2014, con la quale il D.T. fu condannato per i medesimi fatti, in data 21.4.2015 il procedimento disciplinare fu riattivato e definito in data 9.10.2015 con l’irrogazione del licenziamento senza preavviso. 3.2 In ordine logico, è preliminare la questione riguardante le caratteristiche dei poteri riconosciuti alla P.A. in ordine alla sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale. Come è noto, la disciplina relativa alla privatizzazione del rapporto di pubblico impiego e in particolare, qui, le integrazioni ad essa derivanti dal D.Lgs. n. 150 del 2009, si sono innestate su un regime, quello di cui al D.P.R. n. 5 del 1957, art. 112, che prevedeva la sospensione obbligatoria del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale, successivamente eroso dalla possibilità per la contrattazione collettiva di disporre diversamente D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 74, comma 3 ed infine soppiantato dalla disciplina legale imperativa di cui al predetto D.Lgs. n. 150 del 2009 artt. 68-70 . L’art. 55-ter, comma 1, introdotto dal D.Lgs. n. 150 cit., ed il principio di tendenziale autonomia del procedimento disciplinare da quello penale che esso esprime, rispondono evidentemente all’esigenza di evitare che la Pubblica Amministrazione sia costretta a lasciare impunite le violazioni disciplinari, per un tempo anche lungo e ciò in una logica che allontana la sanzione da uno spirito esclusivamente repressivo, ma ne manifesta viceversa la natura di strumento di efficienza nel governo del personale. Al contempo va peraltro considerato come, nel pubblico impiego, sussista vincolo indissolubile, anche successivamente all’adozione del provvedimento sanzionatorio art. 55-ter, comma 1 e 2, art. 653 c.p.p. , rispetto al giudicato penale, sicché è naturale che a ciò si accompagni un sensibile grado di discrezionalità nel valutare se condurre a termine il procedimento disciplinare, pur a procedimento penale pendente, specie nei casi in cui, avendo la sanzione sospensione/licenziamento effetti sulla prestazione acquisibile medio tempore, maggiori siano anche i rischi di pregiudizio anche patrimoniale per il datore di lavoro. D’altra parte, come in sostanza osservato anche dalla Corte d’Appello, il dipendente non subisce pregiudizi dalla sospensione del procedimento disciplinare, in quanto egli si vede assicurato ex ante un accertamento più accurato, potendo altresì continuare a percepire medio tempore la retribuzione piena, fermo restando che egli ha interesse giuridicamente tutelato a reagire rispetto ai vizi del provvedimento, allorquando la sospensione sia disposta senza alcuna effettiva relazione fattuale rispetto alle circostanze oggetto del procedimento penale, derivandone in tal caso l’indebita violazione dei termini di conclusione del procedimento D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4 . Il quadro giuridico complessivo si definisce dunque nel senso che la possibilità di sospendere il procedimento disciplinare in presenza di fatti di maggiore gravità e nella ricorrenza di situazioni più complesse si denota come una facoltà della Pubblica Amministrazione, nell’interesse del buon andamento di essa ed in attuazione di un canone di prudenza, che di tale principio è espressione e che è insito nei parametri di complessità di accertamento o insufficienza degli elementi disponibili cui fa riferimento la norma. 3.2.1 Va poi detto che, in concreto, non può dirsi che la sentenza impugnata sia raggiunta da idonee censure nella parte in cui essa ha ritenuto che la decisione di sospensione del procedimento disciplinare fosse stata correttamente assunta. La Corte territoriale ha sottolineato infatti come non potesse sottacersi l’atteggiamento negatorio assunto dal ricorrente nelle sedi in essere in allora, fattore questo non irrilevante sul tema ed infatti un’indagine attenta si imponeva di fronte a tale diniego . Si tratta di affermazione in sé non implausibile, nè raggiunta in concreto da reali critiche rispetto alla sua pregnanza e che chiaramente esplicita quel presupposto di complessità dell’accertamento di cui è menzione nel provvedimento di sospensione. D’altra parte non può condividersi la difesa del ricorrente ove essa sostiene che la particolare complessità dell’accertamento e la mancanza di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione , in quanto collegati nella disposizione dell’art. 55-ter, comma 1, attraverso la congiunzione e , siano due presupposti che devono entrambi coesistere e su cui debba quindi doppiamente verificarsi la motivazione assunta dalla P.A In realtà, quella formulazione non esprime nè una duplicità di presupposti, nè una reale alternatività, concretizzandosi piuttosto in un’endiadi, che, proprio per l’ampiezza valutativa assicurata alla P.A., in attuazione dei superiori principi di cui già si è detto, copre ad ampio spettro la facoltà attribuita ad essa di sospendere il procedimento disciplinare ogni qual volta vi siano comunque incertezze che discrezionalmente consiglino l’attesa degli sviluppi penali. Tutto ciò comporta quindi l’infondatezza del quinto e del sesto motivo di ricorso. 3.2.2 Del resto, se la sospensione è una facoltà dell’operare della P.A., ne deriva la piena legittimità della scelta di riattivare il procedimento, dapprima sospeso, anche prima della definizione del processo penale con pronuncia irrevocabile. Conclusione che del resto trova riscontro nel fatto che l’art. 55-ter, comma 1, fissa il momento ultimo fino al termine di durata della sospensione, ma non esclude la ripresa in un momento anteriore, mentre d’altra parte, ove taluni effetti siano da riconnettere soltanto all’irrevocabilità della pronuncia penale, ciò è stato dalla medesima disposizione espressamente stabilito nei successivi commi. E non a caso, si osserva, il D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, qui non applicabile ratione temporis, ha espressamente previsto che il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l’amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo , con modifica che non solo conferma le conclusioni qui assunte ma anche, facendo leva sulla discrezionalità, i principi su cui esse si sono basate. Da ciò deriva quindi l’infondatezza del secondo motivo. 3.2.3 Ulteriore conseguenza è che il termine decadenziale di sessanta giorni per la ripresa di cui all’art. 55-ter, comma 4, è da riferire solo al caso in cui la riattivazione sia successiva all’irrevocabilità della sentenza penale, mentre restano irrilevanti i termini entro cui il procedimento disciplinare sia ripreso salva poi la conclusione entro il termine di 180 giorni , qualora ciò avvenga anteriormente rispetto al sopravvenire di pronuncia definitiva. Da ciò deriva quindi l’ininfluenza e comunque l’infondatezza del terzo e quarto motivo. 3.2.4 Il ricorrente infine sostiene, e l’esame va qui al settimo motivo di ricorso, che, ove si dovesse ritenere che la P.A., dopo avere sospeso il procedimento disciplinare, lo potesse riprendesse prima del sopravvenire della sentenza irrevocabile del processo penale, il termine di conclusione di esso andrebbe fissato, una volta rinnovata la contestazione, sulla base dell’art. 55-bis, comma 4 120 giorni e non nel maggior termine di 180 giorni, di cui all’art. 55-ter, comma 4, nel testo qui applicabile ratione temporis, da riferire solo al caso di ripresa in esito a pronuncia penale irrevocabile. Si tratta di assunto, pur suggestivo, che non può essere avallato. La disciplina procedurale della riattivazione del procedimento, nel regime qui applicabile ed anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 75 del 2017, è contenuta infatti soltanto nell’art. 55-ter, che stabilisce la necessità di rinnovo della contestazione e fissa, in relazione a tale incombente, i susseguenti indifferenziati termini. Non è dunque possibile riportare l’ipotesi a quella, in cui mai sia intervenuta la sospensione, di cui all’art. 55-bis, comma 4. Del che si hanno argomenti di conferma considerando che anche il D.Lgs. n. 75 del 2017 cit., nel modificare l’art. 55-ter, comma 4 e riportando i termini di conclusione a 120 giorni, lo ha fatto ricomprendendo in tale caso tutti i casi di ripresa del procedimento disciplinare, ivi incluso quella che avvenga a seguito di pronuncia penale irrevocabile, a riprova che il sistema ha sempre riconosciuto, nel tempo e pur nella diversità delle misure portate da 180 giorni a 120 giorni , identità di termini di durata per ogni caso di ripresa susseguente ad una pregressa sospensione. 4. Il ricorso va quindi integralmente rigettato, affermandosi altresì il seguente principio In materia di impiego pubblico contrattualizzato, la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale, di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, comma 1, costituisce facoltà discrezionale attribuita alla Pubblica Amministrazione, che può esercitarla, fermo il principio della tendenziale autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, qualora, per la complessità degli accertamenti o per altre cause, non disponga degli elementi necessari per la definizione del procedimento. Ne consegue che il datore di lavoro pubblico, anche prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 75 del 2017, art. 14, comma 1, lett. a, è legittimato a riprendere il procedimento disciplinare, senza attendere che quello penale venga definito con sentenza irrevocabile, allorquando ritenga, pur dopo avere disposto la sospensione, che gli elementi successivamente acquisiti consentano la decisione, derivandone altresì che il termine di decadenza per la ripresa del procedimento, di cui al D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 55-ter, comma 4, va riferito solo al caso in cui la riattivazione sia successiva all’irrevocabilità della sentenza penale, mentre restano irrilevanti i termini entro cui il procedimento disciplinare sia ripreso salva la conclusione entro il successivo termine di 180 giorni, o di 120 giorni, per i procedimenti cui si applichino le modifiche alla norma apportate dal D.Lgs. n. 75 del 2017, art. 14, comma 1 qualora ciò avvenga anteriormente al sopravvenire di tale pronuncia definitiva . 5. Le spese del giudizio di legittimità restano regolate secondo soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.