Consenso al distacco: quando è necessario?

L’art. 30 d.lgs. n. 276/2003 sul distacco dei lavoratori richiede il consenso del lavoratore nei casi in cui il mutamento delle mansioni sia conseguenza oggettiva dell’attuazione dell’ordine di distacco, senza che possa rilevare la rappresentazione che di esso e dei suoi effetti abbia dato il datore di lavoro.

Questo è uno dei principi espressi dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 32330/18 depositata il 13 dicembre. Il rifiuto al distacco. Un lavoratore rifiutava di essere posto in distacco in India. Ritenendo il rifiuto ingiustificato, il datore di lavoro comminava un licenziamento per giusta causa. Secondo il datore di lavoro, il consenso del lavoratore integra un elemento costitutivo della fattispecie del distacco laddove il distacco, anche nella prospettazione datoriale, implichi un mutamento di mansioni diversamente, laddove, come nel caso di specie, il provvedimento non contenga un’indicazione del mutamento di mansioni, non è necessario il consenso del lavoratore con la conseguenza che l’eventuale rifiuto potrebbe essere considerato illegittimo. La norma distacco – mutamento di mansioni – consenso. Ci si chiede, quindi, quando sia necessario il consenso del lavoratore al distacco. Ad una prima lettura, la norma appare chiara art. 30 comma d.lgs. 276/2003 il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato . La lettera della norme indica che qualora il distacco implichi un mutamento delle mansioni svolte abitualmente dal lavoratore, esso non può che avvenire con il consenso del lavoratore medesimo. Non parrebbe invece necessario il consenso al distacco senza variazione di mansioni. In sostanza il lavoratore deve acconsentire non tanto al distacco, ma al mutamento di mansioni che interverrebbe come conseguenza del distacco. Il ragionamento sibilino della Corte di Cassazione. In prima battuta, la Suprema Corte avvalora il dato letterale della norma ed evidenzia come l’art. 30 d.lgs. n. 276/2003 si limiti a prevedere quale unico elemento costitutivo della fattispecie del distacco e quale sola condizione di legittimità del provvedimento, il consenso dal lavoratore all’ordine datoriale, nel caso in cui comporti un mutamento di mansioni rispetto a quelle già svolte presso il distaccante. Ciò premesso, la Corte di Cassazione aggiunge che ai fini della necessità del consenso e della legittimità del rifiuto non rileva il fatto che il datore di lavoro indichi nel proprio provvedimento di distacco l’invariabilità delle mansioni. Questo perché se si facesse discendere da tale indicazioni la necessità o meno del consenso, si creerebbero due discipline diverse per un'unica fattispecie se il datore indica nuove mansioni, allora sarebbe necessario il consenso del lavoratore interessato, se invece il datore non indica alcun mutamento, allora il consenso non sarebbe richiesto. Secondo gli ermellini tale distinzione è intollerabile poiché non prevista ex lege . Si consideri inoltre che, nel caso di specie, con il provvedimento di distacco, il datore di lavoro aveva assicurato che non vi sarebbe stata variazione alcuna delle mansioni, ma , nel corso dei procedimenti giudiziali è stato dimostrato il contrario. In altri termini, ex ante , al momento della comunicazione del distacco, il consenso non era necessario poiché il datore di lavoro aveva rappresentato l’immutabilità delle mansioni , ma, ex post , all’esito delle istruttorie, il lavoratore è riuscito a dimostrare che le mansioni da espletare presso la distaccante sarebbero state diverse da quelle abituali. Pertanto, alla luce della decisione in commento il consenso sarebbe sempre necessario, posto che la legittimità del rifiuto può essere anche valutata ex post, al ricorrere di elementi comprovanti l’effettivo mutamento di mansioni. Un simile principio desta però alcuni dubbi in primo luogo si supera il dettato legislativo eliminando la distinzione tra distacco con e senza mutamento di mansioni in secondo luogo, la doppia valutazione del mutamento di mansioni ex ante ed ex post rende incerta la necessità del consenso. Ad ogni buon conto, con la sentenza in commento, il ricorso del datore di lavoro è rigettato accertato ex post il mutamento di mansioni, il consenso al distacco era da chiedere ed ottenere, pertanto il rifiuto a partire per la nuova avventura lavorativa è stato considerato legittimo, con conseguente carenza dei presupposti per il licenziamento.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 ottobre – 13 dicembre 2018, n. 32330 Presidente Napoletano – Relatore Della Torre Fatti di causa 1. Con sentenza n. 577/2017, depositata il 4 maggio 2017, la Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, pronunciando in sede di opposizione, aveva annullato, con le conseguenze di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, il licenziamento per giusta causa intimato dalla Kiwa Cermet Italia S.p.A. a G.L. in data 22/10/2015 per il rifiuto del lavoratore al distacco presso una società controllata in India, peraltro disponendo la detrazione, dalle dodici mensilità cui il primo giudice aveva commisurato l’indennità risarcitoria, di Euro 9.212,50 pari a quattro mensilità della retribuzione percepita dal G. a seguito del reperimento di nuova occupazione in data 20/6/2016. 2. La Corte riteneva insussistente la giusta causa di recesso sul rilievo che il distacco avrebbe comportato, alla stregua delle prove documentali ed orali acquisite al giudizio, un mutamento sostanziale delle mansioni, in presenza del quale l’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 richiede, quale elemento essenziale della fattispecie, il consenso del lavoratore nel caso in esame pacificamente non prestato . 3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società con cinque motivi, cui ha resistito il G. con controricorso. 4. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce la violazione degli artt. 30 d.lgs. n. 276/2003, 18 I. n. 300/1970, 2119 cod. civ. e 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale omesso di esaminare il fatto decisivo costituito dalle ragioni poste dal dipendente a fondamento del proprio rifiuto al distacco, nonostante che, al momento di disporlo, la datrice di lavoro avesse prospettato lo svolgimento di mansioni corrispondenti a quelle esercitate presso di sé in Italia, e la mancata allegazione da parte del lavoratore, al momento del distacco, di un rifiuto che fosse motivato con il futuro mutamento di mansioni. 2. Con il secondo, deducendo la violazione degli artt. 30 d.lgs. n. 276/2003, 18 l. n. 300/1970 e 2119 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nonché omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., la ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere considerato che il consenso del lavoratore integra un elemento costitutivo della fattispecie legale laddove il distacco, anche nella prospettazione datoriale, implichi un mutamento di mansioni, mentre laddove - come nel caso di specie - il provvedimento non contenga una indicazione di mutamento di mansioni, non è necessario il consenso del lavoratore ed egli non può rifiutarlo, a nulla rilevando che possa essere successivamente accertato, in sede giudiziale, che il distacco avrebbe comportato un mutamento di mansioni. 3. Con il terzo motivo, deducendo la violazione degli artt. 132 n. 4 cod. proc. civ., 30 d.lgs. n. 276/2003 e 2103 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere - con motivazione apparente, contraddittoria e non idonea a giustificare la decisione - accertato che il distacco avrebbe comportato un mutamento sostanziale di mansioni. 4. Con il quarto, deducendo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere fondato l’accertamento dell’esistenza di un sostanziale mutamento di mansioni connesso al distacco sulla base di elementi presuntivi insufficienti a consentire tale conclusione. 5. Con il quinto, deducendo la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, I. n. 300/1970, in relazione all’art. 360 n. 3, nonché vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza per avere la Corte, pur dando atto del reperimento, da parte del G. , di nuova occupazione sin dal 20/6/2016, limitato l’aliunde perceptum da detrarre a sole quattro mensilità invece che a tutto quanto percepito nel periodo di estromissione, ed inoltre per avere omesso di esaminare l’aliunde percipiendum. 6. Il primo e il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati. 7. Si deve, infatti, osservare che l’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 si limita a prevedere, quale unico elemento costitutivo della fattispecie legale e sola condizione di legittimità del provvedimento, che l’ordine datoriale abbia il consenso del lavoratore distaccato, nel caso in cui esso comporti un mutamento di mansioni rispetto a quelle già svolte presso il soggetto distaccante, mutamento che può essere anche parziale, purché effettivamente idoneo a ledere il patrimonio di professionalità acquisito. 8. Ne consegue che il lavoratore, il quale riceva la comunicazione di un provvedimento di distacco, ai sensi della norma richiamata, è gravato dall’onere di fare presente al datore di lavoro il proprio rifiuto ma non anche di rendere note le ragioni che lo sorreggono o di tenere ferme quelle inizialmente prospettate, ove diverse da un mutamento di mansioni , l’art. 30 richiedendo il consenso del lavoratore nei casi tutti in cui il mutamento delle mansioni sia conseguenza oggettiva dell’attuazione dell’ordine, senza che possa rilevare la rappresentazione che di esso e dei suoi effetti abbia dato il datore di lavoro. 9. È, quindi, irrilevante che il datore, nella lettera di comunicazione del provvedimento, abbia affermato - come nella specie - che il lavoratore avrebbe continuato a svolgere le proprie mansioni presso la controllata ciò che, secondo la tesi della società ricorrente, renderebbe non necessario il consenso del lavoratore e illegittimo il rifiuto del distacco, senza un accertamento giudiziale , posto che una tale interpretazione avrebbe l’effetto di far coesistere - in esclusiva dipendenza di una dichiarazione del datore di lavoro, di cui peraltro non vi è traccia nel dettato normativo - discipline diverse per casi identici. 10. Il terzo motivo è infondato. 11. Al riguardo si osserva che le parole non è dato comprendere come il G. potesse continuare a svolgere, presso la società controllata, la maggior parte delle attività caratterizzanti il suo ruolo in Italia di International Affairs Manager cfr. sentenza, pp. 6-7 , anziché porre - secondo l’assunto della ricorrente - una domanda a cui il giudice di appello non avrebbe saputo trovare risposta, costituiscono un luogo del discorso di valenza esattamente opposta, in quanto diretto a sottolineare la radicale difformità di compiti e mansioni tra l’attività italiana, dettagliatamente descritta ed esaminata sulla base delle risultanze istruttorie, e quella che sarebbe stata espletata in India cfr. pp. 711 . 12. Né la denunciata apparenza della motivazione può riscontrarsi nell’affermazione della sentenza, secondo la quale il distacco avrebbe comportato un mutamento sostanziale di mansioni ex art. 30 d.lgs. n. 276/2003 cfr. ancora p. 11 , trattandosi di giudizio finale che sintetizza l’insieme delle considerazioni e degli elementi in precedenza valutati. 13. Il quarto motivo risulta inammissibile, posto che, con esso, la ricorrente si volge a richiedere a questa Corte un riesame del merito della controversia, mediante una nuova lettura e valutazione del materiale di prova, e cioè il compimento di un’attività che è propria del giudice di merito. 14. Il quinto motivo, nella parte in cui deduce l’omesso esame dell’aliunde percipiendum, è parimenti inammissibile, per difetto del requisito di cui all’art. 366, comma primo, n. 6 cod. proc. civ., posto che non risultano specificamente indicati gli atti in cui la relativa circostanza sarebbe stata dedotta dalla società e non contestata dal lavoratore vale a dire la possibilità per lo stesso, usando l’ordinaria diligenza, di andare a lavorare immediatamente presso la società della moglie nè trascritto il capitolo di prova che la Corte ha ritenuto del tutto generico cfr. sentenza, p. 14 . 15. Il motivo in esame è infondato nella parte in cui censura la determinazione dell’aliunde perceptum in sole quattro mensilità, anziché nell’intero ammontare delle retribuzioni percepite dal G. nel periodo di estromissione dal rapporto di lavoro. 16. Al riguardo si osserva che l’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 prevede, nelle ipotesi ivi indicate, un regime di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato costituito dalla reintegrazione nel posto di lavoro unitamente al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione , con il limite di dodici mensilità. 17. La disposizione prevede, inoltre, che dall’indennità risarcitoria debba essere dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione . 18. L’interpretazione delle norme sopra richiamate conduce a ritenere che la contrazione dell’indennità ad una misura che non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto , rappresentando un mero limite quantitativo dell’indennità stessa, imposto dal legislatore nell’ambito di un’operazione di bilanciamento fra opposti interessi, non può prescindere in ogni caso dal periodo, in relazione al quale è prevista la tutela risarcitoria del lavoratore illegittimamente licenziato e che, coincidendo con la sua estromissione dal rapporto di lavoro, si estende dal giorno del recesso datoriale a quello della effettiva reintegrazione. 19. Ne consegue che, insistendo la disciplina delle detrazioni per lo svolgimento di altre attività lavorative sul medesimo periodo di estromissione , appare del tutto esente da censura il computo seguito dal giudice di merito, il quale, sull’esatto presupposto della necessaria decorrenza del risarcimento pur entro il limite ex lege dalla data del recesso, intimato con lettera del 22/10/2015, ha detratto dalle dodici mensilità della retribuzione globale di fatto le quattro mensilità relative al periodo di occupazione presso altro datore di lavoro, decorrente - così come accertato - dal 20/6/2016. 20. D’altra parte, la diversa lettura proposta dalla ricorrente, oltre a risultare in contrasto con il chiaro dettato normativo, farebbe dipendere il diritto al risarcimento del lavoratore dalla durata del giudizio, il quale, protraendosi nel tempo, per una molteplicità di ragioni ed eventi processuali del tutto indipendenti dalla sua volontà, comporterebbe, nei fatti, la riduzione o anche l’annullamento del diritto stesso. 21. In conclusione, il ricorso deve essere respinto. 22. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. 23. Di esse va disposta la distrazione ex art. 93 cod. proc. civ. a favore dei procuratori del controricorrente, come da loro dichiarazione e richiesta. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, somma di cui dispone la distrazione in favore dei procuratori del controricorrente. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.