Il requisito dell’immediatezza della contestazione disciplinare

Il legislatore ha previsto il requisito dell’immediatezza della contestazione disciplinare a tutela del lavoratore in modo da consentirgli una difesa adeguata in relazione agli addebiti contestati. Tale principio deve essere però messo in relazione con la necessità per il datore di lavoro di avere del tempo a disposizione per acquisire una compiuta e meditata conoscenza dei fatti e sulla riconducibilità al lavoratore.

Lo ha ribadito la Corte di legittimità con la sentenza n. 29627/18, depositata il 16 novembre. La vicenda. I giudici di primo e secondo grado rigettavano la domanda di Poste Italiane volta a far dichiarare la legittimità della sanzione della multa di 4 ore inflitta ad una dipendente, incaricata di sostituire la responsabile in alcune giornate, per non aver effettuato i dovuti controlli dei valori presenti in cassa e nel dispensatore di banconote oltre che per non aver formalizzato i passaggi di chiavi, omettendo dunque di rilevare ammanchi per oltre 1800 euro. La decisione di illegittimità si fondava sulla tardività della contestazione, avvenuta ad oltre 3 mesi dalla conoscenza dei fatti sostanzialmente ammessi dalla lavoratrice durante le indagini. Poste Italiane chiede dunque la cassazione della sentenza d’appello. Legittimità del potere disciplinare. L’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, in quanto diritto potestativo contrattuale, deve essere improntato a canoni di correttezza e buona fede, ovvero deve essere esercitato nel rispetto di presupposti imprescindibili che lo rendono legittimo, tra cui l’immutabilità della contestazione e – appunto – la sua tempestività. Il requisito dell’immediatezza della contestazione è posto a tutela del lavoratore al fine di consentirgli una difesa adeguata in relazione agli addebiti contestati e di tutelare il legittimo affidamento del dipendente, in caso di ritardo nella contestazione, sull’irrilevanza disciplinare degli addebiti stessi. Ciò posto, tale principio deve essere messo in relazione con la necessità per il datore di lavoro di avere del tempo a disposizione per acquisire una compiuta e meditata conoscenza dei fatti e sulla riconducibilità al lavoratore. Il Collegio ribadisce dunque il principio per cui il ritardo nella contestazione costituisce un vizio del procedimento disciplinare solo laddove abbia determinato un ostacolo per l’effettiva difesa del lavoratore, tenendo conto del prudente indugio del datore di lavoro nella ponderata e responsabile valutazione dei fatti che deve necessariamente precedere la contestazione, anche nell’interesse del lavoratore che sarebbe in caso contrario colpito da contestazioni avventate o comunque non sufficientemente certe. Applicando tali principi al caso di specie, la Corte respinge il ricorso avendo i giudici di merito correttamente riscontrato la tardività della contestazione rispetto alla conoscenza dei fatti.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 4 luglio – 16 novembre 2018, numero 29627 Presidente Napoletano – Relatore Curcio Fatti di causa Con sentenza del 25.10.2013 la corte d’Appello di Brescia ha confermato la sentenza del tribunale della stessa città che aveva respinto la domanda di Poste Italiane spa diretta a far dichiarare la legittimità della sanzione della multa di quattro ore inflitta alla dipendente D.D.C. . Il Tribunale aveva accertato la tardività della contestazione e quindi la conseguente illegittimità della sanzione con la quale la società aveva addebitato alla dipendente, sportellista incaricata di sostituire la responsabile in varie giornate nel periodo tra il 1 gennaio 2001 e il 27 giugno 2001, di non aver effettuato i dovuti controlli, in contraddittorio con la sostituita, dei valori presenti incassa e nel dispensatore di banconote e di non aver formalizzato i c.d. passaggi di chiavi, così non rilevando ammanchi per un complessivo importo di 1880,00 Euro. La corte di merito, confermando l’iter argomentativo del giudice di prime cure, ha ritenuto la tardività della contestazione in ragione del tempo trascorso, di oltre tre mesi, dalla conoscenza dei fatti sostanzialmente ammessi dalla lavoratrice in sede di indagini compiute in data 8.7.2008 e la formale contestazione effettuata l’11 ottobre 2008, escludendo che nel caso di specie potessero ravvisarsi esigenze istruttorie in relazione ai fatti contestati, in ragione sia delle dichiarazioni confessorie della D.D. , sia dell’assenza di qualsiasi ulteriore indagine sui fatti da parte della società, così dovendosi configurare una inerzia. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Poste italiane affidato a tre motivi, a cui ha resistito la lavoratrice con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione dell’articolo 113 c.p.c., degli artt. 1418 e 2106 c.c., dell’articolo 7 legge numero 300/1070 nessuna delle due ultime disposizioni stabilisce il dies a quo e il dies ad quem nell’adozione dell’atto di contestazione, o sancisce una qualche forma di invalidità per un mero fatto a decorso temporale , laddove è invece noto che la nullità ex articolo 1418 c.c. deve discendere da qualche violazione di legge imperativa, quanto meno di ordine pubblico, mentre la sentenza impugnata dichiara invalida la sanzione comminata in violazione dell’articolo 113 c.p.c Con il secondo motivo di gravame Poste spa deduce la violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. per avere la corte di merito ritenuto che la lavoratrice avesse potuto far affidamento sulla rinuncia di Poste spa all’esercizio del potere disciplinare e che perciò la società aveva contravvenuto ai principi di correttezza e di buona fede. Per la ricorrete sarebbe la sentenza a violare detti principi, atteso che il semplice ritardo nell’esercizio di un proprio diritto, non finalizzato a produrre un danno alla controparte, non darebbe luogo ad alcuna violazione di tali canoni. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 2967 c.c. e dell’articolo 1218 c.c. in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c. in relazione all’articolo 360 c.1 numero 3 c.p.c., in quanto poiché il potere disciplinare costituisce un diritto potestativo contrattuale, in assenza di altri limiti di legge, l’unico sindacato cui può essere positivamente sottoposto il suo esercizio è quello della buona fede in senso oggettivo, discendendone sul piano probatorio che il datore di lavoro dovrà provare solo i fatti costitutivi addebito, contestazione e possibilità di difesa spettando al lavoratore dimostrare che l’esercizio del potere è contrario alle regole della buona fede. Avrebbe pertanto errato la corte di merito nel ritenere che sussisteva in atti la prova processuale della scorrettezza datoriale . I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto connessi perché tutti diretti a censurare in realtà l’interpretazione offerta dalla sentenza impugnata delle norme che regolano il potere disciplinare del datore di lavoro ed il relativo procedimento disciplinare, sono infondati. Va premesso che, proprio in quanto il potere disciplinare è un diritto potestativo contrattuale del datore di lavoro, l’esercizio di tale potere che lo pone un una posizione non paritetica rispetto al lavoratore, deve essere improntato ai canoni di correttezza e buona fede, ciò significando anche che va esercitato nel rispetto di alcuni presupposti imprescindibili che lo legittimano, quali appunto l’immutabilità della contestazione e la sua tempestività. Come più volte rilevato da questa corte cfr per tutte Cass. numero 13167/2009 il requisito dell’immediatezza della contestazione è posto a tutela del lavoratore ed ha la finalità di consentire una difesa adeguata in relazione agli addebiti contestati ed altresì di tutelare il legittimo affidamento del medesimo dipendente, in presenza di un ritardo nella contestazione, sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore alla condotta inadempiente. Inoltre come precisato da Cass. numero 13482/2004, uno dei fondamenti del principio di immediatezza della contestazione disciplinare è costituito dal rispetto del concreto esercizio del diritto di difesa del lavoratore sicché più approfondite indagini del datore di lavoro sui fatti passibili di responsabilità disciplinare non contraddicono tale esercizio, anzi lo rafforzano, ma il datore di lavoro deve contestare i fatti addebitati al dipendente non appena ne venga a conoscenza e gli stessi appaiano ragionevolmente sussistenti così da ultimo anche Cass. numero 7839/2018 . Ancora deve rilevarsi che il principio di tempestività dell’azione disciplinare va messo in relazione con il tempo necessario al datore per acquisire una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, nonché della loro riconducibilità al lavoratore. Conseguentemente il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro Cass. 3 maggio 2017, numero 10688 v. anche Cass. numero 1101/2007, Cass. numero 241/2006 Cass. numero 5308/2000 . Nel caso in esame la corte di distrettuale non si è discostata da tali principi, perché ha rilevato come la società datrice di lavoro era venuta a conoscenza del fatti, poi addebitati alla dipendente solo nell’ottobre del 2008, già nel giugno del 2008 ed anche in ragione delle dichiarazioni confessorie della stessa, senza che quindi il tempo trascorso fosse stato necessitato da indagini ulteriori. Tale valutazione, nel merito non sindacabile, è comunque esente da vizi anche sotto il profilo della coerenza logica, oltre che della correttezza giuridica. Il ricorso deve essere pertanto respinto, con condanna della società ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo. Sussistono i presupposto per il pagamento del doppio contributo unificato. P.Q.M. La Corte respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’articolo 13 comma 1 quater DPR numero 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.