Post su Facebook contro l’azienda: la segnalazione di un ‘amico’ porta al licenziamento

Il lavoratore è stato inchiodato da un suo contatto sul social network. Difatti, l’‘amico’ online si è presentato negli uffici della società e ha fatto conoscere le condotte online del dipendente.

Possono costare carissimi gli sfoghi sui social network del lavoratore contro l’azienda. Anche perché scritti e immagini fortemente critici sono facilmente reperibili attraverso i propri contatti online. Esemplare la vicenda che si è conclusa in Cassazione con il licenziamento definitivo di un dipendente di una società pubblica che opera nel ‘settore rifiuti’. A inchiodare l’uomo è stato un suo ‘amico’ di Facebook, che ne ha segnalato all’azienda i post critici Cassazione, ordinanza n. 28878, sez. VI Civile - Lavoro, depositata oggi . Social. Linea di pensiero comune per i giudici prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello il lavoratore, dipendente di una società pubblica, è stato giustamente licenziato per avere pubblicato sul social network Facebook immagini e commenti di natura offensiva nei confronti dell’azienda e dei suoi responsabili . Fatale una denuncia anonima che ha permesso alla società di verificare il comportamento tenuto online dal dipendente. Decisiva però soprattutto la circostanza che concretamente poi una persona si sia presentata negli uffici della società, consentendo di verificare sul profilo Facebook del lavoratore – profilo cui aveva accesso in quanto ‘amico’ – la presenza delle immagini e dei commenti condivisi online e diretti contro l’azienda. Corretta, secondo i giudici di merito, la verifica compiuta dall’azienda. E legittimo, di conseguenza, il licenziamento del lavoratore. E questa visione è condivisa anche dalla Cassazione, che respinge definitivamente le obiezioni proposte dal legale del lavoratore. Una volta accertata la condotta dolosa tenuta dal dipendente, è evidente, secondo i giudici del ‘Palazzaccio’, la lesione irreversibile del vincolo fiduciario con l’azienda. E ciò è sufficiente per sancire la giustezza del provvedimento adottato dalla società e concretizzatosi nel licenziamento del lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - L, ordinanza 11 ottobre – 12 novembre 2018, n. 28878 Presidente Curzio – Relatore De Marinis Rilevato che con sentenza del 25 maggio 2017, la Corte d'Appello di Torino, in sede di reclamo ex art. 1, comma 54, L. n. 92/2012, confermava la decisione resa dal Tribunale di Alessandria e rigettava la domanda proposta da Ma. Se. nei confronti di AMAG Ambiente S.p.A. già Amiu S.p.A. , avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli per aver pubblicato sul social network Facebook, a far data dal 26 agosto 2015, immagini e commenti di natura offensiva nei confronti della Società datrice e dei suoi responsabili che la decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto provate, a prescindere dal carattere anonimo della denuncia, le circostanze su cui è fondata la tesi della riferibilità al Se. dei comportamenti contestati, ovvero l'aver la persona in concreto presentatasi presso gli uffici Amag segnalato e consentito di verificare la presenza sul profilo Facebook del Se., cui aveva accesso in quanto amico , la presenza delle immagini e dei commenti poi contestati, legittime, ai sensi dell'art. 8, L. n. 300/1970, in quanto volte ad accertare non le opinioni bensì atteggiamenti rilevanti ai fini della verifica dell'attitudine professionale, sussistente la potenzialità diffusiva del materiale postato e congrua la reazione aziendale in relazione alla disciplina collettiva invocata ed all'idoneità lesiva del vincolo fiduciario tra le parti da riconnettersi alla condotta da qualificarsi dolosa del lavoratore che per la cassazione di tale decisione ricorre il Se., affidando l'impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la Società che la proposta del relatore, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c, è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio non partecipata che entrambe le parti hanno poi presentato memoria Considerato che, con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, lamenta a carico della Corte territoriale il non aver dato seguito alle verifiche istruttorie suggerite dal ricorrente ai fini dell'accertamento della riconducibilità al medesimo di qualsivoglia frase e/o fotografia rinvenuta sul profilo Facebook visionato dai testi e dello stesso profilo che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, L. n. 604/1966, 8, L. n. 300/1970 e 2697 c.c., il ricorrente imputa alla Corte territoriale di aver disatteso la regola che onera il datore di lavoro della prova della ricorrenza della giusta causa, per aver ritenuto irrilevante ai fini dell'assolvimento di tale onere l'identificazione del denunciante anonimo ed aver accollato al ricorrente, surrettiziamente invocando il divieto ex art. 8 L. n. 300/1970 a carico del datore di indebite interferenze nella sfera privata del lavoratore, la prova della circoscritta potenzialità diffusiva dei post pubblicati che, nel terzo motivo, il dedotto vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, è prospettato in relazione all'omessa considerazione dei rilievi avanzati dal ricorrente in ordine alla stessa ammissibilità dell'interrogatorio libero dell'Amministratore delegato della Società e comunque alle dichiarazioni dal medesimo rese nonché in ordine alla documentazione prodotta dalla Società a comprova della riferibilità al ricorrente del materiale rinvenuto sul social che, rilevata l'inammissibilità del primo e del terzo motivo, stante la non deducibilità in questa sede del vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio a fronte del conforme esito delle pronunzie relative ad entrambi i gradi di merito, si deve ritenere l'infondatezza del secondo motivo, nel quale peraltro finiscono per convergere anche le censure formulate negli altri due, incentrandosi l'impugnazione essenzialmente sul rilievo del mancato assolvimento da parte della Società datrice -surrettiziamente superato dalla Corte territoriale con argomentazioni implicanti l'inversione dell'onere probatorio -appunto di tale onere, alla medesima Società incombente con riguardo alla ricorrenza della giusta causa di recesso, infondatezza che discende dalla non ravvisabilità del denunciato malgoverno delle regole sull'onere della prova, per essere il convincimento della Corte territoriale basato su rilievi, immuni da vizi logici e giuridici e neppure qui fatti oggetto di specifiche censure, che assumono la prova sul punto attinta da quanto allegato e chiesto di provare dalla Società datrice a riguardo onerata che, pertanto condividendosi la proposta del relatore, il ricorso va rigettato che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.