Licenziato dopo la condanna per violenza sessuale: il patteggiamento non esclude la gravità della condotta

Legittima la sanzione del licenziamento inflitta ad un dipendente dell’Agenzia delle Entrate condannato, seppur con pena patteggiata, per il delitto di violenza sessuale non aver contestato la sussistenza del fatto in sede penale, presuppone un’assunzione di responsabilità.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20562/18, depositata il 6 agosto. La vicenda. La Corte d’Appello di Lecce confermava il rigetto del ricorso presentato da un lavoratore licenziato dall’Agenzia delle Entrate dopo essere stato condannato alla pena patteggiata di 2 anni di reclusione per il reato di concorso in violenza sessuale commesso a danno di una minorenne. La reazione della parte datoriale alla notizia della condanna diffusa dalla stampa era fondata sull’indubbia gravità della condotta che, anche se realizzata al di fuori del luogo di lavoro, giustificava il licenziamento senza preavviso perché idonea a compromettere il vincolo fiduciario e a ledere l’immagine e la credibilità dell’ufficio tributario. Il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione. La portata della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile. Premettendo che la sentenza di patteggiamento non può essere equiparata ad una di condanna, il ricorrente si duole per non aver la Corte territoriale autonomamente valutato i fatti, che, sempre secondo il ricorrente, non erano stati dimostrati dalla parte datoriale. Le doglianze risultano infondate alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce alla sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p. piena idoneità quale elemento di prova nel giudizio civile, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità . In tale contesta resta ferma la possibilità per il giudice civile di procedere ad una valutazione autonoma, nel contraddittorio tra le parti, di ogni elemento dotato di efficacia probatoria e dunque anche delle prove raccolte nel processo penale, anche se ne sia mancato un vaglio critico in quella sede per l’avvenuta definizione del procedimento ai sensi dell’art. 444 c.p La sentenza impugnata si è correttamente attenuta a tali principi valorizzando sia la sentenza di applicazione della pena, sia le dichiarazioni rese dalla parte offesa nell’incidente probatorio confermate anche delle dichiarazioni testimoniali. Tornando al merito dell’impugnazione, il Collegio ricorda che la giusta causa del licenziamento costituisce una nozione ascrivibile alle c.d. clausole generali e richiede dunque di essere specificata in sede interpretativa secondo la valorizzazione di fatti esterni relativi alla coscienza generale che dei principi richiamati dalla disciplina codicistica. La giusta causa può dunque ricomprendere anche condotte extra lavorative – come nel caso di specie – che, seppur tenute appunto al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti la prestazione, possano comunque ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti. Principio che trova applicazione ancor più rigoroso nel caso di rapporti di lavoro costituiti per l’espletamento di un servizio pubblico dove assumono rilievo i valori costituzionali dell’imparzialità e buon andamento della PA e del dovere dei cittadini a cui siano affidate funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore. In conclusione, il ricorso viene rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 maggio – 6 agosto 2018, n. 20562 Presidente Manna – Relatore Di Paolantonio Fatti di causa 1. La Corte d’ Appello di Lecce ha respinto il reclamo ex articolo 1, comma 58, della legge n. 92/2012 proposto da D.L.G. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza di rigetto del ricorso, volto ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato dall’Agenzia delle Entrate il 10 marzo 2013 e la conseguente condanna dell’amministrazione alla reintegrazione ed al risarcimento del danno. 2. La Corte territoriale, premesso che al reclamante era stata applicata ex articolo 444 cod. proc. pen. la pena di anni 2 di reclusione per il delitto di cui agli artt. 81 e 609 bis cod. pen. commesso in danno di una quindicenne, ha escluso l’eccepita tardività della contestazione perché l’Agenzia aveva appreso la notizia solo il 22 dicembre 2012, allorquando la stessa era stata resa nota dalla stampa. 3. Il giudice d’appello ha ritenuto infondato anche il motivo di reclamo inerente l’asserita violazione del principio della necessaria corrispondenza fra contestazione e ragioni del recesso ed ha rilevato che il contenuto della lettera di licenziamento era perfettamente sovrapponibile a quello dell’incolpazione, con la quale l’addebito era stato esattamente individuato mediante il richiamo all’articolo di stampa, alla natura del reato, all’età della vittima, all’epoca di consumazione del delitto. 4. Premesso che anche la sentenza di patteggiamento costituisce elemento di prova nel giudizio civile, la Corte leccese ha evidenziato che i fatti dovevano ritenersi provati alla luce delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dai sommari informatori, i quali avevano riferito circostanze che riscontravano la deposizione della minore. Quest’ultima, ingenua ed inesperta, era stata raggirata dal D.L. il quale, pur essendo consapevole dell’età della ragazza, non aveva esitato a corteggiarla e a prospettarle un futuro insieme. La condotta, di indubbia gravità, sebbene tenuta al di fuori del luogo di lavoro, giustificava il licenziamento senza preavviso, in quanto idonea a compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e a danneggiare l’immagine e la credibilità dell’ufficio tributario. 5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.L.G. sulla base di otto motivi ai quali ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate. Ragioni della decisione 1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex articolo 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e mancata applicazione dell’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, dell’articolo 1362 cod. civ., degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’articolo 2109 cod. civ., degli artt. 2104 e 2119 cod. civ., dell’articolo 18 Legge n. 300 del 1970 nonché difetto assoluto di motivazione-motivazione apparente - erronea valutazione delle risultanze nella loro interezza . Premesso che la sentenza di patteggiamento non può essere equiparata a quella di condanna, il D.L. evidenzia che la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere autonomamente all’accertamento dei fatti. La condotta addebitata, in realtà, non era stata provata, non essendo a tal fine sufficienti le dichiarazioni rese dalla minore e dai sommari informatori, i quali avevano riferito circostanze apprese de relato. 1.2. La medesima rubrica il ricorrente antepone al secondo motivo con il quale, oltre a ribadire che i fatti non erano stati provati dall’amministrazione, deduce che il procedimento disciplinare era stato avviato sulla base di una contestazione generica ed indeterminata, in quanto l’Agenzia si era limitata a richiamare la sentenza di patteggiamento. 1.3. Con la terza critica si sostiene che il licenziamento doveva essere ritenuto illegittimo, illecito e nullo per insussistenza del fatto contestato in quanto la minore, che aveva ammesso nel corso dell’incidente probatorio di nutrire sentimenti profondi nei confronti del D.L. , si era spinta a tenere comportamenti il più delle volte al di là della soglia della normalità , sebbene il ricorrente facesse di tutto per allontanarla. 1.4. Il quarto motivo denuncia manifesta sproporzione fra i fatti contestati e la sanzione espulsiva-contrarietà ad espressa previsione del C.C.N.L. applicato al rapporto di lavoro-difetto assoluto di motivazione-omessa valutazione delle risultanze nella loro interezza . Il ricorrente eccepisce l’inapplicabilità dell’articolo 67, comma 6, lett. b del CCNL per il personale del comparto agenzie fiscali e rileva che nella specie non era intervenuta alcuna sentenza di condanna passata in giudicato. Aggiunge che i fatti non potevano essere ricondotti alla previsione della lettera d perché privi della gravità che sola può giustificare il provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro. 1.5. Con la quinta critica si addebita alla sentenza impugnata di avere erroneamente escluso l’eccepita violazione del principio di immutabilità della contestazione e si insiste nel sostenere che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, l’Agenzia aveva irrogato la sanzione valorizzando fatti mai contestati ossia l’abuso delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della minore, l’offerta di una somma a titolo di risarcimento del danno, la pendenza del ricorso proposto dal Procuratore Generale in considerazione della estrema riprovevolezza della condotta, la lesione prodotta all’immagine dell’Agenzia, l’avere tenuto le condotte in occasione di congedi parentali. 1.6. Il ricorrente sostiene con il sesto motivo che doveva essere esclusa la tempestività della contestazione in quanto i fatti risalivano all’anno 2009 e non poteva assumere alcun rilievo la circostanza che l’amministrazione ne fosse venuta a conoscenza solo nel dicembre del 2012. Richiama giurisprudenza di questa Corte formatasi in relazione all’articolo 7 della legge n. 300/1970 per sostenere che i principi generali di correttezza e buona fede sarebbero violati ogni qual volta il potere disciplinare viene esercitato in relazione a fatti risalenti nel tempo. 1.7. La settima critica addebita alla sentenza impugnata di non avere considerato che la valutazione sulla gravità del fatto addebitato deve tener conto di una pluralità di elementi aspetti afferenti alla natura ed alla qualità del rapporto, grado di affidabilità richiesto al dipendente, portata soggettiva del fatto, circostanze del suo verificarsi, motivi, intensità dell’elemento intenzionale, circostanze del caso concreto che se valutati dall’Amministrazione non avrebbero consentito di ritenere irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario. 1.8. La medesima censura il ricorrente ripropone con l’ottavo motivo che sostanzialmente addebita all’Agenzia delle Entrate di non avere svolto alcuna indagine in relazione all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente. 2. Il ricorso è infondato in tutte le sue articolazioni. Occorre premettere che quando con il ricorso per cassazione è denunziata violazione e falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’articolo 360 cod. proc. civ. comma 1, n. 3, deve essere dedotto non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni intese a dimostrare motivatamente in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina diversamente la censura è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte Cass. n. 328/2007 Cass. n. 21611/2013 Cass. n. 20957/2014 Cass. n. 635/2015 . Nella specie il ricorrente, nell’anteporre a tutti i motivi la medesima rubrica, che richiama l’articolo 12 delle preleggi, gli artt. 1362, 2109, 2104 e 2119 cod. civ., l’articolo 18 della legge n. 300/1970, gli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., non specifica, in relazione a ciascuna delle norme invocate, quale delle affermazioni contenute nella. sentenza sarebbe con la stessa in contrasto, e pertanto deve ritenersi formulata in modo non idoneo la deduzione dell’errore di diritto, individuato solo per mezzo della preliminare indicazione della disposizione asseritamente violata. L’esame, conseguentemente, sarà limitato alle sole violazioni adeguatamente illustrate mediante la deduzione delle ragioni per le quali il giudice di merito avrebbe violato la norma invocata. 3. Questa Corte ha già affermato che la sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 c.p.p. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una dèterminata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità . Cass. n. 30328/2017 si rimanda anche a Cass. n. 5313/2017 Cass. n. 3980/2016 Cass. S.U. n. 18701/2012 . È stato altresì precisato che il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale. Cass. n. 2168/2013 cfr. anche Cass. n. 1593/2017 e Cass. 5317/2017 . Ai richiamati principi di diritto si è correttamente attenuta la sentenza impugnata che, da un lato, ha valorizzato la sentenza di applicazione della pena per il delitto di cui agli artt. 81 e 609 bis cod. pen., dall’altro ha proceduto ad un attento esame delle dichiarazioni rese dalla parte offesa nel corso dell’incidente probatorio, evidenziando che le stesse avevano trovato riscontro nelle sommarie informazioni testimoniali pag. 6 e 7 . 3.1. Il ricorso, infondato nella parte in cui si duole della valorizzazione della sentenza pronunciata ex articolo 444 cod. proc. pen. primo motivo , è poi inammissibile lì dove contesta, con la terza critica, la valutazione delle risultanze processuali, assumendo che non sarebbe stata provata la riferibilità delle accuse contestate al D.L. e che non sarebbe stato apprezzato il comportamento tenuto dalla parte offesa il più delle volte al di là della soglia della normalità . Occorre premettere che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa fra le più recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921 Cass. 11.1.2016 n. 195 Cass. 30.12.2015 n. 26110 . 3.2. In tema di licenziamento, poi, si è da tempo evidenziato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la disposizione codicistica tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito Cass. 16.5.2016 n. 10017 che richiama Cass. 2.3.2011 n. 5095 e Cass. 26.4.2012 n. 6498 al quale è anche riservata la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili ai fini dell’accertamento dei fatti rilevanti per la decisione, scelta censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, nei limiti consentiti dall’articolo 360 n. 5 cod. proc. civ. nel testo applicabile ratione temporis, e non della violazione di legge Cass. 20.9.2013 n. 21603 Cass. 18.3.2013 n. 6715 Cass. 5.7.2016 n. 13716 . 3.3. Il ricorrente, pur denunciando nella rubrica del terzo motivo la violazione di plurime disposizioni di legge l’articolo 12 delle preleggi, gli artt. 1362, 2109, 2104 e 2119 cod. civ., l’articolo 18 della legge n. 300/1970, gli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. , sostanzialmente si duole della ricostruzione del fatto operata dal giudice del merito, per cui la censura non è riconducibile al vizio di cui all’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ La stessa, poi, non è ammissibile ai sensi del n. 5 della disposizione citata perché nei giudizi di appello instaurati con ricorso depositato in data successiva all’11 settembre 2012 nella specie il reclamo risulta depositato il 14.7.2016 , trova applicazione l’articolo 348 ter comma 5 cod. proc. civ., introdotto dall’articolo 54 del d.l. n. 83/2012, convertito dalla legge n. 134/2012, sicché, qualora il giudice del gravame abbia confermato la decisione di primo grado, il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo, deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse Cass. n. 26774/2016 Cass. n. 5524/2014 . Detta condizione non ricorre nella fattispecie, nella quale, al contrario, emerge con evidenza dalla stessa motivazione della sentenza impugnata la piena adesione del giudice del reclamo alla ricostruzione del fatto posta alla base della pronuncia di rigetto dell’opposizione. 4. È infondato anche il secondo motivo, con il quale il ricorrente insiste nel sostenere la genericità della contestazione, perché la Corte territoriale ha accertato pag. 5 che nell’atto di avvio del procedimento disciplinare l’Amministrazione aveva richiamato l’articolo apparso sulla stampa locale e la sentenza di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen., sottolineando, quanto alla rilevanza disciplinare della condotta, che i comportamenti per i quali si era proceduto in sede penale, pur se inerenti alla vita privata, dovevano ritenersi non conformi allo status di dipendente pubblico e altamente lesivi dell’immagine dell’Agenzia delle Entrate . La contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e, quindi, la stessa deve contenere le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati. È, pertanto, ammissibile, perché non lede in alcun modo il diritto di difesa, la contestazione formulata per relationem mediante il richiamo agli atti del procedimento penale, del quale il lavoratore sia già stato portato a conoscenza, posto che il rinvio è idoneo a garantire il rispetto del contraddittorio e del principio di correttezza Cass. n. 10662/2014, Cass. n. 23269/2017, Cass. n. 25485/2017, Cass. 29240/2017, Cass. n. 6894/2018 . 5. Non sussiste la violazione del principio dell’immutabilità della contestazione quando, come nella specie, il fatto contestato resta invariato e mutano solo l’apprezzamento e la valutazione che dello stesso fatto vengono dati, richiamandosi le ulteriori acquisizioni del procedimento disciplinare solo per meglio circoscrivere l’addebito, che resta ontologicamente identico Cass. n. 11159/2018 Cass. n. 22127/2016 Cass. n. 19921/2015 . A detto principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, si è correttamente attenuto il giudice del reclamo il quale, da un lato, ha accertato la sovrapponibilità fra la condotta descritta nell’atto di avvio del procedimento e quella in relazione alla quale la sanzione era stata inflitta dall’altro ha evidenziato che il richiamo all’impugnazione proposta dalla Procura Generale, al danno all’immagine patito dall’Agenzia, alla concomitanza della condotta con congedi parentali, era finalizzato solo a rimarcare la gravità dell’addebito, che restava immutato nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi. Ne discende l’infondatezza del quinto motivo. 6. La sesta censura, con la quale il ricorrente insiste nel sostenere che la contestazione doveva essere ritenuta tardiva, è inammissibile, perché non coglie la ratio della sentenza impugnata e svolge argomentazioni non specificamente riferibili alla motivazione della decisione gravata. La Corte territoriale, infatti, ha correttamente richiamato i termini e la sequenza procedimentale di cui all’articolo 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, evidenziando che la notizia era stata appresa dalla Direzione Regionale il 24 dicembre 2012, la contestazione era stata effettuata il 29 gennaio 2013, l’audizione personale dell’incolpato era stata disposta per il successivo 29 febbraio. Ha aggiunto che il reclamante non aveva neppure allegato che l’esistenza del procedimento penale fosse tata portata a conoscenza dell’Amministrazione prima della pronuncia della sentenza ex articolo 444 cod. proc. pen., resa nota dalla stampa locale. Il motivo svolge argomentazioni non pertinenti perché richiama l’articolo 7 della legge n. 300/1970 e non la disciplina speciale dettata per l’impiego pubblico contrattualizzato dall’articolo 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, inserito dal d.lgs. n. 150/2009, che fa decorrere i termini per l’attivazione del procedimento dalla data in cui il responsabile della struttura, se competente, comma 2 o l’ufficio per i procedimenti disciplinari comma 4 acquisiscono la notizia dell’infrazione commessa dal dipendente. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure non pertinenti rispetto al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’articolo 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., giacché il requisito di specificità del motivo di ricorso implica la necessaria riferibilità alla decisione di cui si chiede la cassazione, non essendo ammissibili nel giudizio di legittimità doglianze non aventi specifica attinenza alle ragioni che sorreggono la sentenza sottoposta ad impugnazione cfr. fra le più recenti Cass. n. 10317/2018, Cass. n. 6137/2018, Cass. n. 3331/2018 . 7. Il quarto, il settimo e l’ottavo motivo possono essere trattati congiuntamente perché investono il capo della sentenza relativo alla ritenuta sussistenza della giusta causa e della necessaria proporzionalità fra addebito contestato e sanzione inflitta. Non sussiste la denunciata violazione dell’articolo 67 del CCNL 28.5.2004 per il comparto delle Agenzie Fiscali perché la Corte territoriale non ha sussunto la condotta addebitata nell’ipotesi prevista dal comma 6, lett. b, che richiama la condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio . , bensì ha ritenuto applicabile la lettera d , che si riferisce alla commissione in genere - anche nei confronti di terzi - di fatti o atti, anche dolosi, che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione provvisoria del rapporto di lavoro . La disposizione in parola ricalca sostanzialmente la nozione di giusta causa di cui all’articolo 2119 cod. civ. che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, ricomprende anche condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività cfr. fra le più recenti Cass. n. 26679/2017, Cass. n. 8132/2017, Cass. n. 24032/2016, Cass. 17166/2016, Cass. n. 776/2015 . È stato sottolineato anche che comportamenti illeciti del dipendente, che possono essere considerati non di gravità tale da giustificare l’espulsione da un’azienda svolgente un’attività puramente privatistica, possono al contrario rompere il legame fiduciario ed il connesso requisito di affidabilità che sta alla base di un rapporto di lavoro costituito per l’espletamento di un servizio pubblico Cass. n. 776/2015 . In tal caso, infatti, vengono in rilievo principi generali di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della PA articolo 97 Cost. nonché il principio secondo cui i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore articolo 54, secondo comma, Cost. , la cui applicazione nei confronti dei dipendenti delle Agenzie fiscali è particolarmente severa in quanto dette Agenzie rappresentano lo Stato nell’esercizio di una delle sue funzioni più autoritative - il prelievo fiscale - e i loro dipendenti devono operare in modo da guadagnare sempre più, nell’esercizio di quella funzione, il rispetto e la fiducia che i cittadini devono alle istituzioni . Cass. n. 3622/2018 . A detti principi di diritto, che vanno qui ribaditi perché condivisi dal Collegio, si è correttamente attenuta la Corte leccese, la quale ha richiamato gli obblighi imposti ai dipendenti della P.A. dal codice di comportamento, finalizzati a creare un rapporto di fiducia e collaborazione tra cittadini ed amministrazione, ed ha evidenziato che l’attività di controllo fiscale esige credibilità e trasparenza, valori, questi, non compatibili con l’odiosa condotta di prevaricazione sessuale posta in essere dal D.L. . Il giudice del reclamo ha compiutamente valutato la condotta nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, sottolineando anche la particolare sconsideratezza ed irresponsabilità del ricorrente, sicché del tutto priva di fondamento è la doglianza relativa all’asserito difetto assoluto di motivazione . 8. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico del D.L. nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla legge n. 228/2012, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. articolo 13, comma 1-bis.