L’onere probatorio del datore di lavoro per resistere all'""accusa"" di demansionamento

In tema di demansionamento del lavoratore, quando questi alleghi un atto di assegnazione di mansioni inferiori riconducibile all’inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro, ex art. 2103 c.c.,incombe sul datore stesso l’onere di dimostrare l’esatto adempimento del proprio obbligo.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con sentenza n. 17365/18 depositata il 3 luglio. La vicenda. La Corte d’Appello condannava la società datrice di lavoro al risarcimento del danno da demansionamento sia patrimoniale sia biologico permanente in favore del lavoratore, affermando che è onere del datore di lavoro fornire una ragione delle proprie scelte, soprattutto se le modifiche riguardino un solo dipendente. La società datrice di lavoro richiede cassazione di tale decisione. L’onere del datore di lavoro di fornire prove. Stante al concreto mutamento in peius delle mansioni lavorative, affermano gli Ermellini che quando il lavoratore alleghi un demansionamento che sia riconducibile all’inesatto adempimento dell’obbligo che grava sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esatto adempimento del proprio obbligo o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile . Dunque, la Suprema Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 aprile – 3 luglio 2018, n. 17365 Presidente Nobile – Relatore Arienzo Fatti di causa 1. Con sentenza del 28.11.2012, la Corte di appello di Cagliari - sez. distaccata di Sassari - in riforma della decisione del locale Tribunale, condannava la società Camporosso a r. l. al risarcimento, in favore di P.A. , del danno da demansionamento, liquidato in complessivi Euro 1054,00 per danno patrimoniale, Euro 500,00 mensili dall’ottobre 2005 alla data di restituzione della mansioni e dell’orario, ivi inclusi i periodi i malattia, Euro 12.000,00 per danno biologico permanente, tutti al valore attuale. 2. La Corte rilevava che, con riguardo al dedotto immotivato mutamento dell’orario lavorativo, con sei ore di pausa ed impossibilità del lavoratore di recarsi alla propria abitazione, distante dal luogo di lavoro, si era verificata un’illegittima condotta datoriale e che l’adibizione a mansioni meramente manuali, con privazione di un apporto collaborativo nel contesto aziendale, senza più inserimento nei turni dei manutentori a partire dal 2007 configurava anch’essa un comportamento illegittimo, attesa la pacificità dei fatti e la conferma avutane dai testi quanto all’affidamento al P. di compiti semplici rispetto ad un inquadramento di operaio specializzato. 3. Osservava la Corte che, fermo restando il potere imprenditoriale quanto all’organizzazione del lavoro, era onere dell’imprenditore fornire una ragione delle proprie scelte, specie laddove le modifiche avessero riguardato un solo dipendente, nella specie facente parte di un gruppo di manutentori, ed avessero comportato, dal punto di vista dell’orario lavorativo, una prestazione più gravosa, con preclusione di ogni altra attività e, quanto ai compiti affidatigli, un declassamento rispetto ai precedenti lavori di manutenzione elettrica. Premesso che tali comportamenti illegittimi avevano causato al P. una malattia, accertata da c.t.u. e ritenuta in dipendenza casuale con il dedotto mutamento delle condizioni di lavoro, la quantificazione del pregiudizio veniva effettuata nella misura, equitativamente determinata, di 500,00 Euro al mese, dalla modifica dell’orario al momento di restituzione delle mansioni originarie e degli orari precedentemente osservati. 4. Di tale decisione domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a cinque motivi, cui ha resistito, con controricorso, il P. , che ha illustrato le proprie difese nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo, è denunziata insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’orario di lavoro, sostenendosi che la Corte di Sassari, senza ragionevole motivazione, abbia ritenuto che la condotta datoriale di modifica dell’orario lavorativo, pur se astrattamente legittima, era trasmodata in arbitrio finalizzato a vessare e discriminare il lavoratore. 2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione a dedotta inversione dell’onere della prova, per essere stato ritenuto che incombesse all’imprenditore fornire una ragione della sua scelta di modificare l’orario lavorativo per sottrarsi all’onere risarcitorio, con ciò richiedendosi una prova, di segno negativo, dell’insussistenza di una condotta illegittima a carico del datore. 3. Il terzo motivo ascrive alla sentenza impugnata violazione o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 414, n. 4, c.p.c., per avere la Corte, facendo propri i motivi di censura dell’atto di gravame, affermato, in assenza di ogni riscontro probatorio, l’avvenuta umiliazione demansionamento del lavoratore. 4. Col quarto motivo, ci si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., con riferimento alla condanna al risarcimento in relazione ad un asserito pregiudizio, in assenza di elementi atti alla sua individuazione e di ogni prova di demansionamento. Si richiama Cass. a s.u. n. 6572/2006, che nega ogni automatismo tra demansionamento e danno. 5. Con il quinto motivo, si deduce omessa, insufficiente motivazione in relazione alla quantificazione del danno, effettuata, asseritamente, senza esplicitarne il sotteso ragionamento, in assenza di allegazioni della parte sulla natura e caratteristiche del danno. 6. Il primo ed il quinto motivo risultano mal prospettati in relazione al nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., applicabile alle sentenze pubblicate, come quella qui impugnata, dopo il 12.9.2012. 7. Il secondo motivo è infondato. È, invero, sufficiente richiamare, per disattenderne le ragioni, riferite alla denunciata inversione dell’onere probatorio quanto al ravvisato demansionamento della lavoratrice, i principi affermati da Cass. 18.1.2018 n. 1169, secondo cui, quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esatto adempimento del proprio obbligo o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile cfr., tra le altre, oltre alla richiamata Cass. 1169/2018, anche Cass. 3 marzo 2016, n. 4211 Cass. 6 marzo 2006, n. 4766 . Nel rispetto dell’illustrato principio di diritto, la Corte del merito ha quindi operato una valutazione probatoria in ordine alla mancata dimostrazione da parte del datore di lavoro di compiti coerenti con il bagaglio tecnico di cui era dotato il lavoratore, destinato a generiche incombenze ritenute prive di attinenza con le precedenti mansioni svolte nel campo della manutenzione elettrica. Tale valutazione è evidentemente insindacabile per le ragioni dette. 8. Quanto alla prova del demansionamento e del pregiudizio conseguitone, la motivazione dell’avvenuta dequalificazione è svolta con richiamo anche a deposizioni di testi ed al concreto mutamento in peius dei compiti lavorativi seppure già di modesto contenuto e specializzazione. 9. Peraltro, una violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. non può dipendere o essere in qualche modo dimostrata dall’erronea valutazione del materiale probatorio. Al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 cod. proc. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge o abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici, ma tale situazione non quella rappresentata nel quarto motivo, sicché la relativa doglianza è mal posta. Nella specie, la violazione della norma denunciata è tratta, in maniera incongrua e apodittica, dal mero confronto con le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito. Di tal che la stessa - ad onta dei richiami normativi in essi contenuti - si risolve nel sollecitare una generale rivisitazione del materiale di causa e nel chiederne un nuovo apprezzamento nel merito, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione. 10. Sul danno e sulla sua quantificazione, si è fatto riferimento in sentenza anche alla patologia sofferta dal P. in periodo prossimo al mutamento delle condizioni lavorative ed al contenuto di C.t.u. che ne aveva accertato la riconducibilità causale e, in termini più generali, con riferimento ai criteri giuridici applicabili in relazione alla valutazione da compiersi in tema di demansionamento è sufficiente il richiamo ai principi affermati da ultimo, da Cass. 10.1.2018 n. 330, secondo cui, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto cfr., inoltre, ex plurimis, Cass. 18.8.2016 n. 17163, Cass. 1.3.2016 n. 4031, cass. 4.2.2015 n. 2016, Cass. 26.1.2015 n. 1327, Cass. 19.3.2013 n. 6797, Cass. 23.3.2012 n. 4712 . 11. Nella specie i principi suesposti hanno trovato corretta applicazione nell’esame compiuto dal giudice del merito, che ha evidenziato la sostanziale diversità dei nuovi compiti affidati al lavoratore quali indicati nella parte narrativa della presente decisione, ritenuti inidonei a consentire il mantenimento del bagaglio di competenze tecniche acquisito. 12. Le esposte considerazioni conducono al rigetto del ricorso della società. 13. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente società e sono liquidate in dispositivo in favore del P. . 14. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis, del citato D.P.R