Impiccarono un manichino raffigurante Marchionne: licenziati

Nel giugno del 2014 cinque lavoratori misero in scena in due giornate diverse la macabra rappresentazione. Durissima la reazione dei vertici Fiat, considerata legittima ora dai Giudici della Cassazione, che hanno smentito la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello di Napoli, che aveva annullato il licenziamento e ordinato la reintegrazione dei dipendenti.

Era l’estate del 2014, e fu enorme il clamore provocato dalla protesta – macabra – messa in atto da cinque lavoratori dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco e consistita nella impiccagione di un manichino raffigurante l’amministratore delegato Sergio Marchionne. Ora, dopo quattro di battaglia giudiziaria, è definitivo, e non più contestabile, il loro licenziamento. A dare ragione all’azienda hanno provveduto i Giudici del Palazzaccio, ritenendo che le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori hanno travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile, mediante offese gratuite, spostando una dialettica sindacale anche aspra, ma riconducibile ad una fisiologica contrapposizione tra lavoratori e datore di lavoro, su un piano che evoca uno scontro violento e sanguinario, fine a sé stesso, senza alcun interesse ad un confronto Cassazione, sentenza n. 14527/18, Sezione Lavoro, depositata oggi . Rappresentazione. Ben due gli episodi contestati l’impiccagione del manichino simboleggiante Marchionne viene messa in scena prima il 5 giugno nell’area antistante il fabbricato aziendale di Nola e all’ingresso della sede regionale della Rai e poi il 10 giugno dinanzi l’ingresso dello stabile aziendale di Pomigliano d’Arco . A rendere ancora più cruenta la scena ci sono anche tute macchiate di rosso a mo’ di sangue , come rappresentazione di alcuni operai della Fiat suicidatisi. E per chiudere la macabra rappresentazione viene anche realizzato un funerale con contestuale affissione di un manifesto, a mo’ di testamento con cui si attribuiscono a Marchionne le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la deportazione di altri operai allo stabilimento di Nola . Durissima la reazione dell’azienda, che il 20 giugno ufficializza il licenziamento dei cinque operai responsabili della protesta. Il provvedimento viene però censurato, a sorpresa, dai giudici della Corte d’Appello di Napoli, i quali, smentendo la valutazione compiuta dal Tribunale di Nola, considerano i due episodi frutto dell’ esercizio del legittimo diritto di critica dei dipendenti . In particolare, i giudici napoletani richiamano la lettera lasciata da uno dei dipendenti morto suicida, che riconduceva la ragione della tragica scelta alla propria condizione lavorativa e sottolineano che in entrambe le manifestazioni sono mancate violenza o espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della denuncia che si voleva realizzare , trattandosi, peraltro, di fatti già portati all’attenzione dell’opinione pubblica . Critica. Alla luce della decisione ufficializza dalla Corte d’Appello di Napoli, la Fiat deve riconoscere ai cinque dipendenti la reintegrazione nel loro posto di lavoro . Ma quest’ultimo passaggio, ora è ufficiale, non si concretizzerà mai A smentire le valutazioni dei Giudici napoletani ci hanno pensato i magistrati della Cassazione, accogliendo le obiezioni proposte dai legali dell’azienda e ritenendo evidente che la rappresentazione scenica, considerata in tutti i suoi elementi il patibolo, il manichino impiccato con la foto di Marchionne, lo scritto affisso al palo a mo’ di testamento, le tute macchiate di vernice rossa a mo’ di sangue ha attribuito all’amministratore delegato della Fiat qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendolo al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione e travalicando dunque il limite della tutela della persona umana . Per i Giudici del Palazzaccio, a fronte di una protesta che ha travalicato i limiti di rispetto della democrazia civile , è indiscutibile che il comportamento tenuto dai cinque dipendenti è idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, introducendo in azienda una conflittualità che trascende il regolare svolgimento e la fisiologica dialettica del rapporto di lavoro . Sia chiaro, non è in discussione il diritto di critica del lavoratore verso le decisioni aziendali , ma esso non può realizzarsi – come invece avvenuto, secondo i giudici, in questa vicenda – con l’attribuzione all’impresa o ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio . Ecco perché i cinque dipendenti protagonisti della macabra protesta debbono dire addio al loro posto di lavoro.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 marzo – 6 giugno 2018, n. 14527 Presidente Manna – Relatore Boghetich Fatti di causa 1. Con sentenza depositata il 27.9.2016, la Corte d'appello di Napoli, in riforma della decisione del Tribunale di Nola, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato il 20.6.2014 da FCA Italy s.p.a. a Do. Mi., An. Mo., Ma. Cu., Ma. Na. e Ro. Fa. e condannava la società alla , reintegrazione nel posto di lavoro. 2. La Corte territoriale escludeva la sussistenza della giusta causa e, in particolare, la ricorrenza di un grave nocumento morale o materiale a danno della società richiesto dall'art. 32, lett. b , del contratto collettivo specifico di lavoro, ritenendo che la macabra rappresentazione scenica - nell'area antistante il fabbricato aziendale di Nola e all'ingresso della sede regionale della Radiotelevisione italiana, in data 5.6.2014, e dinanzi l'ingresso dello stabile aziendale di Pomigliano D'Arco, il 10.6.2014 - del finto suicidio dell'amministratore delegato della società tramite impiccagione su un patibolo accerchiato da tute macchiate di rosso a mò di sangue e del successivo funerale con contestuale affissione di un manifesto, a mò di testamento, ove si attribuivano all'amministratore stesso le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la deportazione di altri allo stabilimento di Nola, dovesse essere inquadrata nell'esercizio del legittimo diritto di critica dei dipendenti, in quanto rispettosa dei limiti di continenza sostanziale per la rispondenza al criterio della verità soggettiva, in considerazione della lettera lasciata da uno dei dipendenti morto suicida che riconduceva la ragione della tragica scelta alla condizione lavorativa e delle opinioni dello stesso tenore rilasciate da altra dipendente suicidatasi nel maggio 2014 e di continenza formale per l'assenza di violenza o di espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della denuncia che si voleva realizzare e trattandosi di fatti già portati all'attenzione dell'opinione pubblica . 3. Per la cassazione della sentenza la società ha proposto ricorso, affidato a undici motivi, illustrati da memoria, cui hanno resistito i lavoratori con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con i primi due motivi di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 21 e 2 Cost. anche in relazione all'art. 2119 cod.civ. in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, accolto un'inaccettabile dilatazione del diritto di critica, sottraendolo ad ogni contemperamento con l'interesse dell'altra parte al rispetto della verità oggettiva dei fatti e della correttezza delle modalità di espressione. La Corte distrettuale ha considerato, in modo del tutto apodittico, sussistente il nesso causale fra i suicidi di due lavoratori e le loro determinazioni volitive nonostante la carenza di qualsivoglia prova al riguardo del pari, ha trascurato la falsità dell'attribuzione al vertice aziendale della deportazione di lavoratori presso lo stabilimento di Nola a fronte di due sentenze, di I e II grado che hanno dichiarato legittimo il trasferimento di un gruppo di lavoratori . Mutuando il concetto di verità putativa dalla giurisprudenza formatasi sul diritto di cronaca e di critica in sede civilistica, la Corte distrettuale ha trascurato il consolidato orientamento del giudice di legittimità che ha chiarito come la verità . . . anche soltanto putativa ossia ritenuta soggettivamente come corrispondente al vero può rappresentare un esimente in quanto sia frutto di un serio diligente lavoro di ricerca e controllo del giornalista non solo sulla fonte, ma anche sulla verità sostanziale della notizia condizione che non sussiste quando, pur essendo veri singoli fatti riferiti, siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottintesi, accostamenti, insinuazioni o su sismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore o dell'ascoltatore false rappresentazioni della realtà oggettiva Cass. n. 1205 del 2007 . 2. Con il terzo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cod.civ. in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, escluso la ricorrenza della giusta causa di licenziamento nonostante l'adozione, da parte dei lavoratori, di comportamenti che compromettevano sul piano morale l'immagine del datore di lavoro. 3. Con il quarto motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 1175, 1375 cod.civ. anche in relazione all'art. 2119 cod.civ. in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, trascurato che l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 cod.civ., integrandosi detta norma con gli artt. 1175 e 1375 cod.civ. che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sicché il lavoratore è tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto. L'impiccagione del datore di lavoro, pubblicamente rappresentata e diffusa via Internet e la rappresentazione del suo funerale, con l'aggravante di frasi ingiuriose e false accuse rivolte al medesimo datore di lavoro costituiscono azioni contrarie ai doveri connessi all'inserimento dei lavoratori nell'organizzazione dell'impresa e idonee al ledere gli interessi morali del datore di lavoro. 4. Con il quinto motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cod.civ. in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la non riconducibilità delle condotte contestate all'art. 32, lett. b , del CCSL-contratto collettivo specifico di lavoro che prevede il licenziamento in tronco in tutti i casi in cui il lavoratore provochi all'azienda grave nocumento morale o materiale o compia, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, azioni che costituiscono delitto a termini di legge confligge con il consolidato orientamento giurisprudenziale che nega la natura vincolante delle previsioni contrattuali collettive in tema di licenziamento. 5. Con il sesto motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 cod.civ. in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, trascurato la gravità della messa in scena allestita dai cinque lavoratori ai fini del giudizio di proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione. 6. Con il settimo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 32, lett. b , CCSL in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, trascurato che i comportamenti adottati dai lavoratori hanno integrato entrambe le ipotesi previste dalla clausola contrattuale avendo sia configurato condotte penalmente rilevanti le fattispecie delittuose della diffamazione o dell'ingiuria sia procurato ricadute di tipo morale esprimendo posizioni palesemente offensive nei confronti dell'azienda mediante modalità eclatanti e ostentatamente provocatorie al fine di suscitare un notevole clamore mediatico. La clausola negoziale, inoltre, allude ad un danno astratto e potenziale, intendendo colpire comportamenti del lavoratore disonorevoli, caratterizzati da particolare disvalore sociale e ambientale, idonei anche solo potenzialmente ad arrecare danno all'immagine del datore di lavoro e ai suoi interessi aziendali, e si distingue dal danno patrimoniale o non patrimoniale tipico dei rapporti contrattuali tra azienda e dipendenti nell'ambito dei quali la prova del danno è impercettibile proprio perché i pregiudizi derivanti dalla lesione sono suscettibili di essere risarciti. 7. Con l'ottavo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970 in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ. avendo, la Corte territoriale, errato nell'individuazione della sanzione reintegrazione nel posto di lavoro da applicare. Il fatto contestato non rientra, infatti, tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi e, inoltre, la stessa Corte, ha ritenuto sussistente la condotta addebitata ai lavoratori nella sua materialità e soggettività , condotta che è senz'altro ha rivestito una purché minima rilevanza disciplinare. 8. Con il nono motivo di ricorso la società deduce vizio di motivazione in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, richiamato il criterio della verità soggettiva in tal modo omettendo l'esame della falsità delle accuse infamanti mosse all'amministratore delegato della società, accusato, fra l'altro, di aver deportato i lavoratori e di aver causato i suicidi di alcuni di essi ossia la valutazione di un elemento essenziale e decisivo ai fini dell'integrazione della giusta causa di licenziamento. 9. Con il decimo motivo di ricorso la società deduce vizio di motivazione in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, concentrato il proprio esame sullo scritto affisso sul patibolo allestito senza affrontare la valutazione dell'intero contesto realizzato con l'azione posta in essere pubblicamente ossia la rappresentazione, in due distinte occasioni, dell'impiccagione dell'amministratore delegato della società e, in un'altra occasione, del funerale del medesimo amministratore. 10 Con l'undicesimo motivo di ricorso la società deduce vizio di motivazione in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. avendo, la Corte distrettuale, ritenuto inscenato un suicidio piuttosto che un omicidio senza motivare alcunché al riguardo e nonostante la rappresentazione evocasse maggiormente l'esecuzione di una sentenza capitale non già le modalità di un suicidio così come confermato dal tenore del testo scritto affisso accanto al patibolo. 11. I motivi di ricorso dal primo al sesto, che per ragioni di stretta connessione possono affrontarsi congiuntamente, sono fondati. Preliminarmente, va rilevato che la Corte distrettuale ha accertato che /a condotta addebitata agli attuali reclamanti sussiste, dunque, nella sua materialità e soggettività, non essendovi dubbio che la stessa sia stata volutamente posta in essere dai predetti, che hanno curato ogni dettaglio della rappresentazione scenica che hanno inteso mettere in atto al fine di protestare contro le politiche aziendali in tema di lavoro della società reclamata pag. 4 della sentenza impugnata . Vanno condivise le osservazioni svolte dalla Corte distrettuale in via generale laddove osserva che tra più interessi collidenti, l'interesse della persona o dell'impresa oggetto di affermazioni lesive, da una parte, e l'interesse contrapposto di chi ne è l'autore alla libera manifestazione del pensiero, dall'altra, occorra trovare un punto di intersezione e di equilibrio che va individuato nel limite in cui il secondo interesse non rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è il destinatario. Altrettanto condivisibili sono le successive osservazioni svolte dalla Corte distrettuale in ordine al problema dei limiti dell'esercizio del diritto di critica ossia delle concrete modalità di espressione del pensiero. La Corte distrettuale ha ritenuto legittimo, per quanto aspro, l'esercizio del diritto di critica manifestato dai lavoratori mediante la rappresentazione scenica dell'impiccagione dell'amministratore delegato della società, del suo testamento e del suo funerale in quanto ha ritenuto rispettati i limiti della continenza sostanziale e formale, ricollegandosi - la rappresentazione - a drammatici eventi verificatisi poco prima dell'episodio disciplinare in esame e già oggetto di diffusione mediatica i suicidi di alcuni lavoratori i quali avevano lasciato degli scritti ove esprimevano amarezza e dolore per la situazione di precarietà vissuta da anni nell'azienda ricorrente ed essendo stata realizzata una rappresentazione sarcastica priva di violenza e di espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della critica che si intendeva realizzare. Indubbiamente, quando il diritto di critica sia esercitato attraverso la satira, la continenza non può non tener conto delle caratteristiche del genere che prevede l'utilizzo di un linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti ed esagerate, con conseguente necessità di non compiere estrapolazioni dal contesto complessivo e di non conferire a certe espressioni il significato letterale che potrebbero avere nell'uso comune. Deve, peraltro, sottolinearsi che anche il diritto di satira non si sottrae al limite della cd. continenza formale cfr. Cass. n. 14485 del 2000, Cass. n. 7091 del 2001 , ossia non può essere sganciato da ogni limite di forma espositiva ciò in quanto in presenza di due interessi collidenti, e cioè l'interesse della persona oggetto della satira -costituzionalmente garantito dall'art. 2 Cost. sulla tutela della persona umana nel suo essere e nel suo manifestarsi - e l'interesse contrapposto di chi ne sia l'autore -anch'esso costituzionalmente garantito dall'art. 21 Cost. sulla libertà di manifestazione del pensiero - occorre trovare un punto di equilibrio che va individuato nel limite in cui il secondo interesse, e quindi anche il diritto di satira, non rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto. L'esistenza del pregiudizio, ossia la esposizione della persona al disprezzo e al ludibrio della sua immagine pubblica, si deve verificare alla luce e nel contesto del linguaggio usato dalla satira, il quale, essendo inteso, con accento caricaturale, alla dissacrazione e allo smascheramento di errori e vizi di uno o più persone, è essenzialmente simbolico e paradossale. Occorre, dunque, verificare se la condotta tenuta dai lavoratori abbia rappresentato legittimo esercizio del diritto di critica ovvero abbia esorbitato dai limiti della continenza. 12. La Corte distrettuale ha ritenuto rispettato il limite della continenza formale in quanto la rappresentazione sarcastica è avvenuta senza uso di violenza, di espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della critica o denuncia che si intendeva realizzare . La Corte distrettuale ha concluso, quindi, per la mancanza di efficacia offensiva della rappresentazione scenica, seppur chiaramente ed inequivocabilmente riferita alla persona dell'amministratore delegato della società, alla sua allimentare gestione manageriale fonte di morti tra i dipendenti e alla sua autoritaria ed improvvida decisione di trasferire deportare numerosi lavoratori da una sede all'altra. Se, invero, la plateale inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica porta, in genere, ad escludere la loro capacità di offendere la reputazione che viene, invece, più facilmente colpita dall'apparente ed implicita attendibilità dei fatti riferiti in un contesto enunciativo , tuttavia neppure la satira può esorbitare dalla continenza, ossia dai limiti della correttezza formale che le sono imposti, nel caso di attribuzione di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio. La rappresentazione scenica, considerata in tutti i suoi elementi il patibolo, il manichino impiccato con la foto dell'amministratore delegato, lo scritto affisso al palo a imo' di testamento, le tute macchiate di vernice rossa a imo' di sangue ha esorbitato dai limiti della continenza formale attribuendo all'amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione e travalicando, dunque, il limite della tutela della persona umana richiesto dall'art. 2 della Costituzione che impone, anche a fronte dell'esercizio del diritto di critica e di satira, l'adozione di forme espositive seppur incisive e ironiche ma pur sempre misurate tali da evitare di evocare pretese indegnità personali. Le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori hanno, quindi, travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile, mediante offese gratuite, spostando una dialettica sindacale anche aspra ma riconducibile ad una fisiologica contrapposizione tra lavoratori e datori di lavoro, su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario, fine a se stesso, senza alcun interesse ad un confronto con la controparte, annichilita nella propria dignità di contraddittore. 13. Ma l'esorbitanza dai limiti della correttezza formale della critica espressa dai lavoratori è pure comportamento idoneo al ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, introducendo in azienda una conflittualità che trascende il regolare svolgimento e la fisiologica dialettica del rapporto di lavoro. Ora, è indubbio che la libertà dell'attività sindacale non possa ritenersi in conflitto con l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod.civ., perché questo si esplica sul distinto piano degli obblighi da osservare in relazione all'espletamento della prestazione lavorativa. Tuttavia, non è così per la menomazione dell'onore, della reputazione e del prestigio del datore di lavoro esorbitante da eliminare che ecceda i limiti della continenza formale contravvenendo al cd. minimo etico ossia a quei doveri fondamentali che si concretano in obblighi di condotta per il rispetto dei canoni dell'ordinaria convivenza civile. Sicché, la sopravvenuta carenza di questo minimo canone etico mina la sussistenza del rapporto fiduciario, che deve sussistere fra le parti del rapporto di lavoro e determina l'impossibilità della prosecuzione, neppure a titolo provvisorio, del rapporto di lavoro. Questa Corte ha già affermato che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita art. 2 Cost. , di tutela della persona umana, sicché, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione Cass. n. 5523 del 2016, che ha confermato il licenziamento intimato alla lavoratrice, a cui era stato contestato di avere utilizzato davanti al cassiere della società epiteti ingiuriosi nei confronti dell'amministratore delegato . Del pari, è stato ritenuto che l'esercizio, da parte del rappresentante sindacale, del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro nella specie, sulla funzionalità del servizio espletato dall'impresa , sebbene garantito dagli art. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente assicurata art. 2 Cost. , di tutela della persona umana, con conseguente legittimo licenziamento disciplinare ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati Cass. n. 7471 del 2012 . La sentenza della Corte territoriale va, pertanto cassata avendo violato il parametro normativo che prevede il bilanciamento effettivo di due interessi costituzionalmente rilevanti il diritto di critica e la tutela della persona umana . Essendo pacifica la ricostruzione dei fatti effettuata dalla corte territoriale l'errore di diritto si appalesa decisivo. 14. Il settimo motivo di ricorso va dichiarato - prima che improcedibile per omesso deposito integrale della contrattazione collettiva di riferimento a mente dell'art. 369, co. 2, n. 4, cod.proc.civ. - inammissibile per denuncia diretta della violazione e falsa applicazione ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., del contratto collettivo specifico di lavoro CCSL , invocabile solo al cospetto di contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro. La società ricorrente ha, invero, ribadito anche in questa sede di aver inquadrato il fatto contestato anche nell'ambito dell'art. 32, lettera b , del CCSL del 29.12.2010, nella stesura definitiva del 13.12.2011, applicato all'azienda. Questa Corte ha ripetutamente affermato cfr. da ultimo Cass. n. 21888 del 2018 , che, per i contratti collettivi di carattere aziendale quale quello in controversia , il tradizionale sindacato di legittimità - che può spiegarsi sull'interpretazione di ogni atto negoziale - riguarda i vizi di motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5, cod.proc.civ. nel caso di specie con riguardo al testo successivo alla novella del 2012 , ovvero la violazione delle norme di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 e ss. cod.civ., ai sensi del n. 3 della disposizione citata, sindacato, quest'ultimo, che non è stato sollecitato dai motivi di ricorso. 15. I vizi di motivazione della sentenza, esposti con i motivi dall'ottavo all'undicesimo, sono assorbiti in considerazione della ritenuta legittimità dei licenziamenti. 16. In conclusione, vanno accolti i motivi dal primo al sesto, dichiarato inammissibile il settimo motivo, assorbiti gli altri la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa va decisa nel merito con il rigetto delle domande. Le spese di lite sono integralmente compensate tra le parti in considerazione della grave situazione di turbamento psicologico in cui i fatti si sono verificati. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande. Compensa le spese dell'intero processo.