Depressa e soggetta a sbalzi di umore: niente assegno di invalidità

Vittoria per l’INPS nel contenzioso con una donna. Per i Giudici la sindrome si è sempre accompagnata allo svolgimento di attività lavorative. Non dimostrato, poi, il nesso tra il problema di salute e la chiusura dell’agenzia matrimoniale da lei gestita.

Depressa, soggetta a continui sbalzi di umore, ha anche chiuso l’agenzia matrimoniale da lei gestita. Ciò nonostante, va respinta, secondo i Giudici, la sua richiesta di ottenere dall’INPS l’assegno di invalidità Cassazione, ordinanza n. 10524/18, sez. Lavoro, depositata oggi . Difficoltà. Precaria la posizione della donna protagonista di questa vicenda. Ai problemi di salute – legati a una sindrome depressiva – si sommano anche quelli legati alla chiusura della propria attività lavorativa. Logico è, nella sua ottica, il diritto a percepire dall’INPS l’assegno ordinario di invalidità . La richiesta viene considerata legittima dai giudici in Tribunale. Di parere opposto sono invece i Giudici in Corte d’Appello, i quali ritengono che il grado della sindrome depressiva addotta dalla donna è da qualificare come ‘medio’ e non tale, anche in relazione all’anamnesi lavorativa, da compromettere la sua capacità di lavoro , pur a fronte di alternanze di umore . Nessun esborso, quindi, a carico dell’INPS, che vede confermata in via definitiva la propria vittoria nel contenzioso con la donna. In Cassazione, difatti, è esclusa categoricamente l’ipotesi dell’ assegno di invalidità . Inutili le obiezioni proposte dal legale della donna, e centrate su due elementi primo, la condizione di depressione della sua cliente secondo, il fatto che ella sia stata costretta a chiudere la propria attività lavorativa autonoma di titolare di agenzia matrimoniale proprio a causa della malattia . Per i Giudici del Palazzaccio non può essere ignorato il fatto che le difficoltà psichiche incontrate dalla donna si erano comunque accompagnate ad attività lavorative . E in questa ottica viene anche evidenziato che, essendo plausibili diverse cause nella cessazione dell’impresa , è mancata la prova certa che la chiusura dell’agenzia matrimoniale sia connessa alle precarie condizioni di salute della donna.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 febbraio – 3 maggio 2018, n. 10524 Presidente D’Antonio – Relatore Bellè Rilevato Che la Corte d'Appello dell'Aquila, con sentenza n. 327/2012, riformando la pronuncia del Tribunale di Pescara, ha respinto, in esito a rinnovazione della c.t.u. medico legale, la domanda con cui Mi. La Se. aveva agito per l'accertamento del suo diritto a percepire dall'I.N.P.S. l'assegno ordinario di invalidità, per la sussistenza a suo carico di infermità che determinavano la permanente riduzione a meno di un terzo della capacità di lavoro in attività confacenti alle sue attitudini che secondo la Corte il grado della sindrome depressiva addotta era da qualificare come medio e non tale, anche in relazione all'anamnesi lavorativa, da compromettere nella misura richiesta la capacità di lavoro che Mi. La Se. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo. Considerato Che con l'unico motivo di ricorso la La Se. afferma, richiamando l'art. 360 n. 5 e n. 3 c.p.c, quest'ultimo in relazione alla L. 222/1984, che la Corte territoriale avrebbe sottovalutato le condizioni di depressione maggiore, in fase di cronicizzazione, attestata dagli stessi esame disposti dal c.t.u. del grado di appello, che poi però aveva concluso in difformità, nonché il fatto che essa fosse stata costretta a cessare, per lo stato di malattia, la propria attività lavorativa autonoma di titolare di agenzia matrimoniale che la denuncia concerne in realtà esclusivamente vizi di motivazione, da riportare alla fattispecie dell'art. 360 n. 5 c.p.c, nel testo previgente rispetto all'attuale formulazione che il ricorso non può trovare accoglimento che la c.t.u. sulla cui base si è poi fondata la decisione ha ritenuto che l'infermità della ricorrente giustificasse un apprezzamento quale sindrome depressiva media , sul presupposto che essa, seppur avesse comportato alternanze di umore, non fosse risultata tale da impedire in concreto lo svolgimento di attività lavorative che il punto cessazione delle attività lavorative nell'aprile 2010 a causa proprio della patologia depressiva di cui sarebbe stata omessa la considerazione o che sarebbe stato erroneamente valutato, è solo menzionato in via di sintesi narrativa nel ricorso per cassazione, quale difesa svolta già in appello, mentre non sono stati riportati in dettaglio i passaggi in cui la rilevanza causale di esso rispetto alla cessazione del lavoro sarebbe stata evidenziata nel grado di merito che non è sufficiente il constare che nel giudizio di appello fosse noto il fatto in sé della chiusura dell'attività, in quanto, stanti le possibili plurime cause della cessazione dell'impresa, risultava invece strettamente necessaria l'allegazione che ciò era stato dovuto alle condizioni di salute della ricorrente che a tal fine era necessario che fosse espressamente evidenziato, in osservanza del requisito di specificità, sotto il profilo della autosufficienza, in quali esatti passaggi del processo di appello vi fosse stata tale esplicita deduzione, non potendosi altrimenti apprezzare, in questa sede ed in base al ricorso, che effettivamente la Corte territoriale abbia erroneamente omesso di valutare un collegamento causale o lo abbia erroneamente apprezzato, se esso non le era stato affermato e sottolineato come tale che infatti ove con il ricorso per cassazione sia censurato il vizio di motivazione, è onere della parte ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza, non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675 Cass. 11 gennaio 2007, n. 324 che, una volta esclusa l'ammissibilità della censura rispetto alle valutazioni inerenti il motivo della cessazione dell'impresa, l'apprezzamento rispetto al livello di gravità della depressione maggiore non può dirsi in sé implausibile, in quanto appunto fondato sul fatto che le difficoltà psichiche si erano comunque accompagnate, almeno fino ad un certo momento, ad attività lavorative che in definitiva quello manifestato rispetto alla gravità della patologia si riduce ad un mero dissenso valutativo il quale, come tale, non può avere ingresso in sede di legittimità che in definitiva il ricorso si appalesa complessivamente come inammissibile, risultando esso finalizzato valutazione di gravità della patologia ad una non consentita rivalutazione del materiale di merito, per giunta, in parte, su presupposti ragioni della cessazione del lavoro differenti, rispetto ai quali non vi è specifica e precisa deduzione che fossero stati in quanto tali sottoposti al giudice di appello che, rispetto alle spese, per quanto vi sia stata ammissione al gratuito patrocinio, manca la dichiarazione ai sensi dell'art. 152 disp. att. c.p.c che tale dichiarazione è necessaria, quale assunzione di responsabilità ed impegno, presso il giudice, a comunicare le modificazioni reddituali, come reso evidente dal fatto che essa deve essere contenuta, come stabilisce la norma citata, nelle conclusioni che pertanto le spese restano regolate secondo soccombenza P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.000,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % ed accessori di legge. Così deciso in Roma nell'adunanza camerale del 15.2.2018.