Legge 104, all’abuso consegue il licenziamento

Confermato in via definitiva il provvedimento adottato da un’Azienda sanitaria nei confronti di una dipendente. Per i Giudici è evidente l’abuso del diritto compiuto dalla lavoratrice. Irrilevante il fatto che ella sia stata assolta in sede penale.

Sfruttare ripetutamente i ‘permessi’ previsti dalla legge 104/1992 può costare il posto di lavoro. Esemplare il licenziamento – ora definitivo – di una dipendente di un’Azienda sanitaria. Irrilevante per i Giudici il fatto che la donna sia stata assolta in sede penale Cassazione, ordinanza n. 8209/18, sez. VI Civile-L, depositata oggi . Sfruttamento dei permessi. Anche in Cassazione il comportamento tenuto dalla lavoratrice è stato ritenuto grave, e tale da giustificare la drastica reazione della datrice di lavoro. Condivisa l’ottica adottata in Corte d’Appello, dove i Giudici hanno ritenuto evidente l’abuso del diritto compiuto dalla donna e consistito nell’avere fruito abusivamente del ‘permesso’ previsto dalla legge 104 . Questo dato è ritenuto decisivo, pur a fronte della assoluzione ottenuta dalla lavoratrice in sede penale , e a prescindere dal dettaglio relativo alla reiterazione dell’abuso . In sostanza, i Giudici considerano evidente il dolo nei comportamenti della dipendente dell’Azienda sanitaria, e valutano come irrilevante anche il suo contingente precario stato psichico .

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 6 febbraio – 4 aprile 2018, n. 8209 Presidente Doronzo – Relatore De Marinis Rilevato che con sentenza dell'8 novembre 2016, la Corte d'Appello di Genova confermava la decisione resa dal Tribunale di Genova e rigettava la domanda proposta da Je. Mo. nei confronti della Azienda Sanitaria Locale n. 3 Genovese, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatole per aver abusivamente fruito del permesso ex lege n. 104/1992 e negato insistentemente l'abuso medesimo che la decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto, a prescindere dall'assoluzione ottenuta dalla lavoratrice in relazione all'imputazione sollevata in sede penale, sussistente l'addebitato abuso del diritto, non scalfita la gravità del medesimo dall'apprezzamento della pregressa condotta lavorativa e dal contingente precario stato psichico, e, pertanto, proporzionata l'irrogata massima sanzione che per la cassazione di tale decisione ricorre la Mo., affidando l'impugnazione a due motivi, poi illustrati con memoria, cui resiste, con controricorso, la ASL che la proposta del relatore, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c, è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio non partecipata che il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata Considerato che, con il primo motivo, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell'art. 132, comma 1, n. 4 , c.p.c. e la conseguente nullità della sentenza impugnata, imputa alla Corte territoriale di aver reso la propria pronunzia solo apparentemente in conformità con l'orientamento espresso da questa Corte in tema di abuso dei permessi ex lege n. 104/1992 e richiamato a fondamento della pronunzia medesima, sostanzialmente incorrendo in un assoluto difetto di motivazione che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c, la ricorrente imputa alla Corte territoriale un superficiale esame della documentazione prodotta in atti che entrambi i motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, risultano infondati, dal momento che il principio espresso da questa Corte con le decisioni richiamate nella motivazione dell'impugnata sentenza ha portata generale e non presuppone la reiterazione della condotta integrante l'abuso del diritto, risultando, pertanto, idoneo a sorreggere il percorso logico-valutativo intrapreso dalla Corte territoriale e condotto, secondo quanto emerge dalla motivazione espressa, tenendo ampiamente conto della documentazione invocata a sostegno della propria prospettazione dalla ricorrente e addivenendo, in puntuale contrappunto con le risultanze della medesima a sancirne l'irrilevanza sotto il profilo della loro incidenza limitativa della gravità della condotta, correttamente apprezzata in conformità ai criteri indicati da questa Corte, senza che possa ravvisarsi alcun vizio logico e giuridico nella prevalenza accordata all'elemento soggettivo della condotta medesima e nella qualificazione al medesimo attribuita in termini di perdurante ipotesi di dolo , profili che, rimessi al libero apprezzamento del giudice del merito, non risultano del resto qui neppure fatti oggetto di censura che, pertanto conformandosi alla proposta del relatore, il ricorso va rigettato che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.