La rinuncia al licenziamento disciplinare in ambito transattivo non equivale a legittimare la condotta contestata

In materia di sospensione cautelare, disposta ai sensi dell’art. 97 d.P.R. n. 3/1957, ove il potere disciplinare risulti regolarmente esercitato e applicata la conseguente sanzione disciplinare nella fattispecie il licenziamento per giusta causa , l’eventuale revoca del licenziamento, intervenuta a seguito di accordo transattivo conciliativo, non può essere considerata quale riconoscimento dell’infondatezza dell’addebito contestato. Consegue che non potrà essere richiesta la differenza tra retribuzione che si sarebbe percepita in assenza della sospensione ed assegno alimentare riconosciuto, dovendo trovare applicazione il comma 2 del citato art. 97 d.P.R. n. 3/1957.

Principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 6598, pubblicata il 16 marzo 2018. Il caso. Un dipendente di Poste Italiane veniva sottoposto a misura restrittiva per il reato di peculato e così ne veniva disposta la sospensione cautelare dal servizio e della retribuzione, con riconoscimento di un assegno alimentare, ai sensi dell’art. 82 d.P.R. n. 3/1957. Il procedimento penale veniva definito con sentenza del Tribunale che dichiarava il reato contestato estinto per prescrizione. L’ente datore di lavoro, all’esito della decisione penale, incardinava tempestivamente il procedimento disciplinare che si concludeva con l’intimazione del licenziamento per giusta causa. Nelle more del procedimento disciplinare peraltro il lavoratore rassegnava le dimissioni con preavviso. In seguito il lavoratore impugnava il licenziamento disciplinare, richiedendo altresì il riconoscimento delle differenze retributive spettanti. Il giudizio si concludeva con accordo conciliativo, con cui l’azienda revocava il licenziamento ed il lavoratore rinunciava alla domanda sul punto. Con successivo ricorso il lavoratore chiedeva al Tribunale il riconoscimento delle differenze tra retribuzioni che avrebbe percepito se fosse rimasto in servizio ed assegno alimentare riconosciuto durante il periodo di sospensione. I giudici di merito, di primo e secondo grado, riconoscevano la fondatezza della domanda del lavoratore. Ricorreva in Cassazione Poste Italiane per la riforma della decisione d’appello. Il procedimento disciplinare la sospensione cautelare. La vicenda in decisione si incentra sull’applicazione dell’art. 97 d.P.R. n. 3/1957, che regolamenta la possibilità di disporre la sospensione cautelare dal servizio di un lavoratore sottoposto a procedimento penale. In particolare, ai fini del caso deciso, occorre considerare il secondo comma della norma citata , che così recita Se il procedimento penale si conclude con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per motivi diversi da quelli contemplati nel comma precedente, la sospensione può essere mantenuta qualora nei termini previsti dal successivo comma venga iniziato a carico dell'impiegato procedimento disciplinare . Di rilevanza anche il successivo terzo comma Il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l'impiegato abbia notificato all'amministrazione la sentenza stessa . Osservati i termini per l’avvio del procedimento disciplinare. Fatte queste premesse, la Suprema Corte censura la decisione del Giudice d’appello, secondo cui la transazione raggiunta dalle parti faceva ricostituire il rapporto di lavoro, con eliminazione di tutte le conseguenze sfavorevoli derivanti dal licenziamento, tra cui, l’eliminazione alla radice della sanzione disciplinare irrogata, il licenziamento per l’appunto. E dunque, secondo la corte territoriale, veniva meno anche la legittimità della sospensione cautelare, con conseguente diritto del lavoratore alle differenze retributive. Al contrario, il Supremo Collegio afferma che il procedimento disciplinare risulta essere stato correttamente e tempestivamente instaurato e concluso con l’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva. E, si sottolinea, il proscioglimento del lavoratore è avvenuto per intervenuta prescrizione per motivi diversi dall’assoluzione per non aver commesso il fatto o perché questo non sussiste. La transazione sul licenziamento non rende legittima la condotta addebitata. L’errore in cui è incorsa la corte territoriale è l’aver ritenuto che la rinuncia in sede conciliativa al licenziamento disciplinare irrogato potesse essere letta come riconoscimento dell’infondatezza dell’addebito contestato, con azzeramento dell’intero procedimento disciplinare. Affermata quindi la piena correttezza ed operatività del procedimento disciplinare, deriva che dovrà trovare applicazione il citato II° comma dell’art. 97 d.P.R. n. 3/1957, che consente il mantenimento in essere della disposta sospensione cautelare e la conseguente infondatezza della domanda azionata dal lavoratore. Il ricorso proposto è stato così ritenuto infondato e di conseguenza la Corte, decidendo la causa anche nel merito, ha respinto la domanda.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 dicembre 2017 – 16 marzo 2018, numero 6598 Presidente Manna – Relatore Lorito Fatti di causa B.G. svolgeva attività di cassiere alle dipendenze dell’ente Poste presso la Cassa Provinciale di Milano quando, in data 25/5/1979 era stato sottoposto a misura restrittiva per il reato di peculato articolo 314 c.p. era stato quindi sospeso cautelativamente dal servizio e dalla retribuzione con decorrenza 25/5/1979 con il riconoscimento, ai sensi dell’articolo 92 ultimo comma e dell’articolo 82 d.p.r. 10/1/1957 numero 3 di un assegno alimentare con sentenza 24/2/1995 il Tribunale di Milano accertava di non doversi procedere a suo carico essendosi il reato estinto per prescrizione la società in data 1/12/1995 incardinava tempestivamente il procedimento disciplinare all’esito del quale adottava il provvedimento sanzionatorio del licenziamento per giusta causa con decorrenza 6/8/1996 dal canto suo il B. in data 8/6/1996 rassegnava le proprie dimissioni con effetto 1/9/1996. Con ricorso ex articolo 414 c.p.c. notificato il 2/12/1996 B.G. chiedeva accertarsi l’illegittimità del licenziamento intimatogli ed il pagamento delle differenze retributive spettanti fra quanto percepito nel periodo di sospensione cautelare e quanto gli sarebbe spettato se fosse rimasto in attività. Nel corso del giudizio le parti raggiungevano un’intesa trasfusa in verbale di conciliazione numero 65/1997 con cui la società revocava il licenziamento e il lavoratore rinunciava alla domanda concernente il licenziamento stesso. Con successivo ricorso ex articolo 414 c.p.c. del dicembre 2008 il B. adiva il Tribunale di Pavia chiedendo il pagamento delle differenze retributive spettanti in relazione al periodo in cui era stato sottoposto a procedimento cautelare dal 25/5/1979 al 30/9/1985 . Il Tribunale accoglieva la domanda con pronuncia che veniva confermata dalla Corte distrettuale la quale, ripercorrendo l’iter argomentativo seguito dal giudice di prima istanza, osservava, in estrema sintesi, che le parti avevano stipulato una transazione conservativa, nel senso che il rapporto di lavoro era stato ricostruito con corresponsione anche delle differenze maturate dalla data del licenziamento alle dimissioni. Si è trattato quindi, di una ricostituzione del rapporto, con eliminazione delle conseguenze sfavorevoli connesse con il licenziamento la sanzione è stata posta nel nulla per scelta del datore di lavoro che ha rinunciato ad esercitare il suo potere disciplinare revocando la sanzione . Richiamava, quindi, a sostegno del decisum , il principio affermato in sede di giurisprudenza amministrativa secondo cui, quando il procedimento disciplinare si estingue senza comminazione della sanzione, in linea generale deve essere riconosciuto al dipendente il diritto al trattamento giuridico ed economico pregresso. Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la s.p.a. Poste Italiane affidato ad unico motivo. Resiste con controricorso l’intimato. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ex articolo 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con unico motivo la società denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 97 commi 2 e 3 d.p.r. numero 3 del 1957 in relazione all’articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c Critica la sentenza impugnata per aver negato la valida instaurazione del procedimento disciplinare in base al rilievo che essa si sarebbe verificata dopo l’emissione della sentenza di proscioglimento penale, quando il lavoratore era già rientrato in servizio. Argomenta per contro che il procedimento disciplinare era stato tempestivamente instaurato ai sensi del comma 3 articolo 97 d.p.r. numero 3 del 1957 in base al quale detto procedimento deve avere inizio entro 180 giorni dalla data in cui era divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento, cioè in un momento successivo alla emissione della sentenza penale. 2. La ricorrente deduce altresì che la sentenza impugnata viola l’articolo 97 comma 2 d.p.r. numero 3 del 1957 laddove ritiene comunque necessaria ai fini del mantenimento della sospensione, l’irrogazione di una sanzione, quando invece la norma stabilisce che la sospensione può essere mantenuta qualora nei termini previsti venga iniziato a carico dell’impiegato il procedimento disciplinare. Nella specie l’instaurazione del procedimento disciplinare si era verificata, così trovando applicazione il secondo comma della disposizione richiamata, secondo cui se il procedimento penale si conclude con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per motivi diversi da quelli indicati nel primo comma, la sospensione può essere mantenuta qualora venga iniziato procedimento disciplinare. In ogni caso, essendo stata irrogata una sanzione espulsiva, si ritiene errata la statuizione della Corte distrettuale laddove afferma che la revoca del licenziamento in sede conciliativa, equivalga alla scelta del datore di lavoro di non dar corso ad alcun procedimento disciplinare. 3. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito esposte. Come fatto cenno nello storico di lite, gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale sono fondati - in estrema sintesi - sulla circostanza che il procedimento disciplinare sarebbe stato instaurato nei confronti del B. dopo l’emissione della sentenza di proscioglimento in sede penale per prescrizione, quando il predetto era già rientrato in servizio, e sul rilievo che la parte datoriale a seguito della conciliazione giudiziale intervenuta nel corso del giudizio, avrebbe rinunciato all’esercizio del potere disciplinare, revocando il licenziamento del 6/8/1996 e ritenendo il lavoratore cessato dall’incarico per dimissioni, con decorrenza 1/9/1996. L’iter argomentativo che innerva l’impugnata sentenza, non appare, tuttavia, coerente coi dettami di cui all’articolo 97 d.p.r. numero 3 del 10 gennaio 1957 che così si esprime 1. Quando la sospensione cautelare sia stata disposta in dipendenza del procedimento penale e questo si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso, la sospensione è revocata e l’impiegato ha diritto a tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario e salva deduzione dell’assegno alimentare eventualmente corrisposto. 2. Se il procedimento penale si conclude con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per motivi diversi da quelli contemplati nel comma precedente, la sospensione può essere mantenuta qualora nei termini previsti dal successivo comma venga iniziato a carico dell’impiegato procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l’impiegato abbia notificato all’amministrazione la sentenza stessa. 3. La sospensione cessa se la contestazione degli addebiti non ha luogo entro il detto termine ed il procedimento disciplinare, per i fatti che formarono oggetto del procedimento penale, non può più essere iniziato. In tal caso l’impiegato ha diritto agli assegni previsti nel primo comma. Qualora il procedimento disciplinare sia stato sospeso a seguito di denuncia all’autorità giudiziaria, la scadenza del termine predetto estingue altresì il procedimento disciplinare che non può più essere rinnovato la Corte costituzionale, con sentenza 13 - 25 luglio 1995, numero 374 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 97, terzo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, numero 3 nella parte in cui prevede, in caso di sentenza o ordinanza che pronuncia sull’impugnazione, che il procedimento disciplinare deve avere inizio entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento, indipendentemente dalla data di deposito della sentenza o ordinanza conclusiva del procedimento, se successiva alla data in cui si verifica l’irrevocabilità della pronuncia di proscioglimento . 4. Al lume della richiamata disposizione deve dunque, ritenersi che, se il procedimento penale - così come verificatosi nella specie - si sia concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per motivi diversi da quelli contemplati nel comma primo perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso , la sospensione può essere mantenuta qualora nei termini di 180 giorni venga iniziato a carico dell’impiegato procedimento disciplinare. Nello specifico, è dato incontroverso che la società abbia dato corso, successivamente alla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento in sede penale ed entro i termini prescritti dalla legge, al procedimento disciplinare nei confronti del proprio dipendente. Si è quindi verificato pienamente il presupposto previsto dal comma secondo della citata disposizione, che connette gli effetti previsti esclusivamente al tempestivo inizio del procedimento disciplinare da parte datoriale. La società ha infatti instaurato entro i termini di legge il procedimento disciplinare che si è regolarmente compiuto - pur non essendo tale elemento richiesto dal dettato normativo in parola, per quanto sinora detto - con esito sfavorevole per il lavoratore al quale è stata applicata la sanzione del licenziamento. 5. La circostanza, pur enfatizzata dalla Corte di merito, che successivamente alla risoluzione del rapporto di lavoro inter partes , fosse intervenuto un accordo transattivo fra le parti, idoneo di per sé a porre nel nulla gli effetti connessi al tempestivo esercizio della azione disciplinare, non presenta valore decisivo ai fini della soluzione della delibata questione. Non emerge, invero, dalla statuizione emessa dai giudici del gravame, alcun elemento che sia idoneo a far ritenere che le parti abbiano inteso, con il sopravvenuto accordo, disciplinare anche i diritti avanzati dal lavoratore in relazione al periodo di sospensione cautelare dal servizio. Privo di fondamento è pertanto, l’assunto della Corte distrettuale secondo cui le parti avrebbero stipulato una transazione conservativa, con ricostituzione del rapporto ed eliminazione delle conseguenze sfavorevoli connesse con il licenziamento. Così come non condivisibile è l’ulteriore argomentazione secondo cui la sanzione è stata posta nel nulla per scelta del datore di lavoro che ha rinunciato ad esercitare il suo potere disciplinare, revocando la sanzione . Il potere disciplinare risulta infatti esercitato pienamente da parte della società Poste Italiane, e non è emerso sia stato inficiato dai fatti sopravvenuti enunciati dalla Corte di merito, inidonei, dunque, ad impingere in alcun modo nella vicenda scrutinata. Invero, il carattere meramente transattivo della revoca del licenziamento disciplinare a suo tempo intimato fa sì che essa non possa considerarsi come riconoscimento dell’infondatezza dell’addebito su cui si era basato. Pertanto, non si è verificata la prima delle due ipotesi cui il cit. articolo 97 riconnette il diritto alla differenza tra retribuzione e assegno alimentare, vale a dire l’accertata infondatezza dell’addebito né sussiste l’altra ipotesi, inerente alla tardiva attivazione del procedimento disciplinare. In altre parole, non avendo in sede conciliativa le parti stabilito alcunché circa la sorte delle retribuzioni durante il periodo di sospensione cautelare nulla a riguardo risulta allegato dalle parti o accertato dalla Corte di merito , si deve applicare puramente e semplicemente il cit. articolo 97, che non consente il recupero della differenza tra retribuzione e assegno alimentare quante volte l’addebito sia stato comunque ritualmente e tempestivamente accertato all’esito del procedimento disciplinare, seppur poi in concreto non sia stata eseguita o sia stata revocata la relativa sanzione. 6. In definitiva, alla stregua delle sinora esposte argomentazioni, il ricorso va accolto. Sussistendo le condizioni previste dall’articolo 384, co.2, c.p.c., la causa può essere decisa nel merito, con reiezione delle domande proposte da B.G. a carico del quale, per il principio della soccombenza, si pongono le spese dell’intero processo, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda del B. e lo condanna al pagamento delle spese dell’intero processo che liquida, quanto al primo grado, in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 2.000,00 per compensi professionali quanto al secondo grado, in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali quanto al presente giudizio di legittimità, in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali ed accessori di legge su tutte le somme.