Patologia cardiaca fatale per il netturbino: Comune condannato

L’uomo ha continuato a svolgere le proprie mansioni nonostante i gravi problemi di salute che lo affliggevano. Sotto accusa l’ente locale, che dovrà ora risarcire la moglie e i figli del lavoratore deceduto nell'esercizio della propria attività quotidiana.

Seria patologia cardiaca per il dipendente del Comune, inquadrato come netturbino. Nonostante ciò, però, egli continua a svolgere regolarmente le proprie funzioni, ignorando il diverso ordine di servizio datogli dal datore di lavoro, e questa scelta gli costa la vita. Ora, a distanza di anni, viene ritenuta certa la responsabilità dell’ente locale, condannato a risarcire la moglie e i figli del lavoratore pubblico Cassazione, ordinanza n. 3978/2018, Sezione Lavoro, depositata oggi . Patologia. Nessun dubbio hanno manifestato i Giudici del Tribunale e quelli della Corte d’Appello l’uomo, netturbino in un Comune siciliano, è deceduto nell’esercizio della propria attività lavorativa . Nello specifico, egli è risultato affetto da ischemia cardiaca con crisi di angina pectoris ricorrenti anche allo stato di riposo , e, secondo i Giudici, il Comune lo ha comunque adibito all’attività di netturbino , sottoponendolo agli sforzi e alle condizioni climatiche che detta attività comporta e provocandogli malori ricorrenti e svenimenti . Questo quadro viene ritenuto sufficiente per accogliere la richiesta di risarcimento presentata dai familiari dell’uomo il Comune deve versare loro, secondo i Giudici, un adeguato ristoro economico anche per il danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale . Controllo. Il legale dell’ente locale siciliano prova a proporre in Cassazione una lettura diversa della vicenda, sostenendo la tesi che sia stato il lavoratore a mettere a rischio la propria salute. Su questo fronte viene chiarito che il Comune aveva adibito il dipendente a distribuire sacchetti e saltuariamente a svolgere altri lavori leggeri , dopo che l’Azienda sanitaria lo aveva riconosciuto come inidoneo a svolgere le mansioni di netturbino , e viene aggiunto che il lavoratore, incurante del proprio stato di salute e dell’ordine di servizio, si era sottoposto a mansioni che comportava sforzi eccessivi che nel 1999 ne avevano provocato il decesso. L’obiezione proposta dal legale non convince però i giudici del ‘Palazzaccio’, i quali ribattono ricordando che il datore di lavoro ha un preciso obbligo di controllare che il lavoratore, nell’esercizio dell’attività, osservi le prescrizioni datoriali concernenti l’esecuzione della prestazione in condizioni di sicurezza . Questo omesso controllo rende quindi il Comune responsabile per la morte del netturbino. E, di conseguenza, è ovvia la legittimità della richiesta di risarcimento presentata dalla moglie e dai figli del lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 22 novembre 2017 – 19 febbraio 2018, numero 3978 Presidente Napoletano – Relatore De Felice Rilevato Che la Corte d'appello in epigrafe, confermando la sentenza di prime cure, ha riconosciuto il diritto di Gi. Bu., Anumero Cu. e Gi. Cu., rispettivamente moglie e figli di Pasquale Cu., al risarcimento del danno non patrimoniale iure successionis e di quello da perdita di rapporto parentale iure proprio, per il decesso del loro congiunto, netturbino presso il Comune di Agrigento, avvenuto nell'esercizio dell'attività lavorativa. Che la Corte territoriale nel respingere la domanda del Comune appellante, ha ritenuto che la prova per testi avesse chiarito che Pasquale Cu., le cui precarie condizioni di salute erano certificate, era stato adibito all'attività di netturbino senza limitazioni, e sottoposto agli sforzi e alle condizioni climatiche che detta attività comporta, subendo malori ricorrenti e altresì svenimenti durante il lavoro. Che ciò comportava la condanna dell'Amministrazione a risarcire i danni agli eredi per la morte del loro congiunto, riconoscendo loro anche il danno non patrimoniale per perdita del rapporto parentale. Che avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il Comune di Agrigento con due censure, cui resistono con tempestivo controricorso, illustrato da memoria, Gi. Bu., Anumero Cu. e Gi. Cu Considerato Che con la prima censura il Comune deduce violazione e falsa applicazione del c.c.numero l. del 6/7/1995 come modificato dal c.c.numero l. del 22/1/2004 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Che il Comune aveva adibito il Cu. a distribuire sacchetti e saltuariamente a svolgere altri lavori leggeri su sua richiesta, dopo che l'Ufficio di Medicina Legale e Fiscale dell'Usi di Agrigento, nel 1989, aveva riconosciuto il Cu. inidoneo a svolgere le mansioni della qualifica rivestita, sebbene idoneo a svolgerne altre d'identico livello retributivo, in quanto affetto da Ischemia cardiaca con crisi di angor ricorrenti anche allo stato di riposo che il Cu., incurante del suo stato di salute e dell'ordine di servizio con cui veniva assegnato ad altri servizi corrispondenti alla qualifica numero 111/1991 , si sottoponeva senza alcuna imposizione da parte dei suoi sovraordinati a mansioni che comportavano sforzi eccessivi a causa dei quali - nel 1999 - era deceduto. Che la Corte d'appello non avrebbe tenuto conto della condotta del Cu. né dell'articolo 23 lett. h del c.c.numero l. secondo cui il dipendente deve .eseguire le disposizioni inerenti l'espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli siano impartiti dai superiori. Se ritiene che l'ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi l'ha impartito, dichiarandone le ragioni . Che, pertanto, essendo stato l'ordine di servizio conforme all'articolo 23 del c.c.numero l., nessuna responsabilità poteva essere addebitata al Comune poiché il lavoratore avrebbe dovuto attenersi alle direttive impartite dall'Ufficio e non invece, disattenderle compiendo di sua volontà lavori nocivi per il suo stato di salute. Che con la seconda censura contesta violazione e falsa applicazione dell'articolo 2087 cod. civ. - violazione e falsa applicazione dell'articolo 2043 cod. civ. Che la Corte territoriale nel non tener conto che il Comune aveva adottato tutte le cautele richieste dalla tecnica, dall'esperienza e dalla particolarità della mansione, ha operato una falsa applicazione dei presupposti applicativi delle norme di diritto sostanziale invocate. Che la prima censura non merita accoglimento. Che anzitutto essa si palesa non autosufficiente poiché non chiarisce in quali termini e per mezzo di quali allegazioni, il Comune ricorrente ha prospettato le circostanze ivi dedotte dinanzi al giudice del merito. Che, in base a pacifica giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell'articolo 366, co.1, numero 6 cod. proc. civ., è inammissibile il ricorso per cassazione che non contenga la specifica indicazione degli atti e dei documenti posti a suo fondamento e non specifichi in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto Sez. Unumero numero 28547/2008 Sez. Unumero numero 7161/2010 . Che nel merito, poi, la censura mostra profili d'infondatezza, là dove trascura del tutto il fondamentale dovere di prevenzione che l'articolo 2087 cod. civ. pone in capo al datore, in capo al quale la norma pone un preciso obbligo di controllare che il lavoratore, nell'esercizio dell'attività, osservi le prescrizioni datoriali concernenti l'esecuzione della prestazione in condizioni di sicurezza. Che la seconda censura è inammissibile, in quanto il Comune, nel denunciare la falsa applicazione dell'articolo 2087 cod. civ. e dell'articolo 2043 cod. civ., invoca in realtà il controllo di legittimità sulla motivazione, mentre, in seguito alla modifica dell'articolo 360, co.1, numero 5 cod. proc. civ. apportata dall'articolo 54 D.L. numero 83/2012, convertito con modificazioni nella legge numero 134/2012, è denunciabile in cassazione soltanto l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti Sez.Unumero numero 8053/2014 . Che pertanto, non meritando le due censure accoglimento, il ricorso è rigettato. Che le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento nei confronti dei controricorrenti delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4000 per competenze professionali, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 e agli accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell'articolo 1 bis dello stesso articolo 13.