L’esposizione al fumo passivo non giustifica (da sola) l’indennizzo al lavoratore malato

Il lavoratore malato chiedeva l’equo indennizzo alla datrice di lavoro. Secondo i Giudici di merito non sussisteva il nesso di casualità tra l’esposizione al fumo passivo nell’ambiente di lavoro e la malattia del richiedente. Nel ricorso in Cassazione si esprimono dubbi sull’onere probatorio delle parti

Sul tema la Sezione Lavoro della Cassazione con sentenza n. 12/18, depositata il 2 gennaio. Il fatto. La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda dell’appellante volta ad ottenere il trattamento di equo indennizzo relativamente al rapporto di lavoro intrattenuto come dipendente di Poste Italiane s.p.a Secondo la Corte territoriale non risultava accertata l’esposizione al fumo passivo nel luogo di lavoro in relazione al nesso eziologico tra la suddetta esposizione e le malattie riportate dal richiedente. Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore soccombente. Il ricorrente deduce in Cassazione violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. Onere della prova , in quanto la Corte territoriale per la motivazione della decisione abbia fatto riferimento alla documentazione amministrativa sfavorevole per il ricorrente proveniente dalla stessa parte convenuta datrice di lavoro. L’onere probatorio del lavoratore. Gli Ermellini hanno ribadito che, in merito alla domanda di equo indennizzo, grava sul lavoratore l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto dimostrando la riconducibilità dell’infermità alle modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita ed, inoltre, nelle patologie aventi carattere comune ad eziologia c.d. multifattoriale, il nesso di casualità fra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto Cass. sez. Unite n. 11353/04 . Ciò premesso la Corte ha osservato che, nel caso di specie, i Giudici di merito abbiano correttamente non ritenuto assolto l’onere probatorio in capo al lavoratore. Inoltre, essendo insufficienti le prove dell’attore per dimostrare il nesso di casualità tra esposizione ai fumi e malattia, le dichiarazioni della datrice di lavoro hanno valenza meramente rafforzativa del chiaro quadro probatorio sfavorevole che confermava il difetto degli elementi probatori a cura dell’attore richiedente. In ragione di ciò la Cassazione rigetta il ricorso, confermando la decisione di merito.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 18 luglio 2017 – 2 gennaio 2018, n. 12 Presidente Manna – Relatore De Gregorio Fatto e diritto La corte visti gli atti e sentito il consigliere relatore, OSSERVA che la Corte di Appello di Perugia con sentenza n. 248 in data 20 aprile / 22 agosto 2011, in riforma dell’impugnata pronuncia, rigettava la domanda proposta da B.G. , volta ad ottenere il trattamento di equo indennizzo relativamente rapporto di lavoro intrattenuto alle dipendenze dell’Amministrazione delle Poste e delle Telecomunicazioni dal 21 ottobre 1951 sino al 1 novembre 1991 che, secondo la Corte capitolina, non risultava congruamente accertata l’esposizione al fumo e alle polveri, quale fattore di rischio allegato dall’attore ed ipotizzato altresì dal c.t.u. in relazione al nesso eziologico tra la suddetta esposizione e le malattie riportate dal B. che veniva giudicata insufficiente la prova per testi, espletata con l’escussione del coniuge del lavoratore, avuto peraltro riguardo alla documentazione prodotta da Poste Italiane, dalla quale non emergeva alcun elemento inerente alla dedotta esposizione al fumo passivo che avverso la pronuncia d’appello ha proposto ricorso per cassazione B.G. con DUE motivi 1. violazione dell’articolo 416 c.p.c., poiché la Corte di merito non aveva considerato la prova emergente dalla mancata contestazione da parte della società resistente in ordine a quanto specificamente allegato con il ricorso introduttivo del giudizio - in via subordinata, mancanza della motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’anzidetta problematica, cioè sulle ragioni per le quali la Corte d’appello aveva ritenuto di disattendere la tesi prospettata dalla difesa di esso B. 2. in via ulteriormente gradata, violazione degli artt. 2697 e ss. c.c. ovvero insufficienza di motivazione su un punto decisivo della controversia, avuto riguardo all’onere probatorio di cui all’articolo 2697 del codice civile, visto che era stata considerata utile anche la documentazione amministrativa proveniente dalla stessa parte convenuta che la società Poste Italiane ha resistito con controricorso notificato il due ottobre 2012 che sono stati comunicati rituali e tempestivi avvisi per adunanza in camera di consiglio fissata al 18 luglio 2017 che le parti hanno depositato memorie illustrative che non risultano requisitorie in atti del Pubblico Ministero considerato che il ricorso va disatteso alla stregua delle seguenti argomentazioni che, in primo luogo, nella specie è ratione temporis applicabile in base al regime transitorio di cui all’art. 58, comma 1, L. 18 giugno 2009 n. 69, avuto riguardo al ricorso introduttivo del giudizio depositato il 26-08-2008 , il previgente testo dell’art. 115 c.p.c., e non già quello inserito dall’art. 45, co. 14, della cit. L. n. 69 secondo il quale il giudice deve porre a fondamento della decisione anche i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita che di conseguenza, in base al succitato previgente testo dell’art. 115 in tema di disponibilità delle prove Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero. Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza opera nella specie il principio di diritto secondo cui rispetto ai c.d. fatti secondari la non contestazione era suscettibile di essere considerata unicamente come mero elemento di prova, a differenza quindi dei fatti primari, che ove non debitamente contestati dovevano considerarsi definitivamente ammessi cfr. tra le altre Cass. I civ. n. 5191 del 27/02/2008 unitamente alla giurisprudenza ivi richiamata in motivazione, tra cui Cass. sez. un. civ. n. 761 del 23/01/2002 l’onere del convenuto, previsto dall’art. 416 cod. proc. civ. per il rito del lavoro, e dall’art. 167 cod. proc. civ. per il rito ordinario, di prendere posizione, nell’atto di costituzione, sui fatti allegati dall’attore a fondamento della domanda, comporta che il difetto di contestazione implica l’ammissione in giudizio solo dei fatti cosiddetti principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti cosiddetti secondari, ossia dedotti in esclusiva funziona probatoria, la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ. che alla stregua dell’interposto gravame, di conseguenza, l’adito giudice di secondo grado ben poteva rivalutare tutto l’acquisito materiale probatorio che in tale contesto la Corte territoriale richiamava testualmente quanto stimato dal c.t.u., secondo cui non poteva escludersi come concausa della patologia ostruttiva coronarica che condusse all’infarto il fumo di sigaretta SE VERAMENTE le condizioni di lavoro furono quelle riferite dal ricorrente presenza di fumo passivo in ambiente lavorativo in grande quantità e per l’intera durata del turno senza impianti di abbattimento , nonché la deposizione resa dalla teste P. , coniugata con il B. , per cui, tenuto conto dell’età del figlio di costui, accertava che in relazione alle condizioni ambientali dell’ufficio frequentato dal marito la conoscenza diretta di quanto dichiarato dalla predetta risaliva ad oltre cinquant’anni prima che la Corte distrettuale accertava, inoltre, che la presenza di fumo nell’ambiente di lavoro non era di per sé sufficiente a dimostrare l’esposizione al fattore di rischio, in difetto di più precise notizie circa la concentrazione delle esalazioni, sicché tenuto altresì conto della relazione di servizio della direttrice dell’ufficio, le esaminate dichiarazioni testimoniali, in difetto di più precisi e puntuali elementi di riscontro, non provavano l’allegata esposizione al fattore di rischio e quindi il nesso eziologico tra l’attività di lavoro e la denunciata patologia che, pertanto, appaiono infondate entrambe le doglianze mosse da ricorrente, visto che non può dirsi violata la normativa di rito per quanto concerne la non contestazione e che, d’altro canto, non è consentito, nemmeno ai sensi dell’art. 360 co. I n. 5 c.p.c., in sede di legittimità una diversa valutazione delle risultanze istruttorie rispetto a quanto in proposito con adeguata e coerente motivazione apprezzato dalla competente Corte di merito che, infatti, l’esposizione al fumo dedotta da parte ricorrente, oltre ad integrare mero fatto secondario nei sensi di cui alla succitata giurisprudenza, nella specie rilevante in base alla normativa ratione temporis vigente e quindi applicabile, dava luogo soltanto ad un elemento probatorio, però correttamente esaminato e soppesato unitamente ad altre emergenze istruttorie dalla Corte di merito, la quale, con motivazione immune da vizi logico-giuridici, ha escluso che l’allegata esposizione a fumo passivo, ancorché nei termini indicati da parte attrice, dimostrasse di per sé la pretesa efficacia causale o concasuale rispetto alla denunciata malattia che, d’altro canto, nemmeno è ipotizzabile la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., atteso comunque l’onere probatorio nel caso di specie esclusivamente a carico di parte attrice, nonostante il riferimento incidentale DEL RESTO, dalla relazione delle condizioni di lavoro contenuto nella motivazione dell’impugnata sentenza pure, ma non solo, alla relazione della dr.ssa Br. , direttrice dell’ufficio dove prestava servizio il B. cfr. tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 11353 del 17/06/2004, secondo cui, in particolare, con riguardo alla domanda di equo indennizzo, grava sul lavoratore l’onere di provare, con precisione, ì fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell’infermità alle modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita, variabili in relazione al luogo di lavoro, ai turni di sevizio, all’ambiente lavorativo, non configurando, le mansioni inerenti alle qualifiche, un fatto notorio che non necessita di prova, atteso che esse sono variabili in dipendenza del concreto posto di lavoro, della sua localizzazione geografica, dei turni di servizio, dell’ambiente in generale, essendo assolutamente irrilevante che la controparte non abbia contestato, con la comparsa di costituzione in primo grado, le modalità della prestazione lavorativa allorquando dette modalità non siano state precisate. Inoltre, nelle patologie aventi carattere comune ad eziologia c.d. multifattoriale, il nesso di causalità fra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio che, invero, dal complesso della motivazione svolta ben si comprende come la Corte non abbia ritenuto comunque idoneamente assolto l’onere probatorio, in relazione al nesso di causalità da parte dell’attore, a carico del quale permaneva ad ogni modo l’onere stesso, sicché l’accenno fatto alle dichiarazioni della dr.ssa Br. , per conto della convenuta amministrazione, finiva con l’aver valenza meramente rafforzativa del delineato quadro probatorio, però già sfavorevole, secondo le valutazioni dei giudici di appello, nei riguardi dell’attore, cui infatti spettava fornire congrua dimostrazione delle proprie asserzioni, e non già alla parte convenuta provare il contrario delle allegazioni avversarie che, pertanto, la vera ratio decidendi a sostegno dello statuito rigetto della domanda va individuata nel motivato convincimento, della Corte di merito, della infondatezza della domanda, circa il difetto di sicuri elementi probatori a cura dell’attore, e non già nella dimostrazione da parte convenuta, che non vi era tenuta, di dimostrare la salubrità dell’ambiente di lavoro e la conseguente insussistenza di rilevante e qualificata esposizione del proprio dipendente al fumo e altre emissioni, tanto da avergli provocato le lamentate dannose conseguenze patologiche che, dunque, il ricorso va respinto, ravvisandosi però giusti motivi di compensazione, avuto riguardo alle alterne risultanze dei giudizi di merito. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.