La giusta causa va valutata con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto

La giusta causa di licenziamento integra una norma elastica che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite la valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. È invece demandato al Giudice di merito l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo in quanto consistente in un giudizio di fatto.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 28962/17 depositata il 4 dicembre. Il caso. La Corte di Appello di Salerno, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava l’illegittimità del licenziamento per giusta causa comunicato da Poste Italiane ad un proprio dipendente responsabile di numerose irregolarità e violazioni degli ordini di servizio presso l’ufficio a cui egli era addetto. In particolare, tali violazioni riguardavano molteplici operazioni di rimborsi di titoli Bancoposta intestati a persone decedute, eseguite senza che fossero aperte le relative pratiche di successione e dunque senza che si individuassero correttamente gli eredi legittimi. Ad avviso della Corte di merito, il recesso comunicato al lavoratore era sproporzionato rispetto ai fatti addebitati poiché non era affatto emerso che la condotta mantenuta dal dipendente fosse finalizzata al conseguimento di un interesse personale o che comunque avesse arrecato pregiudizio a parte datoriale, ovvero ad alcuno dei suoi clienti o in ultima analisi a terzi . In ragione di ciò, i medesimi Giudici di merito ritenevano gli inadempimenti del dipendente annoverabili tra le meno gravi infrazioni, originate anche da abituale negligenza e inosservanza di leggi, regolamenti obblighi di servizio sanzionati dal CCNL applicato con una sanzione conservativa. Contro tale pronuncia la società ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando un unico motivo. Non sempre la valutazione sulla giusta causa attiene al fatto. In particolare, ad avviso della ricorrente, i Giudici di merito avevano errato nell’applicazione dell’art. 2119 c.c., poiché ciò che doveva essere valutato era solo la sussistenza di una condotta lesiva del vincolo fiduciario idonea ad incidere negativamente sull’aspettativa di un futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa, indipendentemente dalla sussistenza di uno scopo di lucro o di un concreto danno per il datore di lavoro. Valutazione che nell’avviso della ricorrente, nemmeno consisteva in un ulteriore esame di merito, atteso che è sempre possibile il controllo di legittimità sull’applicazione delle c.d. norme elastiche . Riflessione che viene condivisa dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta le preliminari eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dalla resistente. Ed infatti, nell’avviso della Corte, l’operazione valutativa compiuta dal Giudice di merito nell’applicare norme elastiche non sfugge alla verifica in sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento . Ai fini della sussistenza di una giusta causa non è necessario un dolo specifico. Sotto altro profilo, la medesima Corte ritiene parimenti condivisibile l’ulteriore rilievo della ricorrente, atteso che ai fini della valutazione della sussistenza del dolo non rileva la finalità della condotta, ossia il fine di profitto, dovendo invece essere considerato l’elemento psicologico che ha sorretto il comportamento, ossia se la condotta sia stata volutamente e consapevolmente irresponsabile, tale da far prevedere presumibilmente analoghi futuri comportamenti, dovendo quindi ritenersi la sussistenza del dolo, peraltro assimilabile alla colpa grave . Su questi presupposti - e ribadendo il principio per cui l’accertamento della giusta causa necessita di una valutazione in concreto circa la reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa - la Cassazione rileva come i Giudici di merito non avessero neppure specificamente individuato la disposizione del CCNL alla quale avevano fatto riferimento nell’affermare l’applicabilità di una non meglio precisata sanzione conservativa, con l’effetto che non esisteva in atti - come invece affermato dalla Corte di Appello -nessuna previsione pattizia che abbia esclusivamente tipizzato il comportamento del funzionario postale meramente colposo e passibile soltanto di sanzione conservativa . A conclusione di un ragionamento errato, pertanto, la Corte di Appello aveva ritenuto la necessità di una sorta di dolo specifico o intenzionale ossia caratterizzato dall’intento di conseguire una determinata finalità di cui tuttavia non v’era traccia nella norma contrattuale. Conseguentemente, la Cassazione accoglie il ricorso cassando con rinvio la sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 29 marzo – 4 dicembre 2017, n. 28962 Presidente Di Cerbo – Relatore De Gregorio Svolgimento del processo Con sentenza in data 2 novembre 2012 il giudice del lavoro di Nocera Inferiore, in accoglimento della domanda proposta da I.V. nei confronti di POSTE ITALIANE S.p.A., dichiarava illegittimo ed annullava il licenziamento intimato al ricorrente il 13 febbraio 2009, ordinando alla società convenuta di reintegrare l’attore nel posto di lavoro precedentemente occupato e condannando la stessa al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso sino a quello dell’effettiva reintegra, detratti gli importi percepiti dal 3 luglio 2009 data della riammissione in servizio a seguito di ordinanza ex articolo 700 c.p.c. , nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali maturati durante il suddetto periodo. L’anzidetta pronuncia veniva impugnata da Poste Italiane S.p.A. con ricorso depositato il 18 gennaio 2013, sostenendo che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado, nessun dubbio poteva sussistere in ordine alla ascrivibilità al dipendente dei fatti contestati e posti a fondamento del licenziamento, perché a seguito di complessi ed articolati accertamenti erano state riscontrate numerose irregolarità, nonché violazioni di ordini di servizio presso l’ufficio dove il ricorrente era assegnato come direttore. Tali violazioni riguardavano in particolare molteplici operazioni di rimborsi di titoli di Bancoposta intestati a persone decedute, eseguite senza che fossero aperte le relative pratiche di successione e dunque senza che si individuassero correttamente gli eredi legittimi. I fatti contestati integravano senza dubbio un’ipotesi di giusta causa di licenziamento ai sensi dell’articolo 56 del contratto collettivo nazione di lavoro di categoria e comunque, attesa la natura non tassativa delle previsioni di natura pattizia, dell’articolo 2119 c.c., sicché l’intimato recesso era pienamente legittimo e proporzionato alla gravità delle infrazioni commesse. La Corte d’Appello di Salerno con sentenza n. 1315 in data 12 novembre - 22 dicembre 2014 rigettava l’interposto gravame, compensando peraltro le relative spese, osservando che la conclusione cui era pervenuto il primo giudicante, secondo cui il licenziamento era illegittimo per carenza del requisito della proporzionalità rispetto ai fatti addebitati, costituiva il frutto di un’attenta e condivisibile valutazione delle risultanze probatorie acquisite in corso di causa, donde la conferma dell’impugnata decisione. Secondo la Corte distrettuale, dalle dettagliate e approfondite verifiche eseguite dagli organi ispettivi della società non era affatto emerso che la condotta mantenuta dal dipendente fosse finalizzata al conseguimento di un interesse personale o che comunque avesse arrecato pregiudizio a parte datoriale, ovvero ad alcuno dei suoi clienti in ultima analisi a terzi, tant’è che nella relazione a firma degli ispettori si dava atto che allo stato non vi erano danni accertati. Né risultava, in relazione agli episodi descritti in contestazione, che fosse stato instaurato alcun procedimento penale a carico dello I. , la cui postazione di lavoro peraltro era accessibile anche da parte di altri dipendenti, i quali sovente utilizzavano il computer in dotazione allo stesso. Pertanto, gli addebiti di cui alla lettera di contestazione, lungi dall’integrare gli estremi di violazioni dolose di leggi e regolamenti o dei doveri di ufficio o delle altre ipotesi contemplate dall’articolo 56 del suddetto contratto collettivo, erano in realtà annoverabili tra le meno gravi infrazioni, originate anche da abituale negligenza e inosservanza di leggi, regolamenti obblighi di servizio, in presenza delle quali risultavano applicabili, per espressa previsione pattizia, sanzioni conservative progressivamente individuabili nella multa e nella sospensione dal servizio con privazione della retribuzione nei casi più gravi fino a 10 giorni. In ogni caso, quand’anche si fosse voluto prescindere dalle indicazioni contenute nella contrattazione collettiva, non si sarebbe potuto fare a meno di rilevare che la sanzione espulsiva irrogata era senz’altro sproporzionata, ai sensi dell’articolo 2119 c.c., rispetto alla effettiva entità dei fatti contestati, tenuto altresì conto che, secondo giurisprudenza, la giusta causa di licenziamento costituisce nozione legale, per cui il giudice non è vincolato alla riguardo dalle previsioni del contratto collettivo, nel senso che occorre sempre verificare, stante l’inderogabilità della normativa sui licenziamenti, se la previsione della contrattazione collettiva sia conforme alla nozione di giusta causa di cui all’articolo 2119, dovendosi altresì apprezzare l’inadempimento stesso in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza ex art. 1455 c.c., e se in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore. Pertanto, secondo la Corte di Appello, alla stregua dei richiamati principi di diritto, era possibile senz’altro affermare che gli episodi contestati all’appellato, valutati non solo nel loro contenuto oggettivo, ma anche nella loro portata soggettiva, e quindi con riferimento alle particolari circostanze in cui erano stati posti in essere, agli effetti all’intensità dell’elemento volitivo, non apparivano di gravità tale da impedire la prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro e da giustificare quindi l’applicazione della massima sanzione disciplinare. Infatti, la gran parte delle condotte ascritte si era concretizzata nell’aver consentito in diverse occasioni il rimborso di buoni postali fruttiferi a soggetti cointestatari dei titoli, pur in presenza del decesso di altro contitolare e senza la formale acquisizione delle istanze volte ad ottenere l’autorizzazione al pagamento in successione mortis causa, previa verifica delle prescritte documentazioni. In soli quattro casi, l’addebito mosso era consistito nell’aver consentito l’incasso di somme portate da titoli intestati a clienti deceduti, laddove tuttavia quanto al rimborso di buoni postali cointestati lo I. aveva da subito sostenuto di non essere stato a conoscenza del decesso di uno dei contitolari e di avere quindi eseguito le operazioni in favore dei legittimi beneficiari dei titoli. Quanto alla vicenda riguardante il Torquato, l’appellato aveva sostenuto di avere raccolto la firma presso l’abitazione dello stesso, mentre avuto riguardo alle altre tre operazioni, aveva dichiarato di aver riposto fiducia nella qualità dei presentatori e nella verosimiglianza delle firme apposte sui titoli. Per giunta, le somme rimborsate erano state investite presso Poste Italiane, di modo che la società non aveva subito alcun danno alla pari peraltro di tutti i titolari e/o loro aventi causa dei titoli stessi. Quindi, i comportamenti contestati al dipendente non presentavano una connotazione dolosa e in particolare non apparivano intenzionalmente orientati a perseguire gli interessi personali, ovvero consentire a terzi di incassare le somme loro non spettanti o comunque di conseguire indebite utilità. Le condotte de quibus, invece, denotavano indubbiamente una leggerezza e una superficialità nell’espletamento dei doveri d’ufficio che, sebbene rilevanti sul piano disciplinare, non apparivano di certo idonea a legittimare l’adozione della sanzione espulsiva, tanto più che lo I. non risultava essere stato destinatario di alcuna contestazione disciplinare nel corso dell’intero rapporto. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione POSTE ITALIANE S.p.A. con atto notificato a mezzo posta elettronica 19 giugno 2015, affidato ad un solo motivo, cui ha resistito I.V. mediante controricorso in data 28 - 29 luglio 2015. Memoria ex art. 378 c.p.c. risulta depositata nell’interesse della ricorrente, mentre soltanto il difensore del controricorrente ha partecipato alla pubblica udienza del 29 marzo 2017. Motivi della decisione Con un unico articolato motivo la società ricorrente ha denunciato violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c., nonché dell’articolo 3 L. n. 604 del 1966, in relazione all’articolo 360, co. I, n. 3 c.p.c., con riferimento alla sussunzione nella fattispecie contemplata dall’articolo 2119 del concreto comportamento posto in essere dal dipendente. Premesso che era possibile il controllo di legittimità sull’applicazione delle c.d. norme elastiche, aveva errato la Corte di appello nell’escludere il dolo, in relazione al quale non rileva la finalità della condotta mirata a conseguire un determinato profitto, dovendosi invece avere riguardo all’elemento psichico, al fine di stabilire se la condotta stessa sia stata volutamente e consapevolmente irresponsabile e tale da far prevedere, presumibilmente, per il futuro analoghi comportamenti. Occorreva, dunque, accertare il grado d’intenzionalità dell’azione, indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno scopo di lucro ovvero di arrecare danno all’azienda ciò che rilevava, quindi, era la sussistenza di una condotta lesiva del vincolo fiduciario e che incida negativamente sull’aspettativa di un futuro corretto adempimento della prestazione di lavoro, nonché sull’osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede. Né aveva rilievo il fatto che non risultasse pendente alcun procedimento penale. Tanto premesso, il ricorso appare fondato nei seguenti termini. Ed invero la fattispecie qui in esame è per molti versi analoga a quella già esaminata da questa Corte con la sentenza n. 14324 del 16/04 - 09/07/2015, mediante cui veniva cassata con rinvio la decisione di appello, che, in riforma della pronuncia di prime cure, accolse l’impugnazione del licenziamento nei confronti della Poste Italiane S.p.a., con applicazione della tutela reale ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012. Nella specie era stata, tra l’altro, denunciata la violazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3 L. n. 604 del 1966, in relazione alle cosiddette norme elastiche, osservando, tra l’altro, riguardo alla ritenuta esclusione nella specie delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, come ai fini della valutazione della sussistenza del dolo non rilevasse la finalità della condotta, ossia il fine di profitto, dovendo invece essere considerato l’elemento psicologico che ha sorretto il comportamento, ossia se la condotta sia stata volutamente e consapevolmente irresponsabile, tale da far prevedere presumibilmente analoghi futuri comportamenti, dovendo quindi ritenersi la sussistenza del dolo, peraltro assimilabile alla colpa grave era stato altresì dedotto come erroneamente fosse stata valorizzata la mancanza di un danno concreto per la parte datoriale. Orbene, anche in questa fattispecie la ricorrente ha lamentato che la Corte territoriale, disattendendo gli elementi integrativi della nozione legale di giusta causa, elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, nell’ambito dei quali ha fatto altresì espresso richiamo ai precedenti in tema di non vincolatività per il giudice delle previsioni dei contratti collettivi, avesse ritenuto che nel caso esaminato non ricorressero le ipotesi astrattamente previste dalla contrattazione collettiva di settore, contestando inoltre proprio la configurazione del comportamento doloso, nel che è altresì implicita, per il rilievo assorbente delle censure svolte, conducenti alla dedotta insussistenza della giusta causa di licenziamento, la negazione, proprio per le considerazioni che tali censure sostengono, della ritenuta sussunzione di tali condotte in altri ambiti previsionali della normativa collettiva contemplanti soltanto l’applicazione di sanzioni conservative . Parimenti, dunque, vanno disattese le eccezioni preliminari qui opposte dal controricorrente I. , secondo il quale invece non sarebbero state censurate tutte le plurime rationes decidendi cfr. in particolare pagg. da 5 a 10 del controricorso . Per contro, il ricorso di POSTE ITALIANE ha ritualmente censurato, in modo pertinente, la sentenza di appello proprio laddove è stata esclusa essenzialmente la natura dolosa della contestata reiterata condotta tenuta dal dipendente, dolo la cui nozione non può che derivare dalla legge, così integrando la c.d. clausola elastica del licenziamento, sia esso per giusta causa o per giustificato motivo, quale contemplata dalla stessa normativa, evidenziandosi tra l’altro soprattutto l’irrilevanza della finalità della condotta sotto il profilo psichico, nonché l’alquanto limitata rilevanza della contrattazione collettiva rispetto alle previsioni di legge in materia. Orbene, va ricordato quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale o norma elastica che dir si voglia , che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme elastiche, come quelle relativa alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, non sfugge alla verifica in sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento cfr., tra le varie, Cass. nn. 21575/2008, 25144/2010, 5095/2011, 6498/2012, 6501/2013 . Correlato a tale principio è quello secondo cui la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare deve essere in ogni caso effettuata attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo. Nel caso qui in esame, la Corte salernitana ha ritenuto che gli addebiti formulati nei confronti dello I. non fossero riconducibili nel novero delle violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare danno o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi ex art. 56, VI, lett. C, c.c.n.l. 11-07-2007 , condividendo invece le conclusioni del giudice di primo grado, secondo cui gli addebiti di cui alla lettera di contestazione disciplinare erano in realtà annoverabili tra le meno gravi infrazioni, originate anche da abituale negligenza o inosservanza di leggi, regolamenti o di obblighi, in presenza delle quali risultavano applicabili, per espressa previsione pattizia, le menzionate sanzioni conservative. Invero, la sentenza qui impugnata non ha neppure specificamente individuato, né altrimenti riportato, ancorché succintamente, la disposizione contrattuale cui ha inteso riferirsi circa l’applicabilità delle sanzioni conservative, sicché non consta in atti alcuna precisa previsione pattizia, che abbia esclusivamente tipizzato il comportamento del funzionario postale, meramente colposo nei sensi di cui sopra, passibile soltanto di sanzione conservativa. Ne deriva che la nozione legale di giusta causa, ex art. 2119. esplica nella specie pieni effetti, cui il giudice è obbligato ad attenersi, ancorché elasticamente ed ampiamente integrata dal succitato art. 56, VI, lett. c , pure con riferimento alla nozione di dolo, siccome desumibile dalle norme dell’ordinamento giuridico in generale non esclusi quindi gli artt. 43 e ss. del codice penale, ovviamente a nulla rilevando in questa autonoma causa civile l’addotto mancato inizio di alcun procedimento penale, tanto più ove si consideri che non risulta comunque intervenuta alcuna pronuncia di assoluzione in favore dello I. . Del pari, quindi, è assolutamente inconferente l’argomentazione del controricorrente circa la valenza della contrattazione collettiva nella specie in base all’art. 30 L. n. 183/2010 Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni , norma peraltro qui non solo ratione temporis difficilmente applicabile, rispetto ad una contrattazione collettiva risalente all’anno 2007 e ad un conseguente recesso intimato il 13 febbraio 2009, previa contestazione in data 19 gennaio, ma soprattutto perché non si rileva alcuna specifica tipizzazione, in quanto tale esauriente nella sua previsione in senso assoluto e cogente ai fini del giudizio di cui è processo. Pertanto, non può ritenersi sufficiente, al fine dell’esclusione della giusta causa, l’eventuale insussistenza di uno o più degli elementi fattuali contemplati nelle previsioni del c.c.n.l. richiamati ai fini del licenziamento art. 54, comma 6, lett. c per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri d’ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi , laddove rileva evidentemente anche la mera potenzialità dannosa della condotta contestata. Circa, poi, il carattere doloso delle violazioni in parola - nei limiti peraltro di quanto obiettivamente emergente accertato, in punto di fatto, dalla pronuncia di merito qui impugnata - deve rilevarsi che la sentenza d’appello ha ritenuto di doverlo escludere, reputando in particolare comunque connotate da leggerezza e superficialità nell’espletamento dei doveri di ufficio, soprattutto perché non intenzionalmente orientate a perseguire interessi personali. Di conseguenza, in effetti la Corte territoriale ha ritenuto la necessità di una sorta di dolo specifico o intenzionale, ossia caratterizzato dall’intento di conseguire una determinata finalità, ciò di cui non vi però alcuna traccia nella succitata norma pattizia, che, facendo semplicemente riferimento alla natura dolosa delle violazioni, contempla in tal modo la sussistenza solamente di un dolo generico, la cui sussistenza o meno va per l’effetto debitamente e di nuovo verificata, in concreto, dal giudice di merito, con appropriata valutazione, immune soprattutto da errori di diritto, nei sensi indicati nelle precedenti considerazioni, senza trascurare alcuna delle circostanze verificatesi nella vicenda de qua. Al fine di valutare, dunque, la proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione irrogata e, quindi, la sussistenza della giusta causa, ovvero l’eventuale giustificato motivo soggettivo deve naturalmente valutarsi se gli inadempimenti siano stati tali, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, da ledere in maniera irreversibile il rapporto fiduciario che, deve permanere fra il datore di lavoro e il lavoratore. L’impugnata sentenza va, pertanto, negli anzidetti termini cassata con conseguente rinvio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 384, comma II, c.p.c., occorrendo conseguenti ulteriori accertamenti di fatto alla luce dei richiamati principio di diritto, da parte di altro collegio giudicante, che all’esito provvederà, ovviamente, anche sulle spese di questo giudizio di legittimità. P.Q.M. la Corte, accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Salerno in diversa composizione.