L’assoggettamento al datore di lavoro non è l’unico indice della subordinazione

Il criterio dall’assoggettamento del lavoratore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro può non risultare significativo per la qualificazione del rapporto, occorrendo in alcuni casi fare ricorso a criteri distintivi sussidiari.

Lo ha ribadito la Suprema Corte con la sentenza n. 23846/17 depositata l’11 ottobre. La vicenda. La Corte d’appello di Roma riformava la sentenza di prime cure e riconosceva la natura subordinata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato su richiesta di una lavoratrice terminalista addetta alla ricezione delle scommesse presso una società ippica, riconoscendo inoltre il diritto alle differenze retributive maturate e l’illegittimità del licenziamento verbale intimatole. La società ricorre in Cassazione per l’erroneo accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro e l’omesso esame di fatti decisivi, con riferimento alla saltuarietà delle prestazione e alla possibilità per la lavoratrice di declinare quotidianamente la propria presenza senza giustificazione, elementi che avrebbe dovuto ricondurre il rapporto alla cd. parasubordinazione. Qualificazione del rapporto. La Corte coglie l’occasione per richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’esistenza del vincolo di subordinazione deve essere concretamente valutata sulla base della specificità dell’incarico conferito al lavoratore e delle modalità di attuazione. Nell’ambito di tale valutazione assumono rilevanza alcuni indicatori sussidiari quali la presenza di una pur minima organizzazione dell’imprenditore o l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario di lavoro, la forma della retribuzione, la continuità della prestazione. La giurisprudenza ha affermato la regula juris secondo cui nel caso in cui le mansioni inerenti alla prestazione siano elementari, ripetitive e predeterminate nelle modalità di esecuzione, sia in quello opposto, in cui le stesse mansioni, per lo più intellettuali, siano tali da essere dotate di notevole elevatezza e/o creatività, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo per la qualificazione del rapporto, occorrendo in tal caso far ricorso a criteri distintivi sussidiari , come quelli summenzionati. Avendo la Corte territoriale adeguatamente applicato tali principi, la qualificazione del rapporto come subordinato si sottrae ad ogni censura. Il ricorso viene dunque rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 maggio – 11 ottobre 2017, numero 23846 Presidente Macioce – Relatore De Felice Fatti di causa Con sentenza in data 17/01/2015, la Corte d’Appello di Roma ha riformato la sentenza del Tribunale, stessa sede, numero 11075/2010, accogliendo il ricorso di Pr.Ma.Te. , terminalista addetta alla ricezione delle scommesse presso la società Agenzia Ippica Trieste di B. e P. S.numero c Nel riconoscere la natura subordinata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato intercorso ininterrottamente dal 1988 tra la P. e la società, il giudice dell’appello ha dichiarato il diritto della lavoratrice a percepire le differenze retributive maturate, qualificando altresì illegittimo il licenziamento verbale, intimato dall’appellata in data 19/10/2007, e condannato l’Agenzia Ippica Trieste a corrispondere alla ricorrente, a titolo risarcitorio l’ammontare delle retribuzioni non percepite a decorrere dalla data di messa in mora e fino alla riammissione in servizio, oltre accessori. Per la cassazione della sentenza interpone ricorso l’agenzia Ippica Trieste di B. e P. S.numero c. con cinque censure, cui resiste con tempestivo controricorso, illustrato da memoria, Pr.Ma.Te. . Ragioni della decisione Col primo motivo parte ricorrente contesta violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2106 cod.civ. per non avere, la sentenza gravata, operato un corretto accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, in base al riconoscimento degli indici sintomatici primari che lo caratterizzano, tra i quali emergono in primo luogo i poteri datoriali direttivo, organizzativo e disciplinare, del tutto assenti nella fattispecie contrattuale controversa. Col secondo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti decisivi, per non avere la Corte territoriale conferito rilievo alla saltuarietà delle prestazioni e al diritto del lavoratore di declinare la propria presenza giornaliera senza dover fornire una giustificazione, quali circostanze idonee a rendere incompatibile con lo schema contrattuale della subordinazione tipica il rapporto di lavoro controverso, coincidendo in tutto e per tutto, il modello prescelto dai contraenti, con lo schema legale della cd. parasubordinazione art. 61 d.lgs. numero 276/2003 . La censura invocata è sostenuta dal richiamo alla decisione di prime cure in cui si specificava che le parti avevano dato corso a una pluralità di contratti di lavoro autonomo e di collaborazione professionale e che il quadro emerso portava a escludere radicalmente che la ricorrente avesse mai lavorato senza alcuna forma di regolarizzazione, ossia in nero . Nel terzo, quarto e quinto motivo, rappresentati congiuntamente peraltro, numerati in modo erroneo come 4, 5, e 6 si deducono omesso esame di fatti decisivi 3 , violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cid.civ. 4 , violazione e falsa applicazione dell’art. 61 d.lgs. numero 276/2003 5 . Le predette censure propongono brani di testimonianze acquisite ai giudizi di merito per evidenziare come, a differenza dal giudice di prime cure, la Corte d’Appello abbia mancato di far derivare da esse l’assenza degli indici di subordinazione, in particolare del potere disciplinare della datrice, non essendo emerso dalle evidenze istruttorie alcun elemento riconducibile alla condizione di soggezione ed eterodirezione del lavoratore ma essendo scaturita, al contrario, dalle modalità di svolgimento del rapporto la conferma della sua natura autonoma. Il primo motivo di censura è inammissibile. Parte ricorrente solo formalmente deduce un vizio di sussunzione, là dove contesta la decisione gravata sotto il profilo dell’interpretazione delle concrete modalità di svolgimento della prestazione, che secondo la sua prospettazione non darebbero prova della sussistenza di un vincolo di subordinazione. In particolare, la critica si appunta sul risultato negativo dell’accertamento in merito all’esistenza del potere disciplinare in capo alla predetta Società. In generale giova rammentare come la giurisprudenza di questa Corte esprima un consolidato orientamento in tema di poteri riconosciuti al giudice del merito nella qualificazione del rapporto. Si afferma che l’esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito dal lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto di un rapporto di lavoro sia autonomo sia subordinato. In sede di legittimità quello che è censurabile è unicamente la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, incensurabile in tale sede se sorretta da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale Tra le numerose decisioni si vedano Cass. numero 224/2001 Cass. numero 16697/2002 Cass. numero 9251/2010 . Viene tuttavia altresì precisato in tali pronunzie che, nei casi in cui la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato è di più complessa enucleazione in relazione al tipo di incarico conferito al lavoratore e al contesto in cui è svolta la prestazione, è legittimo ricorrere ad indicatori sussidiari, quali la presenza della pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità della prestazione. È stata, di conseguenza, enucleata la regula juris, alla quale s’intende dare continuità, secondo la quale, sia nel caso in cui le mansioni inerenti alla prestazione siano elementari, ripetitive, e predeterminate nelle modalità di esecuzione, sia in quello opposto, in cui le stesse mansioni, per lo più intellettuali, siano tali da essere dotate di notevole elevatezza e/o creatività, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo per la qualificazione della natura del rapporto, occorrendo in tal caso far ricorso a criteri distintivi sussidiari quali la continuità e durata dello stesso, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un reale potere di autorganizzazione in capo al prestatore in merito a ipotesi analoghe a quella in esame si vedano Cass. numero 20367/2014 e Cass. numero 12330/2016 . A tali principi la Corte territoriale si è attenuta puntualmente, dando rilievo, ai fini di cui trattasi, ai risultati dell’istruttoria dai quali era emerso che il lavoro degli addetti alla ricezione di scommesse si svolgeva nei locali dell’agenzia, secondo orari predeterminati e articolati in turni che i turni erano stabiliti N dall’agenzia che predisponeva un calendario sulla scorta delle disponibilità individuali che le prestazioni venivano rese secondo un orario che i lavoratori, una volta accettato il turno, erano obbligati a rispettare che, in caso di indisponibilità i lavoratori erano tenuti ad avvertire preventivamente il responsabile dell’agenzia che i lavoratori non avevano alcuna attrezzatura personale e non correvano alcun rischio economico, essendo il loro compenso comunque garantito che erano tenuti a norme di comportamento nello svolgimento dell’attività lavorativa ed erano sottoposti all’attività di vigilanza e controllo da parte del responsabile dell’agenzia che il lavoratore impossibilitato a recarsi al lavoro doveva avvertire preventivamente il responsabile del servizio o attivarsi personalmente che le mansioni svolte non comportavano l’espletamento del potere direttivo in via continuativa, in quanto, una volta apprese le operazioni da compiere, dopo un periodo di iniziale addestramento, le stesse si rivelavano semplici e non esigevano un alto grado di professionalità. La sentenza, pur facendo ampio utilizzo degli indicatori sussidiari sopra richiamati, con motivazione coerente, esente da vizi logico - argomentativi, non ha escluso altresì l’esistenza di un potere disciplinare in capo alla Società, riconoscendone tuttavia il limitato spazio d’azione, dovuto proprio alla standardizzazione delle mansioni. La Corte ha rilevato in proposito come, dalle evidenze istruttorie fosse risultato che il potere disciplinare non fosse assente dall’insieme delle modalità contrattuali, di tal che non era possibile concludere per l’assenza di un vincolo di subordinazione. È quindi corretta la statuizione della Corte territoriale che ha riconosciuto tale vincolo, riscontrando la sottoposizione della lavoratrice al potere organizzativo, di controllo e, all’occorrenza, disciplinare, del datore di lavoro e ravvisando nelle prospettazioni processuali l’assenza di margini di autonomia del lavoratore nell’esercizio della prestazione. Va tuttavia in questa sede precisato che l’assenza di un potere disciplinare non può, di per sé, comportare la negazione del vincolo di subordinazione, sebbene nel caso in esame la Corte territoriale ne abbia ravvisato una traccia potenziale nell’esistenza di un codice di comportamento preventivo e nell’attribuzione del potere di indurne l’applicazione in capo al datore, pur entro i limiti fisiologici di prestazioni standardizzate soggette a continui controlli e diretti interventi di correzione che lasciano uno spazio minore all’esplicazione del potere disciplinare datoriale così come è inteso comunemente. La seconda censura è inammissibile, in quanto tende a dare ingresso ad una surrettizia revisione del giudizio di merito, attraverso il controllo in sede di legittimità della motivazione della sentenza gravata o indurre a prendere in considerazione sotto un’angolazione diversa, coincidente con le proprie ragioni, il materiale probatorio assunto dal giudice a fondamento della propria decisione. Come affermano le Sezioni Unite numero 8053/2014 , la riformulazione dell’art. 360, numero 5, cod. proc. civ., ad opera delk0art, 54, d.l. 22 giugno 2012, numero 83, conv. in l. numero 134/2012, ha comportato l’introduzione nell’ordinamento di un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Nella censura in esame, la parte in realtà deduce un vizio di motivazione , e non già un omesso esame , per avere il giudice di appello negato erroneamente che le circostanze di svolgimento del rapporto fossero incompatibili con la parasubordinazione, coincidendo in tutto e per tutto, con lo schema legale tipico, formalmente prescelto dai contraenti, art. 61 d.lgs. numero 276/2003 . Gli ultimi tre motivi vanno trattati congiuntamente. Essi sono inammissibili, perché violano le regole di chiarezza e specificità dell’impugnazione, proponendo solo nominalmente una pluralità di censure, dalla cui successiva esplicazione non si apprezza né la reciproca autonomia, né il chiaro significato Cass. Sez. Unumero , numero 9100/2015 , bensì si arriva a contestare il convincimento del giudice - difforme da quello auspicato - mirando, così a un riesame del merito estraneo al giudizio di legittimità. In definitiva, il ricorso è infondato e pertanto va rigettato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento nei confronti della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.700 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del d.P.R. numero 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.