Fidarsi (dell’INPS) è bene

Nell’ipotesi in cui l’INPS abbia fornito all’assicurato una erronea indicazione in eccesso del numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti per fruire della pensione di anzianità, il danno sofferto dall’assicurato per la successiva interruzione del rapporto di lavoro, è riconducibile a responsabilità contrattuale dell’istituto, che risulta inadempiente all’obbligo di non frustrare la fiducia di soggetti titolari di interessi volti al conseguimento di beni essenziali della vita, riconducibile ai principi di correttezza e buona fede, imparzialità e buon andamento.

Così ha sentenziato la Corte di Cassazione con la decisione n. 23050/2017, depositata il 3 ottobre. Si fidava dell’INPS Un lavoratore sottoscriveva atto transattivo in cui accettava il licenziamento intimatogli ed il conseguente trattamento di mobilità, sul presupposto di aver ormai maturato i 35 anni di contribuzione per accedere alla pensione di anzianità. Terminato il periodo di mobilità, presentava, quindi, domanda di pensione che veniva rigettata dall’INPS per insussistenza del requisito di anzianità. Il lavoratore si vedeva quindi costretto a versare la contribuzione volontaria per il periodo residuo. Si precisa che la convinzione del lavoratore di avere i presupposti per il pensionamento non era intima o personale, ma scaturiva da una precisa informazione, lui pervenuta dall’INPS, opportunamente interpellato sul punto prima di sottoscrivere l’accordo sul licenziamento. Il lavoratore, quindi, si rivolgeva al giudice del lavoro per ottenere un prolungamento del periodo di mobilità, così da aggiungere appieno l’anzianità richiesta e la condanna dell’ INPS al risarcimento del danno, per avere quest’ultimo indotto in errore il lavoratore, costretto a versare la contribuzione volontaria. I Giudici di merito rigettavano le doglianze del lavoratore poiché, in ogni caso, a questi non sarebbe spettato un trattamento di mobilità più lungo e comunque andava esclusa qualsiasi responsabilità di INPS che, nel caso di specie, aveva dato notizie in maniera informale, senza cioè che la richiesta fosse avanzata mediante l’apposita modulistica. Le comunicazioni errate di INPS c’è sempre responsabilità. La Corte di Cassazione, a differenza dei Giudici di merito, riconosce la responsabilità nell’INPS nella causazione del danno al lavoratore, osservando in primo luogo come l’Istituto debba rispondere del danno derivato da un proprio errore di comunicazione, a titolo di responsabilità contrattuale, salvo che provi che la causa dell’errore sia esterna alla sua sfera di controllo o comunque che l’errore sia stato inevitabile anche con la dovuta diligenza. La Corte, però, dà anche atto di un proprio orientamento più stringente che riconosce la responsabilità dell’Istituto quando le informazioni errate siano state fornite su specifica domanda dell’interessato e non su richiesta di un parere informale , quando inducano l’interessato in errore scusabile e quando si riferiscano a dati ufficialmente concernenti la posizione assicurativa dell’interessato che sono gli unici che l’ente sia tenuto a riferire per tramite dei propri funzionari . Diversamente, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione pone l’accento sull’affidamento del cittadino verso l’ente pubblico, sostenendo che la richiesta dell’assicurato di ricevere informazioni sulla propria posizione contributiva od assistenziale non deve avere forme particolari, né requisiti formali sono previsti per il riscontro a tale richiesta, essendo sufficiente che la risposta dell’ente sia comprensibile dal cittadino munito del livello di istruzione obbligatoria. Nessun requisito di forma è infatti previsto dall’art. 54 l. n. 88/1989 sui valore certificativo delle comunicazioni INPS. Il principio di buon andamento A sostegno di tale ragionamento si pone anche il principio di buon andamento, garantito dall’art. 97 Cost. che impone la veridicità degli atti e dei provvedimenti delle pubbliche amministrazioni, che mai possono essere considerati come asserzioni su cui la prudenza richieda di non fare assegnamento . Il cittadino, quindi, non può che fare affidamento su ciò che viene comunicato dalla pubblica amministrazione. Certamente è possibile che il danno sia causato anche da un fatto colposo dell’assicurato, il quale, ad esempio, non approfondisca il contenuto di una comunicazione inverosimile o poco comprensibile, ma ciò non basta ad escludere la responsabilità dell’ente, tanto più se pubblico. Ne consegue che, l’affidamento dell’assicurato va tutelato ai sensi dell’art. 1175 c.c., essendo i funzionari degli enti pubblici titolari di poteri/doveri di comunicazione che devono essere esercitati con la dovuta diligenza. Pertanto grava sull’ente previdenziale, l’obbligo di risarcire il danno derivato dall’erronea comunicazione e ciò, anche quando come nel caso di specie non trova diretta applicazione l’art 54 l. n. 88/1989 che pone a carico dell’INPS l’obbligo di comunicare agli assicurati l’entità dei contributi versati. Si tratta quindi di responsabilità contrattuale dell’Istituto per violazione dei principi di correttezza e buona fede, applicabili alla stregua del principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione l’ente pubblico non deve frustrare la fiducia dei cittadini fornendo informazioni errate o dichiaratamente approssimative, pur se contenute in documenti privi di valore certificativo. Chi sbaglia paga, anche se è una pubblica amministrazione.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 4 aprile – 3 ottobre 2017, numero 23050 Presidente Napoletano – Relatore Balestrieri Svolgimento del processo Con ricorso al Tribunale di Roma, N.F. deduceva di avere lavorato alle dipendenze del Panificio L. s.r.l. di essere stato collocato in mobilità in data 30.9.99 sul presupposto determinato dall’erronea indicazione dell’INPS che fosse sufficiente un periodo di 18 mesi per la maturazione del requisito di 35 anni di contribuzione per la pensione di anzianità di avere quindi sottoscritto un atto transattivo con rinuncia ad impugnare il licenziamento che la domanda di pensione presentata il 5.2.01 era stata respinta per non avere egli perfezionato i requisiti richiesti che per un calcolo erroneo della posizione contributiva da parte dell’INPS, il periodo di mobilità non era sufficiente per conseguire il diritto a pensione. Deduceva che la società si era rifiutata in data 14.6.2001 di richiedere, come proposto dal N. , un prolungamento del trattamento di mobilità di essere stato quindi costretto al versamento della contribuzione volontaria per la copertura assicurativa necessaria, con un esborso di Euro 8.954,38. Assumeva la responsabilità della società per avere illegittimamente inserito il lavoratore nelle liste di mobilità un periodo inferiore a quello spettante, in violazione dell’articolo 5 legge numero 223/91 e, comunque, per avere rifiutato di estendere il periodo di collocamento in mobilità oltre i diciotto mesi e fino al massimo consentito dall’articolo 7 L. cit. la responsabilità dell’INPS per aver fornito erronee informazioni sulla sua posizione assicurativa. Chiedeva dunque la condanna delle parti resistenti, in via alternativa o solidale, al risarcimento del danno commisurato alla somma pagata per la contribuzione volontaria oltre alle retribuzioni non percepite per il periodo dal 20.5.01 al 1.4.03, oppure, in via alternativa e subordinata, alla relativa indennità di mobilità per il medesimo periodo oppure alla diversa somma determinata in via equitativa. Il Tribunale ritenne che il lavoratore non poteva aspirare ad un periodo di mobilità superiore a 18 mesi, poiché non poteva vantare, nel maggio 1999, un’anzianità di servizio presso la società superiore a 18 mesi. Rigettava la domanda nei confronti dell’INPS ritenendo non chiaramente indicato l’impiegato che avrebbe fornito le erronee informazioni circa l’estratto conto, che del resto presentava evidenti errori di calcolo. Avverso tale sentenza proponeva appello il lavoratore resisteva la società. Con sentenza depositata il 28 febbraio 2011, la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame. Riteneva la Corte che il rapporto di lavoro del N. con la società L. , anche a seguito di licenziamenti ed assunzioni ex novo in via transattiva, non aveva avuto durata superiore a 18 mesi, sicché la mobilità non poteva superare tale periodo che la collocazione in mobilità era avvenuta sulla base delle informazioni fornite dal lavoratore circa la sua anzianità contributiva che la questione dell’applicazione della cd. mobilità lunga ex articolo 7 L. numero 223/91 non era stata proposta in primo grado ed era dunque inammissibile. Confermava che le informazioni in tesi ricevute dall’INPS erano generiche, così come l’estratto conto fornito del tutto informale e palesemente erroneo, e dunque inidoneo a rivestire efficacia certificativa ed a concretare un danno da legittimo affidamento. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il N. , affidato a quattro motivi. Resistono la società e l’INPS con controricorso. Motivi della decisione 1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4, 5, 7, 16 e 24 L. numero 223/91 dell’articolo 18 L. numero 300/70 degli artt. 1362, 1372, 2113 e 2697 c.c., oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia articolo 360, comma 1, numero 5 c.p.c. . Lamenta che la sentenza impugnata ritenne, sulla base della transazione 23.2.98, esservi stata una nuova assunzione in data 12.3.98, sicché la durata dell’ultimo rapporto non superava i 18 mesi, senza considerare che il rapporto lavorativo con la L. aveva avuto, nella sostanza, durata ben maggiore, come del resto risultava dalla somma riconosciutagli in sede transattiva, corrispondente al risarcimento massimo, spettante, ai sensi della L. numero 108/90, ai lavoratori con anzianità di servizio superiore ai venti anni. Lamenta inoltre che la sentenza impugnata non considerò che il licenziamento non aveva rispettato i criteri di scelta di cui alla L. numero 223/91. Il motivo è infondato. Deve preliminarmente osservarsi che la questione del mancato rispetto dei criteri di scelta di cui alla L. numero 223/91 non risulta esaminata e neppure devoluta al giudice di appello, sicché sarebbe stato onere del ricorrente provare in quale sede, in quali termini e quando essa venne sottoposta ritualmente nel giudizio di merito ed al giudice del gravame. Per il resto occorre osservare che la transazione liberamente sottoscritta dal lavoratore, e comunque non impugnata, prevedeva chiaramente una assunzione ex novo dal 12.3.98, restando del tutto irrilevante la somma in quella sede convenzionalmente corrisposta, tanto più ai fini di poter derogare al dettato di cui alla L. numero 223/91 in tema di mobilità e relativo periodo non maggiore di quello di cui all’anzianità di servizio maturata presso l’impresa che ha attivato la procedura di mobilità, articolo 7 . 2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia una omessa pronuncia ex articolo 112 c.p.c., oltre ad omessa ed insufficiente motivazione. Lamenta che la sentenza impugnata non aveva considerato l’anzianità reale del N. presso la società L. , concetto evincibile dall’articolo 16 L. numero 223/91 che prevede, ai fini della concessione della mobilità, almeno sei mesi di lavoro effettivo”. Lamenta ancora che la sentenza impugnata non aveva considerato che, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, L. numero 223/91, il N. non doveva figurare, per anzianità e carichi di famiglia, nel novero dei dipendenti da licenziare. Il motivo è infondato. La censura, come sopra notato, risulta nuova, non sussistendo dunque alcuna violazione dell’articolo 112 c.p.c., ed è comunque basata sul concetto del rilievo della effettiva” anzianità di servizio presso l’impresa che ha disposto la collocazione in mobilità, di cui si è già detto. Deve al riguardo ribadirsi che il rapporto con l’impresa che ha disposto la mobilità deve avere una durata non superiore a quella giuridicamente maturata presso l’impresa, non potendo evincersi dal concetto di lavoro effettivo di cui all’articolo 16 L. numero 223/91, la possibilità di valutare, superando il dato giuridico dell’assunzione ex novo, tutto il rapporto pregresso, come del resto affermato da Cass. numero 12406/08 citata dal ricorrente secondo cui la norma di cui all’articolo 7, comma 4, della legge numero 223 del 1991 - che stabilisce che l’indennità di mobilità non può essere corrisposta per un periodo superiore all’anzianità maturata dal lavoratore alle dipendenze dell’impresa che abbia attivato la procedura di cui all’articolo 4 della stessa legge - è finalizzata ad evitare il rischio di programmate precostituzioni di anzianità lavorative volte al godimento di una maggiore indennità di mobilità e trova applicazione anche nei confronti di lavoratore che, a seguito di trasferimento di azienda, sia transitato alle dipendenze della cessionaria, la quale abbia poi attivato la procedura di mobilità. 3.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 54 L. numero 88/89, oltre ad omessa ed insufficiente motivazione. Con il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 210, 213, 345, 356, 420, 421 e 437 c.p.c., oltre che dell’articolo 2697 c.c., oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia. Lamenta che la sentenza impugnata, pur riconoscendo che il lavoratore che abbia cessato il lavoro sulla base di una erronea comunicazione dell’INPS circa la propria posizione contributiva, ha diritto al risarcimento del danno, ha tuttavia precisato che ciò presuppone una specifica richiesta dell’interessato ed un documento ufficiale proveniente dall’INPS, presupposti che nella specie non ricorrevano. Lamenta l’erroneità della sentenza impugnata laddove ritenne che l’estratto contributivo informale fornito dall’INPS non era stato emesso a seguito della richiesta prevista dal citato articolo 54 e non poteva quindi considerarsi certificazione tale da ingenerare affidamento, senza peraltro ammettere la prova testimoniale sul punto richiesta dal ricorrente. 4.- I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono fondati. Deve infatti osservarsi che in tema di erronea comunicazione al lavoratore, da parte dell’Inps, della posizione contributiva utile al pensionamento, l’ente risponde del danno derivatone per inadempimento contrattuale, salvo che provi che la causa dell’errore sia esterna alla sua sfera di controllo e l’inevitabilità del fatto impeditivo nonostante l’applicazione della normale diligenza Cass. numero 26925/08 . Ora è pur vero che questa Corte ha talvolta affermato che la responsabilità contrattuale dell’ente previdenziale per erronee informazioni fornite all’assicurato può configurarsi, in generale, ove queste a siano rese su specifica domanda dell’interessato, e non su informale richiesta di parere b inducano l’interessato in errore scusabile c si riferiscano a dati ufficialmente concernenti la posizione assicurativa dell’interessato, che sono gli unici che l’ente sia tenuto a comunicare, attraverso i propri funzionari, ex articolo 54 della legge numero 88 del 1989 Cass. ord. numero 1660/12 . Deve tuttavia rimarcarsi che questa Corte ha altresì affermato che l’articolo 54 cit., secondo cui l’ente deve comunicare, a richiesta, i dati relativi alla situazione previdenziale e pensionistica del richiedente e la comunicazione da parte degli enti ha valore certificativo della situazione in essa descritta , non richiede per questa comunicazione speciali forme, bastando la comprensibilità del cittadino munito del livello di istruzione obbligatoria, né alcuna norma prevede parti di essa meramente incidentali e accessorie, delle quali il destinatario debba tener conto a suo rischio. Al contrario, il principio di buon andamento, di cui all’articolo 97 Cost., comma 1, impone la veridicità degli atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni, i quali giammai possono essere considerati come asserzioni su cui la prudenza richieda di non fare assegnamento. È certamente possibile che alla produzione del danno concorra il fatto colposo dell’amministrato creditore, il quale ad esempio non approfondisca il contenuto di una comunicazione non chiara o verosimilmente incompleta, ma tale eventualità può costituire oggetto di accertamento nel processo di merito e non basta ad escludere in radice la responsabilità della pubblica amministrazione Cass. numero 15650/07, Cass. numero 7859/04 . A ciò aggiungasi che sempre questa Corte ha più recentemente affermato che nell’ipotesi in cui un ente previdenziale, avente personalità giuridica di diritto privato, comunichi ad un proprio assicurato un’informazione erronea in ordine all’avvenuta maturazione del requisito contributivo occorrente per poter fruire della pensione di vecchiaia, pur non essendo applicabile l’articolo 54 della legge 9 marzo 1989, numero 88, il quale pone a carico dell’INPS l’obbligo di comunicare agli assicurati l’entità dei contributi versati, merita nondimeno tutela, ai sensi dell’articolo 1175 cod. civ., l’affidamento dell’assicurato, essendo altresì gli organi degli enti previdenziali privati, per l’attività di amministrazione e di gestione svolta, in possesso di dati e di conoscenze, che comportano la titolarità di poteri e di connessi doveri, anche di comunicazione, da esercitare con diligenza. Ne consegue che grava sull’ente previdenziale l’obbligo di risarcire il danno derivato dall’erronea comunicazione e dalla conseguente decisione dell’assicurato di cancellarsi dall’albo professionale Cass. numero 3195/12 . Il principio vale, a maggior ragione, per l’INPS. Con sentenza numero 21454/13 questa Corte ha infatti affermato che nell’ipotesi in cui l’I.N.P.S. abbia fornito all’assicurato, mediante il rilascio di estratti-conto assicurativi, contenenti risultanze di archivio e pur se privi di sottoscrizione, una erronea indicazione in eccesso del numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti a fruire di pensione di anzianità, il danno sofferto dall’interessato per la successiva interruzione del rapporto di lavoro per dimissioni e del versamento dei contributi, è riconducibile non già a responsabilità extracontrattuale, ma contrattuale, in quanto fondata sull’inadempimento dell’obbligo legale gravante su enti pubblici dotati di poteri di indagine e certificazione, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’articolo 97 Cost. , di non frustrare la fiducia di soggetti titolari di interessi al conseguimento di beni essenziali della vita quali quelli garantiti dall’articolo 38 Cost. , fornendo informazioni errate o anche dichiaratamente approssimative, pur se contenute in documenti privi di valore certificativo. La sentenza impugnata risulta dunque erronea laddove afferma la necessità di particolari forme di richiesta e rilascio della certificazione da parte dell’INPS ex articolo 54 cit., non avendo peraltro valutato che la documentazione fornita dall’INPS, su carta intestata dell’ente, non era stata adeguatamente contestata dall’Istituto, non ammettendo peraltro neppure la prova richiesta al riguardo dall’assicurato. La sentenza impugnata va pertanto cassata sul punto, con rinvio ad altro giudice in dispositivo indicato per l’ulteriore esame della controversia alla luce dei principi affermati, oltre che per la regolamentazione delle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso e rigetta i primi due. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.