Procedure di sicurezza violate, in ballo centinaia di migliaia di euro: dipendente licenziata

Confermato il drastico provvedimento adottato dall’azienda. Per i giudici gli addebiti contestati alla donna sono così gravi da minare alle fondamenta il rapporto tra società e lavoratrice.

Pagamenti illegittimi in denaro contante. Operazione che costa carissima a una dipendente di ‘Poste Italiane’ per lei il licenziamento è inevitabile. Evidente, secondo i giudici, la gravità delle azioni da lei compiute, anche alla luce della somma in ballo, cioè quasi 390mila euro Cassazione, sentenza n. 10846/2017, Sezione Lavoro, depositata oggi . Denaro. Prima in Tribunale e poi in Corte d’appello, una volta ricostruita la vicenda, viene ritenuto censurabile l’operato di una ‘sportellista’ di ‘Poste’, che cha compiuto ripetute violazioni di diverse e fondamentali procedure di sicurezza per un importo di notevole entità , pari a quasi 390mila euro. Secondo i giudici è logico ritenere che sia venuto meno l’elemento fiduciario che deve connotare il rapporto di lavoro . Logica conseguenza di questo ragionamento è la conferma del licenziamento deciso da ‘Poste’. Fiducia. Il legale della donna prova a renderne meno delicata la posizione. Così egli sostiene che i comportamenti contestati erano stati effettuati soltanto per negligenza contabile in violazione di procedure aziendali ma in assenza di finalità illecite . L’obiezione però non convince i magistrati della Cassazione, che ribadiscono la legittimità del provvedimento adottato dall’azienda. Ciò perché anche a loro avviso è indiscutibile il fatto che le violazioni compiute dalla lavoratrice abbiano fatto venire meno la fiducia da parte della società. In sostanza, l’addebito posto in evidenza, cioè la reiterata violazione di fondamentali procedure di sicurezza per importi di notevole entità , è sufficiente a rendere comprensibile il licenziamento adottato nei confronti della lavoratrice.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 30 gennaio – 4 maggio 2017, numero 10846 Presidente D’Antonio – Relatore Riverso Fatti di causa 1 - La Corte di Appello di Roma, con la sentenza numero 6468/2014, respingeva l'appello proposto da St. Al. contro la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata la sua domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole in data 29 marzo 2010 da Poste Italiane SPA. 2. A fondamento della pronuncia la Corte territoriale riteneva provata la sua responsabilità per i fatti addebitatile, la loro gravità, la proporzionalità della sanzione anche alla luce della disciplina collettiva articolo 56, lett. C CCNL di settore , attesa la sussistenza di una precedente sanzione disciplinare della multa pari a 4 ore di retribuzione, l'insussistenza delle dedotte giustificazioni in ordine al comportamento addebitato adottato reiteratamente, in violazione di varie e fondamentali procedure di sicurezza, per importi di notevole entità per un totale complessivo di Euro 388.051,00 si da far venire meno l'elemento fiduciario che deve connotare il rapporto di lavoro. Avverso detta sentenza St. Al. propone ricorso per cassazione affidando le proprie censure a cinque motivi. Resiste Poste Italiane Spa con controricorso illustrato da memoria. Ragione della decisione 1. Con il primo motivo il ricorso denuncia in relazione all'articolo 360 numero 3 c.p.c. violazione dell'articolo 7 L.300/70, articolo 2119 c.c., 54,55,56,57 e 76 lett. e CCNL dell'1.7.2007, violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionale di lavoro genericità della contestazione in riferimento alle norme disciplinari violate, conseguente nullità del licenziamento, violazione degli artt. 1362 , 1175 e 1375 c.c per difetto di specificità della contestazione. A fondamento della censura si sostiene che la contestazione disciplinare elevata alla ricorrente fosse generica, non riconducesse il fatto storico contestato ad alcuna della ipotesi individuate nelle singole norme contrattuali richiamate e che anche il provvedimento di licenziamento abbia omesso di individuare il comportamento astrattamente sanzionabile. Sarebbero stati così violati i dritti di difesa, perché è stato contestato l'intero comparto disciplinare senza specificare quale norma si assuma violata. 1.1. Il motivo è inammissibile, anzitutto perché è passato in giudicato il capo della sentenza di primo grado che aveva riconosciuto la regolarità procedurale e formale del licenziamento, siccome in appello non risulta proposto sul punto alcuna impugnazione. Il motivo è anche privo di fondamento perchè come questa Corte ha più volte affermato tra le altre, Cass. 6898/2016, 22236/2007, 18377/2006 il requisito di specificità della contestazione riguarda i fatti e non le regole violate rientrando nei poteri del giudice la qualificazione giuridica del fatto la contestazione è finalizzata a consentire la difesa del lavoratore, che nel caso in esame si è ampiamente dispiegata nel merito degli addebiti fin dalla fase procedimentale e cautelare ex articolo 700 c.p.c. 2. Con il secondo motivo si denuncia in relazione all'articolo 360 numero 3 c.p.c. violazione dell'articolo 7 L. 300/70, artt. 2118 e 2119 c.c., 54, 55, 56, 57 e 76 lett. e CCNL dell'1.7.2007, 1362 c.c., violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro insussistenza della giusta causa. 3. Con il terzo motivo si denuncia in relazione all'articolo 360 numero 3 c.p.c. violazione dell'articolo 7 L.300/70, artt. 2118 e 2119 c.c., 54,55,56,57 e 76 lett. e CCNL dell'1.7.2007, violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionale di lavoro. 4. Con il quarto motivo si denuncia in relazione all'articolo 360 numero 3 c.p.c violazione e falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c. ,54, 55, 56 e 57 del CCNL applicato e dell'articolo 7 L.300/1970 violazione o falsa applicazione delle norme richiamate, mancata proporzione della sanzione applicata, irragionevolezza del provvedimento impugnato, inesistenza della giusta causa in quanto nel caso in esame i comportamenti era stati effettuate soltanto per negligenza contabile in violazione di procedure aziendali ed in assenza di finalità illecite. 5. Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione delle norme richiamate di legge e di contratto collettivo, in ordine al giudizio di gravità del comportamento addebitato al ricorrente. Insussistenza della giusta causa di licenziamento in quanto, in subordine, le lamentate violazioni rientravano dell'ipotesi prevista dall'articolo 56 punto f del CCNL il quale prevede per l'ipotesi di specie la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a quattro giorni. 6. Il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo, da esaminarsi unitariamente per connessione, sono infondati. 6.1. Una prima censura sostiene l'erroneità manifesta dell'affermata sussistenza dei fatti, per come addebitati, per violazione e falsa applicazione delle norme contrattuali richiamate. Si tratta di una censura confusa perché mescola censure di fatto a censure di diritto, e che aldilà della rubrica mira, all'evidenza, ad un nuovo giudizio di merito sull'esistenza in fatto della giusta causa riproponendo a questo giudice una valutazione sulla asserita plausibilità delle giustificazioni addotte dalla ricorrente, una valutazione che non compete al giudice di legittimità e che è stata già effettuata in senso opposto dal giudice di merito. Giova ricordare che la Corte di Cassazione non è giudice di terzo grado di merito e che il vizio di motivazione è deducibile in cassazione, a seguito della riforma dell'articolo 360 numero 5 c.p.c. applicabile ratione temporis D.L. 83/2012 conv. in 1.134/2012 , soltanto per omesso esame di un fatto decisivo su si è sviluppato il contraddittorio tra le parti. 6.2 Con una seconda censura, più volte riproposta sotto varie formule verbali, a sostegno degli stessi motivi, si deduce la violazione delle norme richiamate di legge e di contratto collettivo in ordine al giudizio di gravità del comportamento ascritto e l'insussistenza della giusta causa. Si sostiene quindi la mancanza di gravità del comportamento ma anche a tale proposito, oltre alla genericità delle censure, deve ricordarsi che l'esistenza in fatto della giusta causa è un giudizio di merito, mentre sotto il profilo giuridico può essere denunciato in cassazione soltanto che la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non ne consentono la riconduzione alla nozione legale. La giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto , è infatti una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards , conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Sentenza numero 18715 del 23/09/2016, Sentenza numero 5095 del 02/03/2011,Sentenza numero 7838 del 15/04/2005 . 6.3. Con una terza censura si sostiene che la Corte abbia condiviso la valutazione di gravità espressa dal primo giudice in ordine al comportamento addebitato con una motivazione per relationem manifestamente contraddittoria. Si tratta di censura inammissibile sia nella parte in cui deduce, in realtà, un vizio di contraddittorietà della motivazione che non è, di per sé, idoneo a dar luogo a ricorso per cassazione sia nella parte in cui deduce una valutazione incongrua ed insufficiente, parimenti inidonea a fungere da motivo di ricorso per cassazione. 6.4. In ogni caso non da luogo ad alcun vizio in cassazione il preteso contrasto di motivazione tra primo e secondo giudice. Anche perché neppure esiste l'asserito richiamo della sentenza per relationem e nemmeno la dedotta contraddizione posto che la condivisione della valutazione di gravità del comportamento espressa dal primo giudice, va posta in relazione al comportamento riconosciuto come sussistente dal giudice di appello. Non c'è alcuna contraddizione quindi e rimane il giudizio di gravità, anche se il fatto è stato ricostruito in parte diversamente. 6.5. Una ulteriore censura deduce violazione dell'articolo 2119 c.c. in relazione all'articolo 56 lett. c del CCNL applicato ed articolo 7 L.300, mancata contestazione della norma applicata, violazione e falsa applicazione della norma applicata, nullità della contestazione e del provvedimento impugnato in quanto la sentenza ha fatto riferimento ai fini del giudizio di proporzionalità ad una norma contrattuale, l'articolo 56 lett. C del CCNL, assolutamente non contestata. Si tratta di una censura infondata perché la sentenza si regge anzitutto su una autonoma e completa valutazione di gravità e di proporzionalità - riferita anche al profilo soggettivo - si da far venir meno l'elemento fiduciario . Talché, è irrilevante, nei termini in cui è stata proposta pure la censura relativa alla riconduzione del fatto nella esatta norma disciplinare collettiva, effettuata dalla Corte ad abundantiam altresì anche per il limitato valore in materia della contrattazione collettiva, essendo la giusta causa nozione di fonte legale. Su cui di recente Cass. 4921/2016 ed inoltre numero 2906 del 14/02/2005 In tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi . 6.5 In conclusione, la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure formulate nel ricorso avendo operato l'esatta individuazione degli addebiti contestati, accertato che fossero stati commessi, esclusa la fondatezza della giustificazione addotta dalla lavoratrice ritenuto integrata la nozione di giusta causa e la gravità che la contraddistingue in modo coerente col precetto legale e la consolidata giurisprudenza di questa Corte. La sentenza afferma pure esplicitamente che la mancata contestazione del fatto di aver provveduto al pagamento in contanti in favore di soggetti non aventi titolo a riscuotere, non è idonea ad incidere sulla gravità dei medesimi fatti contestati come descritti in sentenza reiterata violazione delle fondamentali procedure di sicurezza e per importi di notevole entità per diverse centinaia di migliaia di Euro che di per sé rimangono sufficienti a giustificare il provvedimento espulsivo. Pertanto quello effettuato dalla Corte capitolina è un giudizio di merito che si pone in linea con la giurisprudenza di questa Corte la quale ha più volte statuito ad es. Cass. 2013/2012 che In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo. 7.- Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso e di condannare la ricorrente, rimasta soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo. Sussistono i presupposti di cui all'articolo 13,comma 1-quater D.P.R. numero 115 del 2002 per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in complessive Euro 5200 di cui Euro 5000 per compensi professionali, oltre 15% di spese generali ed oneri accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13,comma 1-quater D.P.R. numero 115 del 2002 si da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.