Insubordinazione e offese al superiore: licenziato il dipendente mobbizzato

Confermata la drastica sanzione adottata nei confronti dell’autista di una società di spedizioni. Pur essendo stato riconosciuto il mobbing messo in atto dall’azienda, ad esso non possono essere connessi i discutibili comportamenti tenuti dal dipendente, che si è rifiutato di svolgere l’incarico affidatogli, ha insultato un superiore e ha abbandonato il posto di lavoro.

Mobbizzato e, comunque, licenziato. Strano destino per l’oramai ex dipendente di una società di spedizioni. Nonostante le discutibili condotte tenute dall’azienda nei suoi confronti, egli deve dire addio al proprio impiego, a causa dei comportamenti da lui tenuti sul luogo di lavoro, e concretizzatisi nel rifiuto di svolgere l’incarico affidatogli, negli insulti rivolti a un superiore e, infine, nell’abbandono del posto di lavoro. Quelle azioni non sono catalogabili, secondo i Giudici, come reazioni al mobbing subito Cassazione, sentenza n. 9152/17, sez. Lavoro, depositata oggi . Inadempiente. Per il lavoratore, autista di una società di spedizioni, il licenziamento è l’ennesima condotta mobbizzante subita. Per i Giudici, invece, il provvedimento aziendale va ritenuto legittimo, alla luce delle censurabili azioni compiute dal dipendente sul luogo di lavoro. Così, da un lato viene accolta la domanda risarcitoria presentata dal dipendente per le ripercussioni psico-fisiche riportate a causa del mobbing di cui è stato vittima, e dall’altro viene confermato il licenziamento deciso dall’azienda. Su quest’ultimo fronte, difatti, è evidente per i Giudici la condotta inadempiente dell’autista, resosi protagonista di un episodio di insubordinazione , con annessi insulti a un superiore e abbandono del posto di lavoro . Gravità. A dare definitivamente ragione alla società sono ora i Giudici della Cassazione. Anche a loro parere, difatti, gli addebiti oggetto della lettera di contestazione che ha preceduto il licenziamento sono inequivocabili e decisivi. Nessun dubbio, in sostanza, sul ‘peso’ da riconoscere alle azioni compiute dall’autista, che si è rifiutato di presiedere al carico dell’automezzo a lui affidato, ha coperto di insulti il superiore responsabile della filiale e ha infine abbandonato il posto di lavoro . Evidente, quindi, la gravità della condotta tenuta dal dipendente, che, per i giudici, non è assolutamente collegabile al mobbing messo in atto dall’azienda. Ciò comporta la conferma del licenziamento per l’autista.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 dicembre 2016 – 10 aprile 2017, numero 9152 Presidente Bronzini – Relatore Curcio Svolgimento del processo 1 G. A., autista della odierna contro ricorrente Arco Spedizioni lamentava in primo grado di aver subito una serie di vessazioni da parte dei superiori , quali contestazioni per violazioni inesistenti, mancato pagamento di differenze retributive spettanti, trattenute ingiustificate in busta paga , impedimento ad assistere alle operazioni di carico , che le sue condizioni di salute peggioravano sempre di più , che al suo rifiuto di dimettersi, la società aveva contestato l'abbandono del posto di lavoro, licenziandolo poi in tronco il 30.10.2007. 2 Il Tribunale di Udine respingeva le domande dirette a far dichiarare l'illegittimità del licenziamento, considerato dall'A. come l'ennesima condotta mobbizzante posta in essere dalla datrice di lavoro , mentre accoglieva la domanda risarcitoria accertando l'illegittimità della condotta datoriale lamentata come mobbing e le altre domande di differenze retributive. 3 La Corte d'Appello di Trieste respingeva il ricorso dell'odierno ricorrente , ritenendo tardiva la deduzione svolta solo in appello di violazione dell'articolo 7 legge numero 300/70 per mancata audizione nell'ambito della procedura disciplinare e confermando l'iter motivazionale del primo giudice, riteneva provata la condotta inadempiente dell'A., l'insubordinazione agli ordini dei superiori e l'abbandono del posto di lavoro dopo aver insultato il superiore B Respingeva la Corte anche il ricorso incidentale della Cooperativa. 4 La sentenza della corte territoriale è stata oggetto di ricorso per cassazione da parte di G. A., affidato a tre motivi. Ha resistito la Arco spedizioni spa, con controricorso. Il ricorrente ha presentato memoria a i sensi dell'articolo 378 c.p.c. Motivi della decisione 5 con il primo motivo di ricorso A. lamenta l'omesso esame di fatti decisivi ai sensi dell'articolo 360 c.1.numero 5 c.p.c. per aver omesso la Corte di riconoscere l'evidente intima connessione tra la domanda di illegittimità del licenziamento e quella di risarcimento danni , in quanto aventi stessa causa petendi , per essere il licenziamento strettamente collegato con la condotta mobbizzante , costituendone un' ulteriore manifestazione , sebbene posta in essere attraverso il superiore B., estraneo soltanto agli altri episodi precedenti. Non avrebbe considerato la corte che tale responsabile della filiale di Udine della società si era recato addirittura presso la sua abitazione per chiedere , a nome della società, che venissero rassegnate le dimissioni, ciò precedentemente al licenziamento, poi comunicato nell'ottobre 2007, a seguito del rifiuto di A., circostanza confermata dalla testimonianza della moglie del ricorrente. 6 Con il secondo motivo di ricorso A. lamenta ancora omesso esame di fatti decisivi ai sensi dell'articolo 360 c.1.numero 5 c.p.c. per non avere la corte valutato la rilevanza del contesto fattuale sulla portata disciplinare dei singoli datti contestati, quindi il numero e la congruità delle sanzioni inflitte rispetto ai fatti contestati, gli ultimi di fatto inesistenti, come l'abbandono del posto di lavoro oggetto di addebito nella lettera di contestazione che aveva preceduto il licenziamento, allontanamento che andava invece valutato nella sua concreta manifestazione , quale reazione immediata alle ingiuste accuse del superiore B., seguito dalla comunicazione di disponibilità a riprendere il lavoro , inviata mediante fax il giorno successivo . 3 Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli articolo 1455 e 2019 cc. e degli articolo 115 e 1116 c.p.c, per aver la corte ritenuto proporzionata la sanzione massima espulsiva del licenziamento per giusta causa , omettendo di valutare in concreto la gravità dell'inadempimento , senza considerare ogni circostanza utile , in termini oggettivi e soggettivi, oltre che ogni aspetto della vicenda processuale. Circostanza pure evidenziate nel ricorso di primo grado. 4 I primi due motivi, che possono trattarsi congiuntamente perché strettamente connessi, sono inammissibili. Il ricorrente attraverso i motivi esposti richiede in realtà una nuova valutazione delle prove su fatti cosi come accertati e valutati sia dal primo giudice che poi dal giudice dell'appello, che ha confermato la stessa ratio dedicendi del primo grado. 6 In particolare i fatti storici , gli addebiti oggetto della lettera di contestazione che ha preceduto il licenziamento, decisivi per valutare la legittimità o meno del provvedimento espulsivo , sono stati presi in considerazione da parte della corte d'Appello che ne ha offerto una valutazione di sussistenza e di gravità, cosi come già effettuato dal primo giudice rifiuto di presiedere al carico dell'automezzo, insulti in direzione del superiore responsabile della filiale , abbandono del posto di lavoro. Fatti confermati dai testi. La corte poi ha ritenuto che tali fatti non potevano ritenersi connessi alle condotte mobbizzanti precedentemente poste in essere e riconosciute dalla sentenza di primo grado. 7 Nel caso in esame l'inammissibilità del ricorso deriva dall'articolo 348 ter , quinto comma c.p.c. che esclude che possa essere impugnata ex articolo 360, numero 5, cod. proc. civ. la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado , per le stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della sentenza di appello cd. doppia conforme , solo potendo ricorrere , avverso la sentenza, per violazione deH'articolo 360 c.1 numero 1,2, 3 e 4 c.p.c. 8 Tale previsione si applica al presente giudizio , ai sensi dell'articolo 54, comma 2, del D.L. 22 giugno 2012, numero 83, conv. in legge 7 agosto 2012, numero 134, in quanto il giudizio di appello è stato introdotto con ricorso depositato successivamente all'11 settembre 2012 cfr Cass. numero 26860/ 2014, Cass. numero 24909/2015 , ord. . 9 Il terzo motivo di ricorso non è fondato. Si duole il ricorrente che il giudice d'appello non abbia esteso l'esame della fattispecie concreta , ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento , alle plurime circostanza evidenziate nel ricorso introduttivo relativamente al contesto entro cui si è collocata la condotta sanzionata con il licenziamento, al fine di valutare , ai sensi dell'articolo 1455 cc. il peso dell'inadempimento, anche con riferimento al profilo dell'elemento soggettivo. 10 Premesso che tali specifici fattori assenza di qualsivoglia danno all'azienda , atteggiamento collaborativo mostrato dal lavoratore , l'avere lo stesso , per il tramite del sindacato, manifestato la propria disponibilità a riprendere l'attività lavorativa, l'essere stata riconosciuta la patologia depressivo - reattiva a far tempo dal 2005 fino al 2008 vengono tardivamente evidenziati più dettagliatamente solo con la memoria di cui all'articolo 378 c.p.c. e non con lo specifico motivo di ricorso, in realtà gli stessi dissimulano una richiesta di riesame dei fatti non consentita . La corte ha motivato anche sulla ragione per cui i fatti contestati venivano ad assurgere un carattere di gravità tale da ledere l'elemento fiduciario, in particolare rilevando la concomitanza di più condotte gravi addebitate e risultate provate , quali le offese e le ingiurie al superiore, ed il rifiuto di seguire in tale occasione le operazioni di carico, con l'abbandono del posto di lavoro, lo stato depressivo connesso allo stress anche del contenzioso in corso e non solo dai pregressi atti vessatori, come rilevato dal CTU. La Corte ha effettuato quindi una motivata valutazione dell'inadempimento, in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza dettata dall'articolo 1455c.c., che non può dirsi quindi violativa di tale norma di legge . 11 Il ricorso deve pertanto essere respinto. Le spese del grado, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e oneri di legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater D.P.R. numero 115/2002 , dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso , a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13.