Il contratto è di lavoro subordinato se il rapporto di associazione in partecipazione non è autentico

Tra i due contratti di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa” e di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato” l’elemento differenziale risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa da parte dell’associato e l’espletamento di analoga prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato .

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9032/17 depositata il 7 aprile. Il caso. Una società a responsabilità limitata si opponeva alla cartella emessa in relazione al pagamento dei contributi previdenziali dovuti in relazione a due lavoratrici che l’INPS aveva ritenuto dipendenti e già qualificate come associate in partecipazione. La Corte d’appello di Ancona, però, respingeva la domanda della società. A fondamento di ciò il giudice sosteneva che il riparto dell’onere della prova fosse da modellare tenendo conto dell’alternativa dedotta in causa tra sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato oppure di associazione in partecipazione. Il contratto di associazione in partecipazione. Proponeva quindi ricorso in Cassazione la società, lamentando violazione degli artt. 2549, 2552 e 2553 c.c., essendo lo schema del contratto di associazione in partecipazione compatibile con una retribuzione commisurata ai ricavi incassi e con la natura indeterminata o meno delle mansioni esercitate dalle due associate . Secondo la Corte di Cassazione, le lavoratrici non godevano di un guadagno minimo garantito, ma erano state retribuite senza che la retribuzione avesse il benché minimo riferimento ad una partecipazione agli utili o a qualsiasi elemento economico dipendete dalle vicende imprenditoriali . Anzi, esse ricevevano erogazioni periodiche e corrispondenti all’attività lavorativa prestata. Per tali motivi la Corte rigetta il ricorso, richiamando prima la sentenza n. 24781/06, secondo la quale l’elemento differenziale tra i due contratti contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa” e contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato” risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa da parte dell’associato e l’espletamento di analoga prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato . L’accertamento dell’assetto negoziale si fonda sulla verifica dell’autenticità del rapporto di associazione ove la prestazione lavorativa sia inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato .Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9032/17 depositata il 7 aprile. Il caso. Una società a responsabilità limitata si opponeva alla cartella emessa in relazione al pagamento dei contributi previdenziali dovuti in relazione a due lavoratrici che l’INPS aveva ritenuto dipendenti e già qualificate come associate in partecipazione. La Corte d’appello di Ancona, però, respingeva la domanda della società. A fondamento di ciò il giudice sosteneva che il riparto dell’onere della prova fosse da modellare tenendo conto dell’alternativa dedotta in causa tra sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato oppure di associazione in partecipazione. Il contratto di associazione in partecipazione. Proponeva quindi ricorso in Cassazione la società, lamentando violazione degli artt. 2549, 2552 e 2553 c.c., essendo lo schema del contratto di associazione in partecipazione compatibile con una retribuzione commisurata ai ricavi incassi e con la natura indeterminata o meno delle mansioni esercitate dalle due associate . Secondo la Corte di Cassazione, le lavoratrici non godevano di un guadagno minimo garantito, ma erano state retribuite senza che la retribuzione avesse il benché minimo riferimento ad una partecipazione agli utili o a qualsiasi elemento economico dipendete dalle vicende imprenditoriali . Anzi, esse ricevevano erogazioni periodiche e corrispondenti all’attività lavorativa prestata. Per tali motivi la Corte rigetta il ricorso, richiamando prima la sentenza n. 24781/06, secondo la quale l’elemento differenziale tra i due contratti contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa” e contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato” risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa da parte dell’associato e l’espletamento di analoga prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato . L’accertamento dell’assetto negoziale si fonda sulla verifica dell’autenticità del rapporto di associazione ove la prestazione lavorativa sia inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 gennaio – 7 aprile 2017, numero 9032 Presidente D’Antonio – Relatore Riverso Fatti di causa Con la sentenza numero 44/2011 la Corte d’Appello di Ancona, accogliendo l’appello proposto dall’INPS ed in riforma della sentenza del tribunale di Ancona, respingeva l’opposizione della srl alla cartella emessa in relazione al pagamento di contributi previdenziali dovuti in relazione a due lavoratrici ritenute dall’INPS dipendenti e già qualificate come associate in partecipazione. A fondamento della decisione la Corte sosteneva che in materia il riparto dell’onere della prova fosse da modellare tenendo conto dell’alternativa dedotta in causa tra sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato o di una associazione in partecipazione, e che tale alternativa fosse da decidere secondo l’unica soluzione logicamente praticabile essendo il rapporto di lavoro subordinato del tutto naturale e rispondente alle esigenze economiche ed organizzative in relazione alla gestione di un negozio di vendita al minuto da parte di un datore per lavoratori che nel negozio provvedevano alle operazioni di vendita ed alle attività accessorie come commessi che era pertanto configurabile un rapporto di lavoro subordinato, come per chiunque rende prestazioni lavorative in un negozio nel quale operi come commesso che l’appellata non aveva provato da parte sua né dedotto alcun elemento del preteso rapporto di lavoro come associazione in partecipazione che ciascuna lavoratrice aveva invece lavorato secondo le caratteristiche del lavoro subordinato senza che vi fosse prova neppure dell’accordo intervenuto secondo lo schema dell’associazione in partecipazione. Avverso detta sentenza il Fallimento della srl ha proposto ricorso per cassazione, affidando le proprie censure a tre motivi. Resiste l’INPS controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorso deduce la violazione dell’articolo 2697 c.c. ai sensi dell’articolo 360 numero 3 c.p.c. in quanto le affermazioni della sentenza sull’esistenza della subordinazione violavano il corretto riparto dell’onere della prova in materia. 1.2 Il motivo non è fondato, in quanto la Corte ha affermato in realtà che lo schema del lavoro subordinato era logicamente configurabile alla luce della sua conformità al tipo di lavoro espletato dalle due lavoratrici, come commesse, che nel negozio provvedevano alle operazioni di vendita ed attività accessorie a fronte di una retribuzione. In ogni caso, sulla natura del rapporto e sulla corretta gestione dell’onere della prova, la sentenza va esaminata alla luce di tutte le affermazioni in essa contenute dalle quali si deduce pure, non tanto e non solo che il rapporto di lavoro delle lavoratrici corrispondesse solo in astratto in base alla natura delle mansioni esercitate ed alla presunzione di subordinazione che la Corte di merito vi ha correlato, in conformità alla sentenza di questa numero 18692/2007 allo schema del lavoro subordinato quanto soprattutto che oltre all’elemento delle mansioni di commesse in sé e per sé considerate , esistessero in concreto ulteriori circostanze, che pur prive ciascuna di valore decisivo, potessero essere correttamente valutate globalmente come indizi rivelatori degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato. Infatti secondo la Corte ciascun lavoratore aveva lavorato senza che la prestazione fosse predeterminata e quindi deve ritenersi seguendo un orario e direttive ad esso impartite volta per volta , ed era stato pure retribuito senza che la retribuzione avesse il benché minimo riferimento ad una partecipazione agli utili o a qualsiasi elemento economico dipendente delle vicende imprenditoriali, bensì con erogazioni periodiche e, deve presumersi, corrispondenti alla attività lavorativa prestata, e non alla fantomatica associazione in partecipazione . 1.3. La tipologia delle mansioni del resto, oltre ad essere un autonomo indice della subordinazione ne rivela di per sé degli altri posto che il lavoro di commessa in quanto tale presuppone l’assoggettamento a direttive per quanto attiene ai contenuti intrinseci delle prestazioni, all’orario di lavoro ed al luogo di lavoro. 1.4. Esistevano quindi indici rivelatori della subordinazione alla stregua degli indici sintomatici utilizzati in giurisprudenza in via residuale, in mancanza di altre più precise e dirette indicazioni sull’assoggettamento al potere direttivo, disciplinare e di controllo che qualifica direttamente la subordinazione. 1.5. Al contrario, per quanto riguarda l’elemento della volontà delle parti, va ricordato come la materia della qualificazione del rapporto di lavoro configuri una questione che è sottratta alla disponibilità delle parti ed alla stessa discrezionalità del legislatore in quanto costituente premessa per l’applicazione di disciplina essenzialmente inderogabile, anche a carattere costituzionale perciò la medesima qualificazione va risolta, più che in base al nomen iuris conferito dalle parti al rapporto, in base all’effettiva natura del rapporto, alla stregua delle concrete modalità con cui si svolge la prestazione, nei termini sopra indicati. 2. Col secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 2094 c.c. in relazione all’articolo 115 e 116 c.p.c., nonché per omessa motivazione sul punto, avendo la Corte totalmente ignorato gli elementi raccolti dal giudice di prime cure relativi all’accertamento negativo dei requisiti tipici del rapporto di lavoro subordinato avendo l’istruttoria accertato che nessuno dei requisiti tipici del lavoro subordinato sussistesse in quanto le due commesse operavano in una unità locale di Rimini con totale autonomia. 2.1. Il motivo è inammissibile perché mira ad un riesame del merito senza peraltro dedurre vizi logici deducibili ai sensi del numero 5 dell’articolo 360, applicabile ratione temporis, il quale postula l’omessa insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e risultante dal contraddittorio della parti mentre il motivo richiede una nuova inammissibile valutazione della prove in violazione altresì del principio secondo cui è il giudice del merito a selezionare le prove. Deve ricordarsi che quello di Cassazione non è un terzo grado di giudizio il cui compito sia di verificare la fondatezza di ogni affermazione effettuata dal giudice di appello nella sentenza. Esso è invece Cass. Sez. 5, sentenza numero 25332 del 28/11/2014 un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di Cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. È inoltre ius receptum che sia devoluta al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite della adeguata e congrua motivazione del criterio adottato conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata. 2.2. Il motivo difetta inoltre di autosufficienza, non risultando trascritti in ricorso le risultanze processuali e i contratti di associazione, di cui si dice a fondamento delle censure, i quali peraltro nemmeno risultano allegati allo stesso ricorso. 3. Il terzo motivo deduce violazione degli artt. 2549, 2552 e 2553 c.c. essendo lo schema del contratto di associazione in partecipazione compatibile con una retribuzione commisurata ai ricavi incassi e con la natura indeterminata o meno delle mansioni esercitate dalle due associate le quali avevano il compito di garantire il corretto funzionamento del punto vendita . Come una sorta di lavoro ripartito. Il motivo non ha fondamento. La Corte ha affermato che la società ricorrente non ha provato nessuno degli elementi costitutivi del contratto di associazione il quale configurando un contratto a prestazioni corrispettive dotato del carattere dell’aleatorietà, postula un compenso variabile secondo gli utili realizzati ed implica inoltre un indefettibile diritto al rendiconto, la cui mancanza costituisce elemento decisivo per la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato. Nella fattispecie le lavoratrici secondo l’accertamento operato dal giudice di merito non tanto godevano di un guadagno minimo garantito ma erano state retribuite senza che la retribuzione avesse il benché minimo riferimento ad una partecipazione agli utili o a qualsiasi elemento economico dipendente delle vicende imprenditoriali, bensì con erogazioni periodiche e, deve presumersi, corrispondenti alla attività lavorativa prestata, e non alla fantomatica associazione in partecipazione . Va inoltre osservato che questa Corte Sez. L, Sentenza numero 24781 del 22/11/2006 ha affermato in materia che In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, l’elemento differenziale tra le due fattispecie risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa da parte dell’associato e l’espletamento di analoga prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato. Tale accertamento implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere, e la possibilità che l’apporto della prestazione lavorativa dell’associato abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell’espletamento di una prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro dell’indagine si sposta sulla verifica dell’autenticità del rapporto di associazione. Ove la prestazione lavorativa sia inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favore accordato dall’articolo 35 Cost. che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni . 4. Le considerazioni svolte impongono dunque di rigettare il ricorso e di condannare la ricorrente, rimasta soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in favore dell’INPS in Euro 5200 complessive, di cui Euro 5000 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed agli accessori di legge.