Sfogo verbale contro ‘capo reparto’ e ‘capo turno’: licenziato

Il dipendente, nonostante la sospensione dal servizio, si è recato in sede e ha scaricato la propria rabbia. Eccessive però le parole utilizzate, valutabili come una minaccia. A chiudere l’episodio i Carabinieri. Ora la conclusione della battaglia legale, con la conferma del provvedimento adottato dall’azienda.

Blitz improvviso sul luogo di lavoro, nonostante sia in corso un periodo di sospensione dal servizio, per scaricare la rabbia per il mobbing – presunto – subito. Lo sfogo verbale, però, è eccessivo, con tanto di frasi minacciose rivolte a ‘capo reparto’ e ‘capo turno’, e sufficiente per legittimare il licenziamento deciso dall’azienda Corte di Cassazione, sentenza n. 8815/17, sez. Lavoro, depositata il 5 aprile . In sede. Inequivocabile il tenore delle parole utilizzate dall’uomo, dipendente di Poste Italiane. Egli ha inveito nei confronti del ‘capo reparto’ e del ‘capo turno’ con frasi minacciose – tu non vedrai più tuo figlio, tu tua moglie, tu la tua famiglia –, e quella situazione è stata ritenuta così seria da rendere necessario l’intervento dei Carabinieri . Evidente quindi la gravità del comportamento tenuto dal lavoratore, che, peraltro, si era presentato nella sede aziendale nonostante fosse stato sospeso dal servizio in esecuzione di una sanzione disciplinare . Tutto ciò spinge i giudici, prima in Tribunale e poi in Appello, a confermare il licenziamento adottato dalla società. E questa decisione diviene ora definitiva, poiché le obiezioni mosse in Cassazione dal legale dell’uomo non paiono scalfire minimamente il valore attribuito dall’azienda all’episodio verificatosi in sede.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 dicembre 2016 – 5 aprile 2017, n. 8815 Presidente Nobile – Relatore Spena Fatti di causa Con ricorso al Tribunale di Milano del 27.6.2012 P. F., già dipendente di Poste Italiane spa, impugnava il licenziamento disciplinare con preavviso intimatogli in data 5 maggio 2010 per essersi presentato presso la sede di lavoro il giorno 11 febbraio 2010 in cui era sospeso dal servizio in esecuzione di una sanzione disciplinare ed avere inveito nei confronti del capo reparto e del capo turno con minacce tu non vedrai più tuo figlio, tu tua moglie, tu la tua famiglia tanto da rendere necessario l'intervento dei Carabinieri. Il giudice del lavoro rigettava la domanda sentenza del 24 gennaio 2013 nr. 5428 . La Corte di Appello di Milano, con sentenza dell'1.4-4.6.2014 nr. 348/2014 , rigettava l'appello del lavoratore. La Corte territoriale precisava che le censure mosse alla sentenza di primo grado si riferivano alla valutazione da parte del Tribunale della proporzionalità della sanzione disciplinare. La gravità dei fatti non era tuttavia contestabile, attesi il tenore delle frasi profferite nei confronti del caporeparto e del capoturno e la necessità di chiamare i Carabinieri nonché i precedenti specifici, espressamente contestati. Sotto il profilo soggettivo, le scuse rese dal lavoratore una volta giunti i carabinieri non elidevano la gravità del fatto. La mancanza di intenzionalità era poco compatibile con la sua dinamica dell'accaduto. I rilievi contenuti nella relazione medico legale di parte circa le condizioni di salute del F. apparivano poco attendibili, in quanto predisposti nell'ottica difensiva mentre le certificazioni mediche precedenti alla contestazione disciplinare come quelle successive non evidenziavano segni particolari di aggressività. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P. F., articolando tre motivi. Ha resistito con controricorso la società Poste Italiane. Le parti hanno depositato memoria. Ragioni della decisione Si dà atto preliminarmente che il Collegio ha autorizzato l'estensore a redigere motivazione semplificata. 1. Con il primo motivo il lavoratore ricorrente ha dedotto omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Con la censura si denunzia l’ accertamento ai fini del giudizio di proporzionalità della gravità oggettiva della condotta, assumendosi che la Corte territoriale aveva trascurato di verificare la serietà della minaccia e di considerare che la prestazione lavorativa non era in corso e che i carabinieri erano intervenuti ad episodio già concluso . 2. Con il secondo motivo il ricorrente ha denunziato la violazione dell'articolo 2106 cc. Il motivo investe il giudizio sulla intenzionalità del comportamento. Il ricorrente ha lamentato che il giudice del merito aveva tenuto conto di precedenti disciplinari privi di definitività, in quanto giudizialmente impugnati ha altresì dedotto che la assenza dal lavoro nei precedenti dieci giorni non escludeva un quadro patologico stabilizzato, che la circostanza dell'essersi presentato sul luogo di lavoro era priva di rilievo, che i giudizi espressi in sentenza erano sforniti di riscontri materiali. 3. Con il terzo motivo il ricorrente ha lamentato violazione degli articoli 428, 2046, 2106 cod.civ. e 3 L. 604/1966 nonché insufficiente e parzialmente omessa motivazione. Ha censurato il giudizio di proporzionalità della sanzione nella parte in cui escludeva la denunziata incapacità di intendere e di volere al momento dei fatti. Ha dedotto l'omesso esame delle seguenti circostanze La sua condizione di invalido civile al 50% per sindrome comiziale in soggetto con pregresse lacero contusioni cerebrali multiple Il parere medico legale depositato, che attestava la sua vulnerabilità psichica correlata alle condizioni di lavoro, definite in termini di mobbing lo stress lavorativo derivante dai turni di lavoro, che gli impedivano la regolare assunzione dei farmaci e dalle reiterate contestazioni e sanzioni disciplinari, per lo più non proporzionate agli addebiti. Ha lamentato la mancata ammissione della prova per testi e della CTU . I motivi, che possono essere congiuntamente trattati, non superano il preliminare vaglio di ammissibilità. Le censure investono tutte l'accertamento dei fatti operato dal giudice del merito con il primo motivo in punto di gravità della condotta materiale serietà ed offensività della minaccia , con il secondo motivo in punto di elemento soggettivo dell'agente intenzionalità , con il terzo motivo quanto alla esclusione della incapacità naturale. Si discute, dunque, non già della applicazione delle norme giuridiche, nonostante la qualificazione esposta nel secondo e nel terzo motivo di ricorso ma della ricostruzione del fatto materiale da parte del giudice del merito, sindacabile nella sede di legittimità soltanto ai sensi e nei limiti di cui all'articolo 360 co. 5 cod.proc.civ. Nel presente giudizio trova applicazione ratione temporis ai sensi dell'articolo 54 co.2 D.L. 83/2012 l'articolo 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, applicabile ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dall'I 1 settembre 2012 la sentenza di primo grado è stata pubblicata in data 24.1.2013 . A tenore della citata disposizione allorquando la sentenza d'appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto il ricorso per Cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1-2-3 e 4 del primo comma dell'articolo 360 il vizio di motivazione non è dunque deducibile in caso di impugnativa di pronuncia cd. doppia conforme, come nella presente vicenda processuale. I vizi denunziati, attenendo tutti all'accertamento di fatto, incorrono nella suddetta preclusione. Le spese seguono la soccombenza. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto ai sensi dell'art. 1 co 17 L. 228/2012 che ha aggiunto il comma 1 quater all'art. 13 D.P.R. 115/2002 della sussistenza dell'obbligo di versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100 per spese ed Euro 3.500 per compensi professionali ,oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater del D.P.R. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.