Sotto accusa per droga, patteggia la pena. Legittimo il licenziamento

Corretto, secondo i giudici, il provvedimento adottato nei confronti di un uomo, dipendente di una struttura ospedaliera. Egli, accettando il patteggiamento, non ha negato la propria responsabilità sul fronte penale.

Sotto accusa per cessione di stupefacenti. Il procedimento, riguardante il lavoratore di un ospedale, si conclude col patteggiamento. Scelta processuale legittima, ma che comporta serissime ripercussioni in ambito lavorativo. Confermata, difatti, la decisione dell’azienda di cacciare il dipendente Cassazione, sentenza n. 7130/2017, Sezione Lavoro, depositata oggi . Droga. Posizione delicata, quella del lavoratore egli rimane coinvolto in una vicenda di droga e finisce sul banco degli imputati per il delitto di cessione di stupefacenti . Il fronte processuale penale, però, mette a rischio la sua posizione rispetto all’azienda ospedaliera di cui è dipendente. L’uomo prova a chiudere rapidamente il capitolo giudiziario, optando per il patteggiamento . Ma questa scelta si rivela essere un boomerang. L’azienda – un ente religioso operante nel settore sanitario –, difatti, preso atto della sentenza pronunciata dal giudice penale, adotta il provvedimento più drastico, licenziando il proprio dipendente. E, nonostante le obiezioni mosse dal legale del lavoratore, la decisione presa dai vertici della struttura ospedaliera è ritenuta corretta e non contestabile. Sentenza. Per i giudici di Cassazione, difatti, è corretta la visione tracciata in Appello, e sfavorevole al dipendente. Innanzitutto, la sentenza di applicazione della pena su richiesta va equiparata alla condanna definitiva . Ciò perché, ricorrendo al cosiddetto patteggiamento , non si nega la propria responsabilità e si esonera l’accusa dalla relativa prova, in cambio di una riduzione della pena . Allo stesso tempo, viene evidenziato che la condotta illecita , tenuta dal lavoratore, seppure estranea all’esercizio delle mansioni attribuitegli, può ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario . E in questa vicenda è emerso che nel luogo di lavoro erano stati trovati documenti il cui contenuto lasciava presumere che l’attività di cessione di droga fosse stata svolta anche nel corso dell’attività lavorativa . Per chiudere il cerchio, infine, viene sottolineato anche l’alto standard di moralità richiesto ai dipendenti della struttura ospedaliera di un ente religioso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 gennaio – 20 marzo 2017, n. 7130 Presidente Macioce – Relatore Di Paolantonio Fatti di causa 1. La Corte di Appello di Napoli ha respinto l'appello proposto da A. V. avverso la sentenza del Tribunale di Benevento che aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere la dichiarazione di nullità e/o invalidità del licenziamento intimato il 24 aprile 2009 dalla Provincia Religiosa di San Pietro, dell'Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio - Fatebenefratelli, e la condanna della resistente alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato e al risarcimento del danno, quantificato in misura pari alle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del recesso sino a quella della effettiva riammissione in servizio. 2. La Corte territoriale, premesso che il V. era stato sottoposto a procedimento penale perché ritenuto colpevole del delitto di cessione di sostanze stupefacenti, ha evidenziato che il processo penale era stato definito con sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 cod. proc. pen., sentenza che, ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, doveva essere equiparata alla condanna definitiva, a prescindere da quale fosse il C.C.N.L. applicabile al rapporto di lavoro. Ciò perché, ricorrendo al cosiddetto patteggiamento, l'imputato non nega la propria responsabilità ed esonera l'accusa dall'onere della relativa prova, in cambio di una riduzione di pena. Quanto alla valenza probatoria il giudice di appello ha osservato che la sentenza ex art. 444 c.p.p. può essere disattesa solo chiarendo le ragioni per le quali l'imputato avrebbe ammesso una insussistente responsabilità, inducendo il giudice penale a prestare fede a tale ammissione non veritiera. 3. La Corte territoriale ha evidenziato che anche la condotta illecita estranea all'esercizio delle mansioni del lavoratore subordinato può avere rilievo disciplinare nei casi in cui sia tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Nella fattispecie i fatti addebitati al V. integravano senz'altro giusta causa di licenziamento, sia perché nel luogo di lavoro erano stati trovati documenti il cui contenuto lasciava presumere che la attività di cessione fosse stata svolta anche nel corso dell'attività lavorativa, sia in considerazione della natura del datore di lavoro, ente religioso operante nel campo sanitario, tale da richiedere alti standard di moralità ai propri dipendenti. 4. Infine il giudice di appello ha escluso la eccepita tardività della contestazione, evidenziando il carattere relativo del principio di immediatezza ed aggiungendo che qualora i fatti di rilievo disciplinare integrino fattispecie di reato il datore di lavoro ha senz'altro la facoltà di attendere l'esito del processo penale. Nella specie, inoltre, era stata dapprima disposta la sospensione cautelare. 5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso A. V. sulla base di due motivi. La Provincia Religiosa di San Pietro ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione dell'art. 360 n. 3 e 4 - erronea valutazione in relazione al principio dell'immediatezza del provvedimento di licenziamento . Sostiene che la Corte territoriale avrebbe escluso la eccepita tardività della sanzione sulla base di una motivazione scarna, generica ed illogica perché, anche qualora si voglia tener conto della particolare natura del datore di lavoro, è comunque inconcepibile che il licenziamento possa intervenire a distanza di oltre un anno dalla commissione dei fatti contestati. Aggiunge che il V. aveva ripreso servizio ed aveva svolto il proprio lavoro senza che nessun rilievo gli venisse mosso. 2. La seconda censura denuncia erronea valutazione dei presupposti del licenziamento-insussistenza degli stessi . Assume il ricorrente che la sentenza di applicazione della pena su richiesta in nessun caso può essere equiparata ad una pronuncia di condanna perché non comporta un accertamento positivo di responsabilità ma solo la rinuncia dell'imputato a fare valere le proprie eccezioni e difese. In sede civile, pertanto, la prova della giusta causa non può essere fondata solo sulla sentenza ex art. 444 c.p.p 3. Il ricorso è inammissibile per plurime ragioni concorrenti, evidenziate nel controricorso e ribadite dalla Provincia Religiosa di San Pietro con la memoria ex art. 378 cod. proc. civ La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell'affermare che, allorquando il motivo denunzi violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme che si asseriscono violate, ma anche sulla base di specifiche argomentazioni, intese a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie fra le più recenti in tal senso Cass. 15/01/2015 n. 635 . E' stato anche evidenziato che la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l'inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all'art. 366, comma primo, n. 4 cod. proc. civ Nel ricorso, infatti, devono essere illustrate le ragioni per le quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta, oltre alla esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata, l'esposizione di argomenti che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione Cass. 3/8/2007 n. 17125 e negli stessi termini Cass. 25/9/2009 n. 20652 . Infine si è sottolineato che il requisito imposto dall'art. 366, primo comma, n. 3 , cod. proc. civ. è soddisfatto solo qualora l'atto riassuma i termini della vicenda processuale e illustri i fatti di causa dando conto delle reciproche posizioni delle parti, dello svolgersi del processo nei diversi gradi di giudizio, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il ricorso, cioè, deve contenere tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo fra le più recenti Cass. 3.2.2015 n. 1926 . 4. Nessuno di detti i requisiti risulta soddisfatto nella fattispecie, poiché il ricorso non dà conto delle difese della controparte e delle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado, ma si limita a riportare nelle premesse gli stessi argomenti poi inseriti nei motivi. Il ricorrente, inoltre, pur denunciando il vizio di cui all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., non individua la normativa applicabile alla fattispecie, che la Corte territoriale avrebbe erroneamente interpretato, né si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, della quale non coglie la ratio. La prima censura, infatti, insiste sulla asserita violazione del principio della immediatezza della contestazione, facendo leva solo sull'arco temporale trascorso fra la commissione del fatto e la irrogazione del licenziamento, senza indicare le ragioni per le quali la Corte napoletana avrebbe errato nel ritenere che, allorquando i fatti siano oggetto di procedimento penale, il datore di lavoro può rinviare la contestazione e attendere l'esito del processo, al fine di acquisire elementi di valutazione più sicuri. Parimenti il secondo motivo fa leva solo sulla ontologica diversità fra la pronuncia di condanna e la sentenza di applicazione della pena su richiesta, diversità della quale il giudice di appello ha tenuto conto, escludendo, però, che la stessa privasse il cosiddetto patteggiamento di ogni valenza probatoria. In particolare la decisione impugnata, dopo avere evidenziato che non di rado le parti collettive hanno inteso equiparare alla sentenza di condanna la applicazione della pena su richiesta, ha evidenziato che quest'ultima costituisce un indiscutibile elemento di prova, che può essere disconosciuto solo qualora emergano ragioni idonee a giustificare la ammissione di una insussistente responsabilità. Il ricorso si limita a richiamare precedenti di questa Corte di diverso tenore rispetto alla giurisprudenza più recente richiamata dal giudice di appello ma tace sia sulla contrattazione collettiva applicabile alla fattispecie, sia sulla possibilità che anche dalla sentenza di patteggiamento possano essere tratti elementi di prova alle condizioni sopra indicate. Sussiste, pertanto, la eccepita inammissibilità dell'impugnazione. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente nella misura liquidata in dispositivo. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente. P.Q.M. La Corte dichiara l'inammissibilità del ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma I-bis.