Il comportamento antisindacale non interrompe il rapporto di lavoro: l’azienda deve pagare i contributi

Il comportamento aziendale è considerato antisindacale il rapporto di lavoro deve considerarsi come non interrotto, con consequenziale obbligo dell’azienda di pagare i contributi relativamente al periodo tra il licenziamento e la reintegra.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4899/17 depositata il 27 febbraio. Il caso. La Corte d’appello di Milano, riformando la pronuncia di primo grado, dichiarava dovuti i contributi e le relative somme aggiuntive richiesti dall’INPS per 3 lavoratori di una s.r.l., in relazione al periodo intercorso tra il loro licenziamento e la loro riammissione in servizio a seguito di decreto ex art. 28 St. lav In pratica, i Giudici di appello ritenevano che il rapporto di lavoro dei 3 dipendenti – vista l’antisindacabilità del comportamento aziendale - doveva considerarsi come non interrotto, con consequenziale obbligo dell’azienda di pagare i contributi relativi al periodo in cui i lavoratori medesimi erano stati solo di fatto estromessi dal loro posto di lavoro . La società, dunque, presenta ricorso in Cassazione. Ricorso che, però, viene rigettato dai Supremi Giudici. Il comportamento antisindacale dell’azienda interrompe il rapporto di lavoro? Ribadendo un suo consolidato principio, infatti, la S.C. ha precisato che essendo il licenziamento determinato da motivi sindacali viziato da nullità ai sensi dell’art. 4, l. n. 604/1966, la declaratoria d’antisindacalità del comportamento aziendale che vi abbia dato causa, eventualmente ottenuta dal sindacato mediante ricorso allo speciale procedimento ex art. 28 St. lav., reca con sé la declaratoria di validità ed efficacia del rapporto di lavoro, con conseguente applicabilità dei principi sulla mora credendi Cass. n. 4374/1984, la cui impostazione è stata recepita da Cass. S.U. n. 1916/1992 la pronuncia di reintegra, infatti, non consegue in tale ipotesi dall’applicazione dell’art. 18 St. lav. , che dipende semmai dall’azione individuale del lavoratore, bensì – aggiunge la Cassazione - dal principio generale secondo cui gli atti nulli sono insuscettibili di produrre effetti giuridici Cass. S.U. n. 1916/1992, cit., seguita più recentemente da Cass. n. 9950/2005 . Pertanto, dovendo negarsi, in via generale, che un licenziamento nullo per motivi sindacali sia idoneo a determinare l’estinzione del rapporto di lavoro , si può concludere che – sempre a parere degli Ermellini - l’obbligo contributivo a carico del datore di lavoro segue come conseguenza necessaria dell’acclarata persistenza del rapporto stesso . Tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro . . Insomma, il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo, pur sorgendo con l’instaurarsi del rapporto di lavoro, sono del tutto autonomi e distinti, nel senso che l’obbligo contributivo del datore di lavoro verso l’istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti . In altre parole, l’espressione usata dall’art. 12, l. n. 153/1969, per indicare la retribuzione imponibile, tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro . va intesa nel senso di tutto ciò che ha diritto di ricevere

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 dicembre 2016 – 27 febbraio 2017, n. 4899 Presidente D’Antonio – Relatore Cavallaro Fatto Con sentenza depositata il 16.11.2010, la Corte d’appello di Milano, in riforma della statuizione di primo grado, dichiarava dovuti i contributi e le relative somme aggiuntive richiesti dall’INPS per tre lavoratori di Multigraf s.r.l. in relazione al periodo intercorso tra il loro licenziamento e la loro riammissione in servizio a seguito di decreto ex art. 28 St. lav La Corte, per quanto qui rileva, riteneva che, avendo il decreto dichiarato l’antisindacalità del comportamento aziendale obiettivatosi nei tre licenziamenti e disposto conseguentemente la reintegrazione dei lavoratori licenziati, il rapporto di lavoro di questi ultimi doveva considerarsi come non mai interrotto, con consequenziale obbligo dell’azienda di pagare i contributi relativi al periodo in cui i lavoratori medesimi erano stati solo di fatto estromessi dal loro posto di lavoro. Contro queste statuizioni ricorre Multigraf s.r.l. in liquidazione, formulando un unico motivo di censura. Resiste l’INPS con controricorso. Diritto Con l’unico motivo di censura, la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto per avere la Corte territoriale ritenuto che, in conseguenza del decreto ex art. 28 St. lav. con cui il Tribunale di Lodi aveva dichiarato, in data 26.1.2006, l’antisindacalità del comportamento aziendale obiettivatosi nel licenziamento di tre lavoratori, disponendone la reintegrazione nel posto di lavoro, dovessero considerarsi dovuti i contributi sulle retribuzioni che avrebbero dovuto essere corrisposte ai lavoratori licenziati dalla data del decreto fino al 4.7.2006, data in cui era avvenuta la reintegra, e ciò indipendentemente dal fatto che gli anzidetti lavoratori non avessero impugnato autonomamente il loro licenziamento e non avessero di fatto percepito alcuna retribuzione nel periodo in questione. Premesso sul punto che all’esame del ricorso non osta la circostanza che parte ricorrente non abbia indicato né nella rubrica del motivo né nell’esposizione delle ragioni che lo sostengono le disposizioni di legge che si assumono violate, costituendo principio consolidato quello secondo cui codesta indicazione non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti dell’impugnazione, di talché la mancata indicazione delle disposizioni di legge in ipotesi violate non comporta l’inammissibilità del gravame, sempre che gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme e i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione delle questioni sollevate cfr. tra le più recenti Cass. nn. 4233 del 2012 e 25044 del 2013 , reputa il Collegio che la doglianza non sia fondata. Questa Corte ha già fissato il principio secondo cui, essendo il licenziamento determinato da motivi sindacali viziato da nullità ai sensi dell’art. 4, I. n. 604/1966, la declaratoria d’antisindacalità del comportamento aziendale che vi abbia dato causa, eventualmente ottenuta dal sindacato mediante ricorso allo speciale procedimento ex art. 28 St. lav., reca con sé la declaratoria di validità ed efficacia del rapporto di lavoro, con conseguente applicabilità dei principi sulla mora credendi Cass. n. 4374 del 1984, la cui impostazione è stata recepita da Cass. S.U. n. 1916 del 1992 la pronuncia di reintegra, infatti, non consegue in tale ipotesi dall’applicazione dell’art. 18 St. lav., che dipende semmai dall’azione individuale del lavoratore ontologicamente distinta da quella propria del sindacato per giurisprudenza costante di questa Corte v. da ult. Cass. n. 18539 del 2015 , bensì dal principio generale secondo cui gli atti nulli sono insuscettibili di produrre effetti giuridici Cass. S.U. n. 1916 del 1992, cit., seguita più recentemente da Cass. n. 9950 del 2005 . Dovendo pertanto negarsi in via generale che un licenziamento nullo per motivi sindacali sia idoneo a determinare l’estinzione del rapporto di lavoro, deve concludersi che l’obbligo contributivo a carico del datore di lavoro segue come conseguenza necessaria dell’acclarata persistenza del rapporto stesso costituisce infatti principio parimenti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo ad esso connesso, pur sorgendo con l’instaurarsi del rapporto di lavoro, sono del tutto autonomi e distinti, nel senso che l’obbligo contributivo del datore di lavoro verso l’istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti, dal momento che l’espressione usata dall’art. 12, l. n. 153/1969, per indicare la retribuzione imponibile tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro . va intesa nel senso di tutto ciò che ha diritto di ricevere Cass. n. 3630 del 1999 . Si deve piuttosto aggiungere che a contrarie conclusioni non è dato pervenire nemmeno considerando che, in specie, essendo mancata la prestazione lavorativa e non avendo i lavoratori messo in mora il datore di lavoro, nemmeno la loro retribuzione sarebbe a rigore dovuta , visto che, in linea di principio, in assenza della prestazione e in mancanza di speciali disposizioni di legge, come ad es. l’art. 18,St. lav., l’obbligo retributivo non sussiste Cass. nn. 13045 del 2005 e 22063 del 2014 . Nei riguardi dell’ente previdenziale, infatti, la situazione di fatto che si determina a seguito di un licenziamento nullo che non sia stato seguito da alcuna messa in mora da parte del lavoratore è strutturalmente accostabile ad una sospensione unilaterale della prestazione lavorativa disposta dal datore di lavoro in carenza dei presupposti di legge che ne possono legittimare l’adozione, la quale, com’è noto, non determina il venir meno dell’obbligazione contributiva stante la ricordata autonomia del rapporto previdenziale rispetto al rapporto di lavoro e salvo i casi di speciali disposizioni di legge, quali ad es., in materia di attività edilizia, l’art. 2, d.l. n. 244/1995, conv. con l. n. 341/1995 , la retribuzione, ai fini dell’art. 12, l. n. 153/1969, deve considerarsi dovuta in tutte le ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia in atto de iure, con esclusione dei casi in cui la prestazione lavorativa non viene resa per fatto imputabile al dipendente o per sospensione concordata cfr. in termini Cass. S.U. n. 15143 del 2007 nello stesso senso, ancorché con riguardo a ipotesi di CIG non autorizzata, v. Cass. nn. 15207 del 2010 e 25240 del 2014 . Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.