Due imprese collegate economicamente non costituiscono necessariamente un unico datore di lavoro

Il collegamento di due società da un punto di vista economico non comporta sempre l’esistenza di un unico centro d’imputazione. Nel caso di specie si tratta di obblighi derivanti da rapporti di lavoro subordinato e la Cassazione ricorda l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’unicità della figura datoriale non può essere presunta, ma anzi deve essere dimostrata.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 160/17 depositata il 5 gennaio. Il caso. Un lavoratore nei precedenti 40 anni aveva prestato lavoro presso diversi soggetti giuridici, fino a quando il rapporto si era risolto con licenziamento per giustificato motivo oggettivo e senza possibilità di repechage . Gli ultimi due soggetti coi quali aveva lavorato erano un consorzio e una S.p.A., la quale deteneva l’80% del capitale di partecipazione del primo. Deducendo in giudizio entrambi i datori di lavoro, chiedeva la dichiarazione dell’illegittimità del provvedimento irrogato e la condanna alla reintegra sul posto di lavoro. La prospettazione dell’attore poggiava sulla asserita sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro . Sia la appena menzionata prospettazione, sia il contenuto delle domande venivano rigettate dal giudice di primo grado e indirettamente confermate da quello d’appello, che dichiarava inammissibile il ricorso proposto dal lavoratore. Avverso tale pronuncia ricorreva in Cassazione. L’unico centro d’imputazione e il collegamento economico-funzionale. Secondo la Corte di Cassazione il motivo è fondato ma solo in parte. Riguardo al negato riconoscimento del collegamento economico-funzionale fra le imprese di cui il lavoratore è stato dipendente, il giudice di prime cure ha giudicato sulla base di un quadro istruttorio ben definito. Ha infine deciso per la carenza nella allegazione e nella prova in ordine alla unicità del centro di imputazione di interessi, con statuizione congrua e completa che si palesa, altresì, conforme a diritto . Pur se esistesse un collegamento tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo, il rapporto di lavoro subordinato intercorso con una non estende automaticamente all’altro soggetto gli obblighi inerenti a rapporti di lavoro subordinato. Unica eccezione a quanto appena detto vi è nel caso in cui esista una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del suddetto collegamento. Questo però deve essere accertato in modo adeguato e, soprattutto, deve essere provato in giudizio. I fattori che possono essere considerati a tal fine sono l’esistenza di una struttura organizzativa e produttiva unica l’integrazione tra le attività esercitate dal gruppo l’interesse comune del gruppo relativo a tali attività il coordinamento tecnico e amministrativo l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese . Per questo motivo e alla luce della mancanza di questi fattori, la pronuncia del giudice di primo grado resiste alla censura in esame.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 giugno 2016 – 5 gennaio 2017, numero 160 Presidente Venuti – Relatore Lorito Svolgimento del processo A.G.A. adiva il Tribunale di Firenze ed esponeva di aver lavorato, a far tempo dal 15/1/1969, alle dipendenze di diversi soggetti giuridici, da ultimo la Impregilo s.p.a. ed il Consorzio Caserma Donati, della quale la prima società deteneva una quota di partecipazione pari all’80%. Deduceva che il rapporto si era risolto con licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dal Consorzio il 25/6/2009, ritenuto illegittimo sia perché infondato nella motivazione oggettiva, sia perché la parte datoriale non aveva offerto alcuna possibilità di repechage . Allegava, altresì, il carattere ritorsivo del licenziamento, per esser stato intimato a seguito della sua istanza di conseguire il pagamento del TFR maturato dal 1969. Nel prospettare la sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, conveniva in giudizio la Impregilo s.p.a. ed il Consorzio Caserma Donati chiedendo dichiararsi l’illegittimità del provvedimento espulsivo irrogato e condannarsi le società in solido fra loro e comunque, ciascuna per quanto di dovere, alla reintegra nel posto di lavoro ed agli ulteriori effetti risarcitori sanciti dall’articolo 18 l. 300/70, nonché al pagamento delle differenze retributive spettanti a titolo di lavoro straordinario, di differenze TFR in relazione al periodo 1969-2004, al risarcimento del danno biologico e morale dovuto alla gravosità dell’orario di lavoro svolto nel corso della intera storia lavorativa, e alle modalità con le quali era stato intimato il licenziamento. Le parti convenute resistevano al ricorso chiedendo fosse respinto. Con sentenza resa pubblica in data 11/12/2012 il giudice adito rigettava le domande. A fondamento del decisum , per quanto in questa sede rileva, il Tribunale osservava che il licenziamento era sorretto da una causale oggettiva, integrata dal compimento delle opere edili eseguite dal Consorzio Caserma Donati. Sotto il profilo dell’impossibilità di reimpiego del dipendente in mansioni diverse da quelle in precedenza a lui ascritte, rimarcava il giudicante che il relativo onere probatorio, posto a carico della parte datoriale, non andava inteso in senso rigido, dovendosi esigere dal lavoratore una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage , conseguendo solo a tale allegazione - nella specie mancante - l’onere del datore di lavoro di dimostrare la non utilizzabilità nei posti predetti. Il Tribunale negava, poi, che potesse configurarsi nella specie un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, non avendo il ricorrente assolto all’onere della prova relativo alla unicità della struttura organizzativa produttiva alla integrazione fra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo al coordinamento tecnico amministrativo e finanziario che attribuisse uno scopo comune alla pluralità di attività alla utilizzazione contemporanea della attività lavorativa da parte delle diverse società. Il giudice di prima istanza rimarcava quindi che, dall’inquadramento nel settimo livello c.c.numero l. edili, impiegati direttivi, per il quale il ricorrente percepiva una indennità volta a compensare proprio il superamento dell’orario ordinario di lavoro, discendeva l’impossibilità di conseguire l’indennità di lavoro straordinario oggetto di rivendicazione, non risultando dimostrato in causa il superamento dei limiti di ragionevolezza del normale orario, a causa della maggiore gravosità dell’impegno lavorativo assolto. La Corte d’Appello di Firenze con ordinanza ex articolo 348 bis e 348 ter c.p.c. dichiarava inammissibile il ricorso proposto dall’A. avverso tale decisione. La cassazione di dette pronunce è chiesta dall’A. con quattro motivi. Resistono con controricorso la Salini Impregilo s.p.a. già Impregilo s.p.a. ed il Consorzio Caserma Donati in liquidazione, che hanno depositato memoria illustrativa ex articolo 378 c.p.c Deceduto medio tempore il ricorrente, sono intervenuti in giudizio con ricorso gli eredi S.R. , A.G. ed A.M. . Motivi della decisione Deve in via pregiudiziale, dichiararsi l’inammissibilità dell’intervento nel presente giudizio di legittimità, degli eredi A. . Rinviene infatti applicazione il principio già affermato da questa Corte, che va qui ribadito, in base al quale nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità dominato dall’impulso d’ufficio, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, né consente agli eredi di tale parte l’ingresso nel processo vedi ex plurimis , Cass. 29/1/2016 numero 1757, Cass. 3/12/2015 numero 24635 . Ciò premesso, con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2697 c.c., 115-116 c.p.c., nonché dell’articolo 5 l. 604/1966 in relazione all’articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c Si critica la sentenza di primo grado per esser pervenuta al diniego di riconoscimento del collegamento funzionale fra Impregilo s.p.a. ed il Consorzio Caserma Donati, tralasciando di considerare due dati essenziali emersi dal materiale istruttorio acquisito a la natura di società controllata del Consorzio, di cui Impregilo s.p.a. deteneva la partecipazione nella misura dell’80% ed il potere di nomina del Presidente b la chiusura dei lavori edili da parte del Consorzio, non aveva determinato la cessazione delle attività amministrative, proseguite almeno sino al 2010. In ragione del chiaro collegamento fra le società, si deduce che l’individuazione del personale eccedentario avrebbe dovuto estendersi all’intero gruppo societario. In ogni caso si rimarca l’errore di fondo che connotava la pronuncia impugnata, laddove si era espressa in termini di inversione dell’onere probatorio di cui all’articolo 5 l. 604/1966 quanto alla possibilità di ricollocazione del lavoratore nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale. Si deduce infatti che, diversamente da quanto argomentato dal giudice di prima istanza, detta disposizione pone integralmente a carico del datore di lavoro, la prova della impossibilità di procedere ad un diverso reimpiego del lavoratore, anche ò in mansioni diverse da quelle in precedenza espletate. Il motivo è solo in parte fondato. Il ricorrente ha, infatti, modulato le proprie censure, in primis, con riferimento alla statuizione di diniego di riconoscimento del collegamento economico-funzionale fra imprese, invocando la violazione dei principi sanciti dalle disposizioni di cui agli articolo 115 - 116 c.p.c. e lamentando il non corretto governo del materiale istruttorio da parte del giudice di prima istanza il quale avrebbe trascurato taluni dati documentali e testimoniali, che deponevano nel senso patrocinato, di un collegamento funzionale fra le imprese convenute. Va in proposito considerato che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. Nella specie ricorre proprio siffatta ultima ipotesi in quanto la violazione di legge viene dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura attiene al vizio di motivazione, mirando a pervenire inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione, nel merito, della valutazione dei fatti di causa elaborata dai giudici del gravame che è inibita nella presente sede di legittimità, giacché l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito cfr. Cass. 16/7/2010 numero 16698, Cass. 18/11/2011 numero 24253, Cass. 16/09/2013 numero 21099 cui adde, da ultimo, Cass. 11/1/2016 numero 195 . E, sempre sulla medesima linea interpretativa, va rimarcato come la giurisprudenza di questa Corte sia costante nel ritenere che la violazione degli articolo 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’articolo 360, primo comma numero 5, cod. proc. civ. e, quanto a quest’ultimo, che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito da tale ultima disposizione, non equivale alla revisione del ragionamento decisorio , ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità , con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa v., fra le altre, Cass. 1/9/2011 numero 17977, Cass. 16/11/2011 numero 27197 . Anche prima della riformulazione dell’articolo 360 comma primo numero 5 c.p.c., di cui al D.L. 22 giugno 2012, numero 83, articolo 54, comma 1, lett. b , conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, numero 134, non era, dunque, invocabile in sede di legittimità, un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte. L’intervento di modifica dell’articolo 360 c.p.c., numero 5 applicabile, ratione temporis , alla fattispecie qui scrutinata , come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha comportato, poi, una ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta Cass. Sez. Unumero , 7/4/2014, numero 8053 la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Tanto comporta Cass. Sez. Unumero , 22/9/2014, numero 19881 che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Nell’ottica descritta, si impone, quindi, l’evidenza della inammissibilità del motivo, laddove tende a pervenire ad una rinnovata valutazione degli elementi probatori oggetto di esegesi da parte della Corte territoriale, non consentita in questa sede di legittimità, trattandosi di doglianza che esula dall’ambito del vizio di cui all’articolo 360 numero 3 c.p.c Peraltro, non può sottacersi che, come statuito da questa Corte vedi ex plurimis , Cass. 11/12/2014 numero 26097 in ipotesi di cosiddetta. doppia conforme in fatto a cognizione sommaria, ex articolo 348 ter, quarto comma, cod. proc. civ., è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici di merito, sicché il sindacato di legittimità del provvedimento di primo grado è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili . Situazione, questa, non ravvisabile nello specifico, posto che il giudice di prima istanza ha proceduto alla disamina del quadro istruttorio, definito in giudizio, pervenendo all’accertamento di una carenza nella allegazione e nella prova in ordine alla unicità del centro di imputazione di interessi, con statuizione congrua e completa che si palesa, altresì, conforme a diritto. Essa è infatti coerente con gli approdi ai quali è pervenuta questa Corte sulla delibata questione, in base ai quali il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare - anche all’eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l’applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato - un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico - funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l’esistenza di una serie di requisiti quali l’unicità della struttura organizzativa e produttiva l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune il coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori cfr. Cass. 12/2/2013 numero 3842 . In definitiva, la statuizione del giudice di prima istanza - con riguardo al collegamento economico funzionale fra le due imprese - per le argomentazioni sinora svolte, resiste alla censura all’esame. Ciò detto, va rimarcato che la pronuncia impugnata, con riferimento alla affermazione concernente l’attribuzione a carico del lavoratore, dell’onere di dimostrare l’esistenza di collocazioni professionali alternative nel contesto aziendale all’epoca del licenziamento, si espone alle critiche sul punto formulate dal ricorrente. Per un ordinato iter motivazionale, si impongono talune considerazioni di ordine generale con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con il quale il legislatore ha disciplinato le ipotesi in cui si presenta la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro a causa di scelte attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa L. 15 luglio 1966 numero 604 articolo 3 . È stato al riguardo affermato che compete al giudice - il quale non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo 41 Cost. - il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale la parte datoriale ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto cfr. ex plurimis , Cass. 14/5/2012 numero 7474, Cass. 11/7/2011 numero 15157 . Sotto il medesimo versante, va considerato che la dimostrazione della effettività delle ragioni sottese al provvedimento espulsivo, non è sufficiente da sola ad integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo, essendo necessaria la prova della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti, secondo un consolidato principio giurisprudenziale che invera la tesi del licenziamento come extrema ratio . Con risalente orientamento, questa Corte ha, infatti, avuto modo di affermare il principio in base al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri , la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come extrema ratio v. Cass. 14/6/1999 numero 5893, Cass. 5/12/2000 numero 15451, Cass. 20/5/2009 numero 11720 . Ai fini della legittimità dello stesso, sul datore di lavoro incombe, dunque, l’onere probatorio inerente sia alla concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo - organizzativo, sia alla impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito cfr., ex plurimis , in motivazione, Cass. 13/8/2008 numero 21579 , potendo l’onere in questione ricondursi al generale principio della buona fede, che impone a ciascun contraente di soddisfare i propri interessi nel modo meno pregiudizievole per la controparte, come sottolineato da avvertita dottrina. Nello specifico, il giudice di prima istanza, le cui statuizioni risultano oggetto di rituale impugnazione ai sensi dell’articolo 48 ter c.p.c., ha espressamente dedotto che le critiche formulate dal ricorrente si appuntavano sulla necessità che, a fronte della motivazione oggettiva inerente al compimento delle opere seguite dal Consorzio ed all’avvio della attività di liquidazione, il datore di lavoro lo dovesse trattenere in servizio rispetto a dipendenti meno anziani oppure ricollocare altrimenti . Il giudicante ha quindi affermato che il lavoratore non aveva assolto l’onere di allegazione che su di lui incombeva, da un lato sull’esistenza di dipendenti rispetto ai quali essere preferito con riferimento ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare per motivo oggettivo, e dall’altro lato sull’esistenza di collocazioni professionali alternative per mansioni equivalenti o inferiori sulle quali avrebbe potuto essere utilmente ricollocato . Ha poi puntualizzato che incombe al lavoratore dimostrare l’illegittimità della scelta con indicazione dei dipendenti in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata e che, sotto altro versante, il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle in precedenza svolte, con la precisazione che tuttavia, si debba esigere dallo stesso lavoratore una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage , mediante allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente collocato. Orbene, premesso che è da escludersi il passaggio in giudicato di detta statuizione prospettato dal Consorzio Caserma Donati in sede di controricorso con riferimento alla impossibilità di utile ricollocazione dell’A. nel contesto aziendale - giacché il ricorrente ha espressamente dedotto nel contesto del presente ricorso, che l’attività amministrativa del Consorzio era proseguita per almeno un anno dopo il licenziamento, come confermato in sede testimoniale, ed ha lamentato la mancata dimostrazione da parte datoriale Consorzio ovvero società controllante Impregilo di una possibilità di reimpiego in mansioni equivalenti o anche deteriori rispetto a quelle in precedenza a lui ascritte, deve ritenersi che gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale in tema di obbligo di repechage , non siano condivisibili. Essi si fondano, pervero, su orientamento giurisprudenziale che, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sostanzialmente condiziona l’onere del datore di lavoro di provare l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, a che lo stesso lavoratore-attore collabori con il convenuto nell’accertamento di un possibile reimpiego, indicando gli altri posti in cui potrebbe essere utilmente riallocato. Si tratta di orientamento che è stato oggetto di rimeditazione in recenti arresti di questa Corte vedi Cass. 13/6/2016 numero 12101, Cass. 22/3/2016 numero 5592, Cass. 4/12/2015 numero 4460 , ai quali si intende dare continuità, per le considerazioni di seguito esposte. Sul piano processuale, si impone l’evidenza che l’opzione adottata dal giudice del merito in tema di repechage con riguardo all’onere di allegazione e collaborazione da parte del lavoratore, si risolve in una sostanziale inversione dell’onere probatorio - che invece l’articolo 5 legge numero 604/66 pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro -, divaricando onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra, laddove detti oneri non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione sull’impossibilità di disgiungere fra loro onere di allegazione e relativo onere probatorio gravante sulla medesima parte v., ex aliis, Cass. cit. numero 12101/2016, Cass. 15/10/2014 numero 21847 . Nell’ottica descritta, va quindi rimarcato come l’opzione ermeneutica che configura a carico del lavoratore l’onere di segnalare una sua possibilità di riallocazione nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale, non appare coerente con la lettera e la ratio che sorregge l’articolo 5 legge numero 604/66, secondo cui l’onere della prova circa l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza è posto a carico della parte datoriale, con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore cfr. in tal senso Cass. numero 8254/92, richiamata più di recente da Cass. numero 4460/2015 . Non può sottacersi, del resto, che il descritto orientamento non si palesa coerente con quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova, qui condivisa, che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla vedi ex plurimis , Cass. 9/11/2006 numero 23918, Cass. 4/5/2012 numero 6799, Cass. 29/1/2016 numero 1665, Cass. 31/3/2016 numero 6209 . Invero, mentre il lavoratore non ha accesso o non ne ha di completo al quadro complessivo della situazione aziendale per verificare dove e come potrebbe essere riallocato, il datore di lavoro ne dispone agevolmente, sicché è anche più vicino alla concreta possibilità della relativa allegazione e prova. Dalle superiori argomentazioni discende quindi che la pronuncia impugnata, in quanto non coerente con gli enunciati principi in tema di repechage , deve essere cassata, in accoglimento - entro gli esposti limiti - del primo motivo di ricorso. Con il secondo mezzo di impugnazione il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli articolo 2697 c.c., 115 - 116 c.p.c. ex all’articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c Lamenta che il giudice di prima istanza abbia proceduto ad una non corretta valutazione del compendio istruttorio di natura documentale e testimoniale raccolto, in relazione alla richiesta di pagamento integrale del T.F.R. Rimarca in proposito che dalla lettera in data 15/11/89 inviata dalla datrice di lavoro Cogefar si riconosce una anzianità di servizio ventennale, comprensiva, dunque, dell’iniziale periodo di lavoro espletato in Libia presso la CSC Cogefar, periodo che non risulta computato in sede di liquidazione del TFR da parte del Consorzio Caserma Donati. La censura va disattesa sulla scorta delle medesime argomentazioni esposte in relazione al primo motivo. Il Tribunale ha infatti modulato il proprio iter motivazionale, del pari, sulla carenza di allegazione e di prova in ordine alla successione, ai sensi del disposto di cui all’articolo 2112 c.c. fra i soggetti giuridici dei quali il ricorrente era stato dipendente a far tempo dal 1969 e, comunque, sulla sostanziale unicità del centro di imputazione di interessi, evidenziando come la obiettivata carenza di allegazione e di prova al riguardo, ostava all’accoglimento della domanda attinente alle differenze di T.F.R Si tratta di argomentazioni congrue e conformi a diritto, insuscettibili di emendamento nella presente sede, anche alla stregua del disposto di cui all’articolo 348 ter comma 4 c.p.c Con la terza censura si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2099 – 2103 - 2697 c.c., 115 - 116 c.p.c. nonché dell’articolo 1 r.d. 15/3/23 numero 692, dell’articolo 3 numero 2 r.d. 10/9/23 numero 1955 e dell’articolo 17 d.lgs. numero 66/2003 oltre alla violazione e falsa applicazione dell’articolo 48 c.c.numero l. dipendenti imprese edili, ex all’articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c Si stigmatizza la sentenza impugnata per non aver rettamente interpretato le dichiarazioni rese dai testimoni escussi in merito agli orari di lavoro osservati - che superavano le otto ore giornaliere dal lunedì al venerdì nel periodo 2004-2009 - così come in relazione alle mansioni ascritte al dipendente, il quale non risultava preposto ad alcun reparto o ramo d’azienda con diretta responsabilità dell’andamento dei servizi, di guisa che non poteva ritenersi svincolato dai limiti di orario, come prescritto dalle disposizioni normative richiamate. Si argomenta, in ogni caso che, pur ove si intendesse aderire alla ricostruzione offerta dal primo giudice in ordine allo svolgimento di funzioni direttive da parte del ricorrente, doveva ritenersi dimostrato lo svolgimento di un monte ore di lavoro superiore al limite annuo di 250 ore stabilito dall’articolo 5 l. 66/2003, con conseguente retribuibilità del lavoro straordinario prestato in eccedenza rispetto a tale misura. Il motivo, che risulta essenzialmente articolato sulla errata interpretazione delle disposizioni contrattuali collettive dipendenti imprese edili che definiscono il personale direttivo per il quale è esclusa la limitazione dell’orario di lavoro, è improcedibile. Non può prescindersi, sul punto, dal richiamo all’orientamento espresso da questa Corte, e che va qui ribadito, in base al quale, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dalla disposizione di cui all’articolo 366 c.p.c. comma primo numero 6 c.p.c., è necessario indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame vedi Cass. 6/3/2012 numero 4220, Cass. 9/4/2013 numero 8569, cui adde Cass. 24/10/2014 numero 22607 . Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, un contratto o un accordo collettivo prodotto in giudizio, postula quindi, che si individui dove sia stato prodotto. nelle fasi di merito, e, in ragione dell’articolo 369 c.p.c., comma 2, numero 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità. È stato altresì precisato che l’onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell’articolo 369, secondo comma, numero 4, cod. proc. civ., di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali - nel rispetto del principio di cui all’articolo 111 Cost., letto in coerenza con l’articolo 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli - anche mediante la riproduzione, nel corpo dell’atto d’impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio onde verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito vedi Cass. 7/7/2014 numero 15437 . Può quindi affermarsi che il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi, come nella specie, della erronea valutazione di un contratto collettivo da parte del giudice di merito, ha il duplice onere - imposto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, numero 6 - di produrlo integralmente agli atti e di indicarne il contenuto. Nello specifico, il contratto collettivo applicabile ratione temporis , non risulta prodotto integralmente, sicché il motivo svolto non si sottrae ad un giudizio di improcedibilità alla stregua dei dettami sanciti dall’articolo 369 comma 2 numero 4 c.p.c Con la quarta censura il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli articolo 1226 – 2697 c.c., 115 - 116 c.p.c., in relazione all’articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c Lamenta che la corte distrettuale, nello scrutinio della domanda di risarcimento del danno biologico formulata, abbia omesso di valutare o mal valutato il compendio probatorio acquisito, che deponeva in guisa univoca nel senso di definire l’intimazione di licenziamento secondo modalità irriguardose, tali da menomare la propria integrità psicofisica. Si duole altresì del mancato ricorso a principi di equità quanto al danno biologico risentito per effetto delle ore di lavoro straordinario rese oltre i normali limiti di tollerabilità negli anni 2004-2009. La doglianza va disattesa, mirando a pervenire, inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione della valutazione dei fatti di causa elaborata dal giudice di primo grado e confermata dalla Corte distrettuale, inibita nella presente sede di legittimità, avendo la Corte anzidetta, ancora una volta argomentato la reiezione della domanda inerente al danno biologico, sul rilievo della carenza di allegazione e di prova il cui onere incombeva a carico del ricorrente, con motivazione congrua e completa. In definitiva, alla stregua delle sinora esposte argomentazioni, va accolto esclusivamente il primo motivo di ricorso, nei sensi innanzi descritti, respinti gli altri la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte designata in dispositivo che, statuendo anche sulle spese del presente giudizio di cassazione, applicherà i principi affermati da questa Corte con le citate sentenze nnumero Cass. 13/6/2016 numero 12101, Cass. 22/3/2016 numero 5592, Cass. 4/12/2015 numero 4460. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione, e rigetta gli altri cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Bologna.