Mansioni confermate per il dipendente malato: la sua morte non è addebitabile all’azienda

Respinte le ripetute richieste avanzate da un portalettere di vedersi assegnati compiti diversi. La scelta della società datrice di lavoro è discutibile, ma essa non è sufficiente per collegare il decesso dell’uomo, affetto da problemi al cuore, all’attività svolta quotidianamente come postino.

Problema fisico serio per il portalettere. Nonostante la miocardia ipertensiva che lo ha colpito, però, vengono respinte le sue ripetute richieste di vedersi assegnato a nuove mansioni. Scelta discutibile, quella dell’azienda. Ciò però non è sufficiente per collegare la successiva morte del postino allo stress subito per l’attività lavorativa svolta quotidianamente. Cassazione, sentenza n. 22940, sezione Lavoro, depositata il 10 novembre 2016 Nesso. Moglie e figli dell’uomo, dipendente di ‘Poste Italiane’, chiedono un adeguato risarcimento , chiamando in causa non solo l’azienda ma anche l’INAIL. Domanda priva di fondamento, ribattono i giudici, sia in Tribunale che in appello, spiegando che, pur potendo rimproverarsi a ‘Poste’ di non avere adibito il postino a mansioni compatibili con miocardia ipertensiva da cui era affetto , non è comunque dimostrato un nesso tra l’attività lavorativa svolta e la dissecazione dell’aorta addominale che ne ha provocato la morte. Questa considerazione è condivisa dai magistrati della Cassazione. Anche a loro parere, sia chiaro, l’azienda ha tenuto una condotta discutibile, non avendo adibito il lavoratore a mansioni differenti da quelle di portalettere, così disattendendo le reiterate richieste rivoltele . Ciò però non è sufficiente per ritenere che la morte del dipendente sia stata provocata, anche solo in parte, dal lavoro svolto quotidianamente.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 19 luglio – 10 novembre 2016, n. 22940 Presidente D’Antonio – Relatore Cavallaro Fatto Con sentenza depositata il 24.7.2012, la Corte d'appello di Campobasso confermava la sentenza di prime cure che aveva rigettato le domande risarcitorie proposte dagli eredi di C.R. nei confronti di Poste Italiane s.p.a. e dell'INAIL. La Corte, in particolare, riteneva che, benché potesse rimproverarsi a Poste Italiane s.p.a. di non aver adibito il de cuius a mansioni più compatibili con la miocardia ipertensiva da cui era affetto, nessun nesso di causalità poteva rinvenirsi tra l'attività lavorativa svolta e la dissecazione dell'aorta addominale che l'aveva condotto a morte. Contro questa pronuncia ricorrono gli eredi R. con tre motivi. L'INAIL e Poste Italiane s.p.a. resistono con controricorso. Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso incidentale condizionato fondato su un motivo, al quale gli eredi hanno resistito con controricorso. Diritto Con il primo motivo dei ricorso principale, i ricorrenti denunciano violazione dell'art. 437 comma 2° c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio per non avere la Corte di merito richiamato a chiarimenti il CTU sulle questioni sollevate dal CTP, concernenti, per un verso, l'efficacia dello stress derivante dall'attività lavorativa nel determinismo della malattia ipertensiva da cui era affetto il de cuius e, per altro verso, la possibilità di considerare la suddetta malattia ipertensiva come derivante da causa di servizio. Il motivo è inammissibile. L'accertamento in ordine alla eziologia professionale della malattia costituisce oggetto di un giudizio di fatto riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici cfr. fra le tante Cass. n. 8271 del 1997 , i quali ultimi, qualora la sentenza abbia prestato sul punto adesione alle conclusioni dei consulente tecnico d'ufficio, sono ravvisabili solo in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va all'uopo debitamente indicata, ovvero nell'omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, risolvendosi diversamente in un mero dissenso diagnostico che si traduce in un'inammissibile critica del convincimento del giudice cfr. tra le tante Cass. n. 1652 del 2012 . E poiché nel motivo di censura, formulato per relationem rispetto alle conclusioni del CTP, non è dato rinvenire né in che modo le conclusioni del CTU si sarebbero discostate dalle nozioni correnti della scienza medica né quali accertamenti strumentali necessari sarebbero stati omessi, limitandosi il CTP a caldeggiare la possibilità di una diversa lettura della documentazione agli atti, non può che concludersi per l'inammissibilità del motivo stesso, siccome volto sostanzialmente a richiedere una rinnovazione del giudizio di fatto non possibile in sede di legittimità. Con il secondo motivo del ricorso principale, i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, per non avere la Corte di merito riconosciuto alcuna responsabilità in capo alla società controricorrente per non aver adottato tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica del de cuius. Anche tale motivo è inammissibile. La Corte territoriale ha bensì dato atto che l'azienda controricorrente non aveva adibito il de cuius a mansioni differenti da quelle di portalettere, così disattendendo le reiterate richieste rivoltele in tal senso, ma ha fondato il rigetto della domanda sulla mancata dimostrazione che la dissecazione dell'aorta addominale che l'aveva condotto a morte avesse connessione diretta o esclusiva o anche solo efficientemente concausale con l'attività lavorativa [da lui] in concreto svolta cfr. sentenza impugnata, pag. 5 . Trattandosi pertanto di motivo di censura estraneo all'accertamento contenuto nella sentenza, non può che darsi continuità al principio secondo cui la proposizione con il ricorso per cassazione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l'inammissibilità del motivo di ricorso, non potendo quest'ultimo essere configurato quale impugnazione rispettosa del canone di cui all'art. 366 n. 4 c.p.c. v. in tal senso Cass. n. 17125 del 2007 . Con il terzo motivo del ricorso principale, i ricorrenti si dolgono di violazione dell'art. 112 c.p.c. e di contrasto fra dispositivo e motivazione per avere la Corte territoriale confermato integralmente la pronuncia di primo grado nonostante la riconosciuta fondatezza delle censure svolte in appello circa l'erroneità della declaratoria della prescrizione delle domande. Il motivo è palesemente infondato, giacché la rilevanza ai fini del decidere di una questione preliminare di merito si manifesta solo se la sua fondatezza può condurre al rigetto di una domanda che, altrimenti, andrebbe accolta. E poiché tanto non può logicamente dirsi nel caso di specie, avendo la Corte territoriale escluso la fondatezza nel merito della domanda, del tutto correttamente, pur ritenendo la fondatezza del gravame per ciò che concerneva la declaratoria della prescrizione, essa ha rigettato l'appello e confermato la sentenza di primo grado ciò che rilevava di quest'ultima era infatti la statuizione di rigetto della domanda, indipendentemente dalla motivazione su cui era fondata, che la Corte ha semplicemente corretto. Il ricorso principale, pertanto, va rigettato, rimanendo conseguentemente assorbito il ricorso incidentale. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P. Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale, e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 5.100,00, di cui € 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge, per ciascuna delle parti contro ricorrenti.