Tempi certi per procedimento disciplinare e licenziamento

L’art. 5, comma 4, l. n. 97/2001 che dispone che il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire entro 90 giorni dalla comunicazione alla pubblica amministrazione della sentenza penale di condanna, si applica a tutti i dipendenti di amministrazioni o enti pubblici o di enti a prevalente partecipazione pubblica, a prescindere dalla tipologia dei reati di cui all’art. 3 comma 1, stessa legge.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19930/2016, depositata il 5.10.2016. Il caso. Un dipendente del Ministero della Giustizia, indagato per i reati di falso, truffa e turbativa d’asta, era stato sospeso necessariamente dal servizio, con concessione dell’assegno alimentare previsto ex lege . In costanza del procedimento penale, il procedimento disciplinare era stato sospeso, sino all’esito del primo. Una volta condannato in primo grado per il solo reato di falso, la pubblica amministrazione datrice di lavoro riattivava il procedimento disciplinare, comminando la relativa sanzione, ossia il licenziamento disciplinare. Il lavoratore impugnava, quindi, il licenziamento, ritenendolo intimato tardivamente, ossia, oltre il termine di 90 giorni di cui all’art. 5, comma 4, l. n. 97/2001, che prevede che in caso di sospensione del procedimento disciplinare per pendenza del processo penale, il primo debba essere riattivato entro 90 giorni dalla comunicazione alla pubblica amministrazione della sentenza penale. Questione di tempo. Secondo l’amministrazione datrice di lavoro, il licenziamento era legittimo e tempestivo non si applicherebbero, infatti, le norme di cui alla l. n. 97/2001. In particolare, secondo il Ministero ricorrente in Cassazione, con la l. n. 97/2001 il legislatore ha voluto regolare i casi in cui i dipendenti pubblici siano imputati o abbiano commesso reati contro la pubblica amministrazione, delitti considerati di grande allarme sociale. Solo a tali reati si applicherebbe, quindi, la legge ed il termine di 90 giorni previsto per l’attivazione/riassunzione/conclusione del procedimento disciplinare. La difesa della pubblica amministrazione prendeva le mosse dal combinato disposto degli artt. 5, comma 4, e 3, comma 1, l. n. 97/2001 il primo, infatti, richiama il secondo, che riguarda i reati contro la pubblica amministrazione, o meglio, il trasferimento d’ufficio nel caso in cui siano commessi reati contro la pubblica amministrazione. Considerato l’ambito di applicazione materiale così come individuato dal Ministero, al caso di specie, non andrebbe applicato il termine di 90 giorni, poiché il lavoratore licenziato era stato condannato per reati comuni, esclusi, per loro natura, dalla disciplina di cui all’art. 5, comma 4, l. n. 97/2001. Invero, le tempistiche del procedimento disciplinare e del successivo licenziamento sarebbero state conformi all’art. 25, comma 8, del CCNL Comparto Ministeri, secondo cui il procedimento disciplinare deve essere riattivato entro 180 giorni non 90 dalla notizia della sentenza definitiva di condanna. Se, quindi, fosse stato applicato il CCNL anziché la l. n. 97/2001, il licenziamento sarebbe stato tempestivo poiché intimato nei 180 giorni successivi alla notizia della sentenza penale. La ratio. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione rigetta le eccezioni del Ministero, ritenendo equo e corretto il ragionamento della Corte d’appello, che aveva interpretato l’art. 5, comma 4, l. n. 97/2001 alla luce dell’art. 12 delle preleggi ed in conformità alla giurisprudenza di legittimità Cass. 22210/2010 la l. n. 97/2001 detta norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare nonché sugli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Se questa è la ratio della l. n. 97/2001, allora il rinvio effettuato dall’art. 5 all’art. 3 della stessa legge è effettuato con riguardo alla sola limitazione del proprio ambito di applicazione soggettivo, ossia, al solo personale dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica , a nulla rilevando la tipologia di reati contenuta nel richiamato art. 3. Una simile conclusione è coerente non solo con la lettera della norma art. 5 ma anche con la struttura logico sistematica dell’intera disciplina. Come già rilevato dalla Corte Costituzionale con sentenza 186/2004, le novità introdotte con la l. n. 97/2001 consistono nel fatto che sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinate ad esplicare effetti nel procedimento disciplinare, di stampo lavoristico. Ciò indipendentemente dal tipo di reato commesso. Tutt’al più la tipologia di reato potrà influire sulla scelta della sanzione disciplinare da comminare. Il licenziamento del lavoratore falsario è, quindi, illegittimo poiché non intimato in conformità della l. n. 97/2001. In conclusione, si tenga presente che, attualmente, il rapporto tra processo penale e procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici è disciplinato dal d.lgs. n. 165/2012, le cui norme sono dettate proprio in conformità ai menzionati principi.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 luglio – 5 ottobre 2016, numero 19930 Presidente Macioce – Relatore Tricomi Svolgimento del processo 1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza numero 86 del 2012, depositata il 9 febbraio 2012, accoglieva in parte l’appello proposto da S.A. nei confronti del Ministero della giustizia e in riforma della sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Castrovillari il 27 ottobre 2004, dichiarava l’illegittimità del licenziamento irrogato allo S. , con ordine di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro occupato al momento del licenziamento e condanna dell’Amministrazione al pagamento di tutte le retribuzioni, computate secondo la contrattazione collettiva vigente, maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegra, maggiorate di interessi legali dalle singole scadenze fino al soddisfo ed al connesso ripristino della sua posizione assicurativa e previdenziale presso gli enti prescritti per legge. 2. La Corte d’Appello ricorda che il lavoratore, ufficiale giudiziario presso il Tribunale di Palmi, posizione economica C1, aveva adito il Tribunale impugnando il licenziamento intimatogli, senza preavviso, con provvedimento del 15 luglio 1992. Il ricorrente era stato indagato per i reati di falso e truffa e turbativa d’asta ed attinto da misura cautelare di custodia in carcere con provvedimento del 9 marzo 1991. Era stato sospeso necessariamente dal servizio, con concessione dell’assegno alimentare prescritto per legge, sospensione poi confermata e prorogata con provvedimenti del 23 ottobre 1991 e del 2 luglio 1996, che conteneva anche la contestazione degli addebiti disciplinari. Tale ultimo provvedimento era stato impugnato dinanzi al TAR Calabria che ne rigettava la richiesta di sospensiva. In data 12 febbraio 2002, veniva comunicata all’amministrazione la sentenza definitiva, con la quale il lavoratore veniva condannato per il reato di falso ed assolto dagli altri reati per intervenuta prescrizione. Con atto del 27 marzo 2002, notificatogli il 22 aprile 2002, veniva riattivato il procedimento disciplinare sospeso per la pendenza del procedimento penale, ma mancando tale atto della seconda pagina nella copia a lui notificata, ed a seguito di tale sua rimostranza, il procedimento suddetto veniva nuovamente riavviato con atto del 21 maggio 2002. Con provvedimento del 15 luglio 1992 recte 2002 veniva irrogato il licenziamento. Il Tribunale dichiarava il proprio difetto di giurisdizione quanto ai provvedimenti di sospensione dal servizio del 13 marzo 1991 e del 2 luglio 1996 e rigettava la domanda in ordine al provvedimento di licenziamento del 15 luglio 1992 recte 2002 . 3. La Corte d’Appello affermava che sussisteva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario con riguardo ai provvedimenti di sospensione dal servizio del ricorrente, che risalivano tutti ampiamente da prima del 30 giugno 1998, in quanto emessi negli anni 1991 e 1996 che il termine di cui all’art. 24, comma 2, del CCNL Comparto ministeri, prescritto per l’inizio del procedimento disciplinare, aveva carattere perentorio, ma doveva convivere con l’art. 90 del d.P.R. numero 1229 del 1959, che prevedeva la sospensione del procedimento disciplinare in attesa dell’esito del procedimento penale tale disciplina, benché superata dal d.lgs. numero 29 del 1993, poi confluito nel d.lgs. numero 165 del 2001, trovava applicazione nella specie ratione temporis , secondo i principi affermati dalla Corte di cassazione Cass., numero 21032 del 2006 che il termine di 120 previsto dall’art. 24, comma 6, del suddetto CCNL, per la conclusione del procedimento disciplinare, non risultava superato perché l’atto di riattivazione del procedimento del 27 marzo 2002, notificato al ricorrente privo di pagina, in quanto atto recettizio, non poteva ritenersi utile allo scopo. Il primo atto valido di riattivazione del procedimento era quello notificato il 21 maggio 2002, per cui alla data di notifica del provvedimento espulsivo 27 luglio 2002 detto termine di 120 giorni non era trascorso che non era stato rispettato da parte della PA il termine di cui all’art. 5, comma 4, della legge numero 97 del 2001, che prevede che in caso di sospensione del procedimento disciplinare per pendenza del procedimento penale, il primo deve essere riattivato entro 90 giorni dalla comunicazione alla PA della sentenza penale. Poiché la sentenza penale era stata comunicata il 12 febbraio 2002 e il procedimento penale era stato validamente riattivato solo il 21 maggio 2002, il termine decadenziale di 90 giorni era irrimediabilmente trascorso. A ciò conseguiva l’illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria come precisata. 4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il Ministero della giustizia prospettando tre motivi di ricorso. 5. Resiste con controricorso e ricorso incidentale articolato in sette motivi S.A. . 6. La causa veniva chiamata all’udienza del 10 marzo 2013 il ricorrente depositava memoria ai sensi dell’art. 378 cpc , ed essendo stata posta, con il secondo motivo del ricorso incidentale, questione di giurisdizione, veniva pronunciata l’ordinanza interlocutoria numero 6634 del 2015, con la quale veniva disposta la rimessione al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374, comma 1, cpc. 7. In prossimità dell’udienza pubblica fissata dinanzi alle Sezioni Unite, entrambe le parti hanno depositato memoria. 8. Le S.U. con la sentenza numero 787 del 2016 rigettavano il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale si era prospettato che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente statuito il proprio difetto di giurisdizione, e disponevano che sugli altri motivi si sarebbe pronunciata la sezione semplice alla quale, sezione lavoro, la controversia veniva rimessa. 9. In prossimità dell’udienza pubblica del 5 luglio 2016 entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione 1. Preliminarmente, deve essere disposta la riunione dei ricorsi, in quanto proposti avverso la medesima sentenza di appello. 2. Sempre in via preliminare si deve rilevare che l’esame del secondo motivo del ricorso incidentale è stato effettuato dalla Sezioni Unite, che lo hanno dichiarato infondato con la sentenza numero 787 del 2016. Pertanto il vaglio dello stesso in questa sede è inammissibile. 3. Con il primo motivo del ricorso principale è prospettata la violazione dell’art. 5, comma 4, della legge numero 97 del 2001, in relazione all’art. 360, numero 3, cpc. L’Amministrazione espone che, erroneamente, la Corte d’Appello ha ritenuto che detta disposizione si applica a tutti i dipendenti di amministrazioni o enti pubblici o a prevalente partecipazione pubblica, senza tener conto della tipologia di reati. Deduce il ricorrente che con legge numero 97 del 2001 si sono previste una serie di norme strettamente connesse ai casi in cui i dipendenti pubblici siano imputati o abbiano commesso reati contro la pubblica amministrazione, delitti considerati di grande allarme sociale. Solo per tali reati, come si evincerebbe, in particolare, da una lettura coordinata degli artt. 3, comma 1, e 5, commi 2 e 4, è stata introdotta una nuova regolamentazione dei termini per l’attivazione o la riassunzione e conclusione del procedimento disciplinare dopo la conoscenza del giudicato penale di condanna. A sostegno delle proprie argomentazioni l’Amministrazione richiama pronunce emesse in sede giurisdizionale e consultiva dal Consiglio di Stato. Pertanto il comma 4 dell’art. 5 della legge numero 97 del 2001 non potrebbe trovare applicazione alla fattispecie in esame in cui lo S. era stato condannato per reati comuni. Nella specie, dovrebbe trovare applicazione l’art. 25, comma 8, del CCNL 16 maggio 1995, secondo cui il procedimento disciplinare è riattivato entro 180 giorni dalla notizia della sentenza definitiva, termine nel caso in esame rispettato. Ciò troverebbe conferma anche nell’art. 14 del successivo CCNL del 12 giugno 2003 che pone in evidenza un distinguo tra la disciplina legale e quella convenzionale. 3.1. Il motivo non è fondato. L’interpretazione dell’art. 5, comma 4, della legge numero 97 del 2001, effettuata dalla Corte d’Appello è corretta in ragione dei canoni ermeneutici dell’art. 12 delle preleggi, secondo quanto già statuito da questa Corte con la sentenza numero 22210 del 2010, ove si è posto in rilievo che, quasi contestualmente al d.lgs. numero 165 del 2001, che procedeva al riordino della materia disciplinare nell’art. 55 e segg., abrogando all’art. 72 tutte le disposizione del d.lgs. numero 29 del 1993, interveniva la legge numero 97 del 2001, mirata specificamente a dettare norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e sugli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, la quale ha in sostanza riformulato la disciplina della legge numero 19 del 1990, art. 9, comma 2, disponendo, all’art. 5, comma 4, che, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti pubblici privatizzati, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare. Tale interpretazioni tiene conto di quanto disposto dall’art. 5, comma 4, della legge numero 97 del 2001 Salvo quanto disposto dall’articolo 32-quinqu/es del codice penale, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell’articolo 3, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare , in relazione al suddetto art. 3, comma 1. Ed infatti, il rinvio effettuato dall’art. 5, comma 4, all’art. 3, comma 1, poiché è effettuato con riguardo alla mera delimitazione del proprio ambito soggettivo di applicazione, non può che riferirsi solo alla espressione dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica , mentre la tipologia di reati contenuta nel medesimo art. 3, comma 1, concorre a definire la specifica fattispecie disciplinata dall’art. 3, comma 1 trasferimento d’ufficio . L’interpretazione letterale della norma, quindi, già decisiva, trova conferma anche in quella logico sistematica, ed è coerente con la finalità della legge come si rileva dalla sentenza della Corte costituzionale numero 186 del 2004, che ha posto in rilievo che con le novità introdotte dalla legge numero 97 del 2001, sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinate ad esplicare effetti nel giudizio disciplinare. Si assicura, in questa maniera, non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma soprattutto una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell’azione amministrativa . Né deduzioni in senso contrario possono svolgersi in ragione del comma 2 dell’art. 5 che introduceva nel codice penale l’art. 32-quinquies, Casi nei quali alla condanna consegue l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego . Le pronunce del giudice amministrativo richiamate nel ricorso, in ragione di quanto statuito da Cass. numero 22210 del 2012 alla quale, per le ragioni sopra esposte, si intende dare continuità, non offrono argomenti per ritenere adeguata la censura del ricorrente. 3. Con il secondo motivo del ricorso principale è dedotta la violazione degli artt. 648 649 cpp, in relazione all’art. 360, numero 3, cpc. La sentenza della Corte d’Appello sarebbe in contrasto con il giudicato penale. Lo S. , fin dal primo grado di giudizio veniva condannato in via definitiva, quale pena accessoria, all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. La sentenza della Corte di cassazione che rendeva definitiva la sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Reggio Calabria era del 20 novembre 2011. La sanzione disciplinare del licenziamento veniva adottata il 15 luglio 2002, a distanza di circa 8 mesi dalla condanna penale definitiva. La Corte d’Appello, con la sentenza oggetto del presente ricorso, non ha tenuto conto della sentenza penale e ha condannato l’amministrazione a reintegrare il ricorrente dal giorno del licenziamento, con ciò violando il giudicato penale. 3.1. Il motivo è inammissibile in quanto introduce una questione non oggetto di statuizione da parte della Corte d’Appello e della quale non viene prospettata in modo circostanziato, indicando i relativi atti, la già avvenuta introduzione nel giudizio. Il ricorrente si è limitato ad affermare di avere esposto, in fatto, sin dal primo grado di giudizio che vi era stata la condanna quale pena accessoria all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, ma oltre a non precisare quale era stata la deduzione nella cui trattazione tale fatto veniva prospettato, non fa alcun riferimento a difese prospettate in merito nel giudizio di appello, con conseguente carenza di autosufficienza del motivo di ricorso. 4. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata la violazione dell’art. 4, comma 5, della legge numero 97 del 2001, sotto diverso profilo, in relazione all’art. 360, numero 3, cpc difetto di motivazione ex art. 360, numero 5, cpc. Assume il Ministero che l’incompletezza del primo atto con cui veniva riattivato il procedimento disciplinare non ne inficerebbe l’efficacia, in quanto gli addebiti disciplinari erano conosciuti al ricorrente sin dal 1996. Ritenendosi valida la prima riattivazione del procedimento disciplinare perderebbe rilievo l’applicabilità del termine di cui all’art. 5, comma 4, della legge numero 97 del 2001. La sanzione espulsiva veniva irrogata nel rispetto del termine di 120 giorni di cui all’art. 24, comma 6, del CCNL del 16 maggio 1995, e ciò anche considerando la prima ed incompleta notifica dell’atto di riattivazione del procedimento disciplinare. 4.1. Il motivo è inammissibile in quanto non censura adeguatamente la statuizione della Corte d’Appello. Il giudice di secondo grado, infatti, ha affermato che nel primo atto di riattivazione notificato privo di una pagina, mancava tutta la parte essenziale contenente i fatti contestati, per cui lo stesso era inidoneo allo scopo per cui era stato emesso, tanto che oltre ad essere ciò eccepito dal lavoratore, la stessa amministrazione provvedeva ad una notifica dell’atto completo. Il ricorrente non censura tale statuizione, ma si limita a prospettare che nello stesso vi era la riproduzione dei capi di incolpazione degli addebiti del 2 luglio 1996 e sussisteva una conoscenza dei fatti da parte del lavoratore perché oggetto del procedimento penale in cui lo stesso non era stato contumace. In tal modo, l’Amministrazione non censura la affermata essenzialità della parte mancante dell’atto, né illustra ulteriori ragioni poste a fondamento della rinotifica, ma si limita a dedurre una desumibilità del contenuto dell’atto in ragione della conoscenza dei fatti oggetto del processo penale da parte del lavoratore. 5. Il ricorso principale deve essere rigettato. 6. Può passarsi all’esame dei motivi del ricorso incidentale. 7. Con il primo motivo del ricorso incidentale lo S. prospetta la violazione dell’art. 360, numero 3, cpc, per violazione degli artt. 69, 70 e 75 del DPR numero 1229 del 1959 e dell’art. 27, comma VII, del CCNL Comparto Ministeri 19951998. È censurata la statuizione con la quale la Corte d’Appello ha affermato che il Ministero è tenuto alla reintegra dello S. ed al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegra . La disciplina di cui si assume la violazione prevede che nell’ipotesi di sanzione disciplinare annullata, ovvero nel caso in cui abbia durata inferiore alla sospensione cautelare comminata al dipendente, lo stesso ha diritto alla ricostruzione della carriera per il periodo eccedente la durata della sanzione anche e soprattutto allorquando la sanzione disciplinare venga poi caducata. Nel caso di specie, il ricorrente veniva sospeso dal servizio dal 13 marzo 1991 al 27 agosto 2002 per un periodo di 11 anni 5 mesi e 14 giorni. Tenendo conto del periodo di interdizione dai pubblici uffici, il dies a quo della retrodatazione della riassunzione del ricorrente andava individuato nella data del 14 marzo 1996, con ricostruzione della carriera a fini giuridici ed economici a detta data. 7.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato. Come già ha affermato dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza numero 787 del 2016, nel vagliare e rigettare il secondo motivo del ricorso incidentale, nelle conclusioni dinanzi alla Corte d’appello lo S. aveva formulato tre distinte richieste la disapplicazione del provvedimento di licenziamento, con reintegrazione nel posto di lavoro la disapplicazione del provvedimento datato 2 luglio 1996 di attivazione del procedimento disciplinare nonché proroga della sospensione del servizio, pag. 2 sentenza S.U. numero 787 del 2016 la disapplicazione del provvedimento di riattivazione del procedimento disciplinare. Come statuito dalle S.U., la sentenza della Corte d’Appello afferma, e motiva in modo articolato e consequenziale, che le tre distinte richieste sono autonome, in quanto autonomi sono i provvedimenti impugnati, autonome sono le ragioni giuridiche che vengono prospettate per fondare la pretesa illegittimità e autonome sono le questioni che oggettivamente si pongono. Le Sezioni Unite hanno ritenuto detta valutazione pienamente condivisibile. L’impugnazione del provvedimento di sospensione dinanzi al TAR della Calabria rafforzava le valutazioni sull’autonomia della questione e comprova la sussistenza di un interesse ad agire sin da quell’epoca. Dunque, quanto affermato dalla Corte di Appello sulla non sottoponibilità al giudice ordinario del provvedimento del 2 luglio 2016 e degli atti emessi dalla PA prima del 30 giugno 1998, e sulla autonomia dei fatti materiali e dei provvedimenti posti a base della pretesa illegittimità del provvedimento espulsivo rispetto ai provvedimenti di sospensione poiché sono fatti ed atti successivi ai provvedimenti espulsivi, e pienamente suscettibili di autonoma valutazione trova piena conferma nelle argomentazioni e statuizioni delle Sezioni Unite, alle quali il Collegio intende dare seguito. Proprio in ragione di tale autonomia, correttamente la Corte d’Appello, che ha escluso la propria giurisdizione come confermato dalle Sezioni Unite con riguardo ai provvedimenti di sospensione del servizio, tra cui il provvedimento del 2 luglio 1996, e ha disposto la reintegra a seguito della ritenuta illegittimità del licenziamento in ragione dell’illegittimità dell’atto di riattivazione del 27 marzo 2002, con la condanna dell’Amministrazione al pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento fino alla reintegra, come precisato nella sentenza di appello. Peraltro, la Corte d’Appello escludeva con congrui argomenti che si vertesse in ipotesi di disapplicazione, atteso che non si era in presenza di atti di organizzazione ma di gestione del rapporto. 8. Con il terzo motivo del ricorso incidentale è dedotta, ai sensi dell’art. 360, numero 3, cpc, error in iudicando . Violazione degli artt. 73 e 90 del d.P.R. 1229 del 1959. Premette lo S. che la Corte d’Appello ha rigettato la doglianza, articolata da esso lavoratore, nel secondo motivo di appello, di tardività della contestazione disciplinare per violazione del termine di 120 giorni dalla conoscenza del fatto, contemplato nell’art. 24 del CCNL di comparto. La Corte d’Appello affermava l’applicabilità nella fattispecie in esame dell’art. 90 del suddetto dPR numero 1229 del 1959. Lo S. non censura tale conclusione a cui è pervenuta la Corte d’Appello, ma prospetta che dalla stessa discenderebbe l’illegittimità del provvedimento del direttore generale del 2 luglio 1996 e del conseguente provvedimento di destituzione dal servizio del 27 agosto 2002. 8.1. Il motivo è inammissibile. Ed infatti, da un lato, come si è già detto nella trattazione del primo motivo del ricorso incidentale, questa Corte, a Sezione Unite, ha rigettato il secondo motivo di ricorso incidentale relativo alla sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in ordine al provvedimento del direttore generale del 2 luglio 1996 di attivazione del procedimento disciplinare nonché di sospensione dal servizio dall’altro, al rigetto del ricorso principale consegue la conferma dell’illegittimità del licenziamento, per le ragioni sopra esposte. Pertanto tale motivo del ricorso incidentale è assorbito dalle suddette statuizioni, con conseguente inammissibilità dello stesso. 9. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, numero 3, cpc, è dedotto error in iudicando , violazione e falsa applicazione dell’art. 24 del CCNL Comparto ministeri 1995-1198. 9.1. Il motivo, proposto in via subordinata in caso di accoglimento del primo motivo del ricorso principale, è assorbito in ragion del rigetto di quest’ultimo. 10. Con il quinto motivo del ricorso incidentale il ricorrente ripropone il quinto motivo di appello con il quale veniva dedotta l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge numero 97 del 2001 in relazione agli artt. 24 e 97 Cost. , rimasto assorbito. 11. Con il sesto motivo del ricorso incidentale il ricorrente ripropone il sesto motivo di appello con il quale si prospettava l’applicabilità dell’art. 55, comma VI, del d.lgs. numero 165 del 2001, ai fini dell’applicazione della sanzione disciplinare ridotta di sospensione temporanea dal servizio , rimasto assorbito. 12. Con il settimo motivo del ricorso incidentale il ricorrente ripropone il settimo motivo di appello relativo alla disposta sospensione cautelare dal servizio dal luglio 1996 che si concludeva a seguito della notifica del provvedimento di licenziamento , rimasto assorbito. 13. I suddetti motivi sono ciascuno inammissibile. La Corte d’Appello poneva a fondamento del disposto assorbimento dei motivi di appello sopra richiamati, la seguente motivazione. La riattivazione del procedimento disciplina non era intervenuta nel termine di 90 giorni previsto dall’art. 5, comma 4, della legge numero 97 del 2001, poiché l’atto del 27 marzo 2002 era invalido, con la conseguente invalidità degli atti successivi compreso quello conclusivo di licenziamento. L’avvenuto accertamento di tale vizio aveva valenza assorbente ed esonerava dal vaglio delle ulteriori censure di merito, oltre che della sollevata questione di legittimità costituzionale che diveniva non più rilevante. Incongrue, apparivano in proposito le richieste di disapplicazione degli atti formulate dall’appellante, in quanto trattasi non di atti di organizzazione, ma di gestione del rapporto a contenuto squisitamente privatistico, in relazione ai quali il G.O. può esercitare i consueti poteri costitutivi. Il quinto, il sesto ed il settimo motivo del ricorso incidentale ripropongono tout-court i motivi di appello assorbiti, senza censurare la motivazione posta dalla Corte d’Appello a fondamento dell’assorbimento, con conseguente inammissibilità degli stessi. Peraltro, va ricordato come con la sentenza numero 787 del 2016 le Sezioni Unite nell’affermare che la giurisdizione in ordine alla valutazione della legittimità del provvedimento di sospensione adottato dal ministero nel 1996 è del giudice amministrativo, hanno ritenuto non condivisibile la tesi dello S. secondo cui la domanda proposta dinanzi al giudice ordinario di disapplicazione del provvedimento del luglio 1996 in quanto l’atto e le relative questioni di legittimità sono anteriori al 30 giugno 1998 era stata proposta solo perché tale provvedimento costituiva primo moviens del procedimento disciplinare culminato con la sanzione espulsiva, perché vi era autonomia tra provvedimenti di sospensione e atto di recesso, sia quanto agli atti che quanto alle ragioni giuridiche degli stessi e alle questioni che si ponevano. 14. La Corte rigetta il ricorso principale. Il ricorso incidentale è rigettato quanto al primo motivo. I motivi 2, 5, 6 e 7 del ricorso incidentale sono dichiarati inammissibili. I motivi 3 e 4 del ricorso incidentale sono assorbiti. 15. In ragione della reciproca soccombenza le spese del giudizio di legittimità sono compensate tra le parti. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale. Il ricorso incidentale è rigettato quanto al primo motivo. I motivi 2, 5, 6 e 7 del ricorso incidentale sono dichiarati inammissibili. I motivi 3 e 4 del ricorso incidentale sono assorbiti. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.