Scontro in negozio, i testimoni smentiscono il direttore: niente licenziamento per la dipendente

Diversi gli addebiti mossi alla lavoratrice. In ballo anche uno scontro tra il responsabile della struttura e la madre della dipendente. Ma la ricostruzione fatta attraverso le parole di diversi testimoni fanno emergere la correttezza del comportamento tenuto in negozio dalla donna. Per lei, quindi, reintegra e risarcimento.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17776/2016, depositata l’8 settembre. Il caso. Madre e figlia polemiche nel negozio. Nessun problema commerciale, però, perché la donna più grande dà manforte alla ragazza che è una dipendente della struttura. Anche questo episodio, sommato ad altre situazioni conflittuali nel ‘punto vendita’, non rende giustificabile il licenziamento della lavoratrice. Decisive le testimonianze – anche di altri dipendenti – che smentiscono la ricostruzione fatta dal responsabile del negozio. Addebiti. Smentita completamente, sia in Tribunale che in Corte d’appello, la linea adottata dalla società proprietaria della struttura commerciale. Viene ritenuto Illegittimo, difatti, il licenziamento della dipendente, che, di conseguenza, ottiene la reintegra e un adeguato risarcimento . Fondamentali i dati istruttori di natura testimoniale da cui è stato possibile dedurre la falsità degli addebiti ascritti alla lavoratrice . In sostanza, è emerso non solo che i compiti affidati, cioè la sistemazione dei capi di abbigliamento nel ‘reparto uomo’, erano stati regolarmente svolti , ma anche che la donna si era allontanata dal posto di lavoro previa autorizzazione e che il malore che l’aveva colpita non era stato simulato , come testimoniato da certificazione medica . Infine, viene aggiunto che non vi sono prove né di un presunto incitamento da parte della lavoratrice alla propria madre ad inveire contro il direttore , né di un suo comportamento irriguardoso nei confronti del superiore gerarchico . Risarcimento . E ora, nonostante le obiezioni mosse dalla società, la vittoria della lavoratrice viene ribadita, in modo definitivo, dai magistrati della Cassazione. A loro avviso nessuna critica è possibile alle valutazioni compiute in Tribunale e in Corte d’appello, soprattutto alla luce della vicenda così come ricostruita grazie alle parole dei testimoni. E in questa ottica è ritenuta corretta anche la scelta di sancire la inattendibilità della testimonianza fornita dal direttore del negozio. Confermata, quindi, la reintegra . Ribadito poi anche l’obbligo della società a risarcire la dipendente. Su quest’ultimo fronte, in particolare, i magistrati sottolineano che la datrice di lavoro non ha dimostrato la negligenza della dipendente nel cercare un’altra occupazione di conseguenza, è impossibile la riduzione, richiesta dall’azienda, della cifra stabilita come risarcimento .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 giugno – 8 settembre 2016, numero 17776 Presidente Amoroso – Relatore Lorito Svolgimento del processo La Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza resa pubblica il 14/11/2013, confermava la pronuncia dei giudice di prime cure con cui era stato dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato in data 8/2/2008 da Piazza Pulita s.p.a. nei confronti di C. M., e condannata la società alla reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danno ex articolo 18 1.300/70 nella versione di testo applicabile ratione temporis. Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale osservava, per quanto in questa sede rileva, che gli addebiti ascritti alla dipendente e posti a fondamento dei provvedimento espulsivo irrogato, avevano rinvenuto smentita all'esito delle dichiarazioni rese dai numerosi testimoni escussi, la cui attendibilità era stata sottoposta ad attento scrutinio, essendo emerso a che i compiti affidati alla ricorrente sistemazione dei capi di abbigliamento nel reparto uomo , erano stati regolarmente svolti b che la lavoratrice si era allontanata dal posto di lavoro previa autorizzazione del capo area c che il malore che l'aveva colpita non era stato simulato, trovando riscontro nella certificazione medica versata in atti d che nessuna prova di un incitamento della c alla propria madre ad inveire contro il direttore era stata acquisita, non risultando dimostrato, del pari, che la ricorrente avesse tenuto un comportamento oltraggioso nei confronti del superiore gerarchico. Per la cassazione di tale decisione ricorre la società con sei motivi resistiti con controricorso dalla intimata. Motivi della decisione Con il primo motivo si denuncia omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio in relazione all'articolo 360 comma primo numero 5 c.p.c. Si lamenta che la Corte distrettuale abbia trascurato di valutare elementi fattuali atti a definire gli addebiti ascritti alla dipendente, e consistiti essenzialmente, nella arbitraria sospensione della prestazione lavorativa per fini personali mediante l'utilizzo di un bene aziendale telefono e nella insubordinazione ai proprio diretto superiore espressa anche mediante una serie di atteggiamenti irriguardosi. Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità. Al di là della modalità di stesura che lo connota, e che segue una linea già stigmatizzata da questa Corte con riferimento alla esposizione sommaria dei fatti della causa di cui ai cd. ricorsi farciti , cioè confezionati in modo tale da riprodurre integralmente gli atti dei pregressi gradi e i documenti ivi prodotti, tra di loro giustapposti con mere proposizioni di collegamento, e ritenuti carenti del requisito di cui all'articolo 366, numero 3 c.p.c. vedi ex plurimis, Cass. 22/2/2016 numero 3385, Cass.30/9/2014 numero 20589 , non può tralasciarsi di considerare che il motivo tende a conseguire una rivisitazione degli approdi ermeneutici ai quali è pervenuta la Corte, inammissibile in sede di legittimità anche alla luce dell'articolo 360 comma primo numero 5 c.p.c. nella versione di testo applicabile ratione temporis. La censura non appare, infatti, rispettosa dei dettami sanciti dall'articolo 360 numero 5, come novellato dal d.l. 22/6/12 numero 83 conv. in 1.7/8/12 numero 134, applicabile alla fattispecie ratione temporis. Nella interpretazione resa dai recenti arresti delle Sezioni Unite di questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'articolo 12 delle preleggi vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n,8053 , la disposizione va letta in un'ottica di riduzione al minimo costituzionale dei sindacato di legittimità sulla motivazione. Scompare, quindi, nella condivisibile opinione espressa dalla Corte, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta quello sull'esistenza sotto il profilo dell'assoluta omissione o della mera apparenza e sulla coerenza sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione dei vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dai testo della sentenza impugnata. II controllo previsto dal nuovo numero 5 dell'articolo 360 cod. proc. civ. concerne, quindi, l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo. L'omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l'omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti. Applicando i suddetti principi alla fattispecie qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che tramite la articolata censura, la parte ricorrente, contravvenendo ai detti principi, sollecita un'inammissibile rivalutazione dei dati istruttori acquisiti in giudizio, esaustivamente esaminate dalla Corte territoriale, auspicandone un'interpretazione a sè più favorevole, non ammissibile nella presente sede di legittimità. Lungi dal denunciare una totale obliterazione di fatti decisivi che potrebbero condurre ad una diversa soluzione della controversia ovvero una manifesta illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune od ancora un difetto di coerenza tra le ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi, si limita a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti. Tali aspetti dei giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento dei giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo ditale convincimento rilevanti ai sensi del novellato articolo 360, co. 1, numero 5, c.p.c Va al riguardo rimarcato che lo specifico iter motivazionale seguito dai giudici dell'impugnazione non risponde ai requisiti dell'assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l'esercizio del sindacato di legittimità. La fattispecie concreta è stata, infatti, oggetto di approfondita disamina da parte della Corte territoriale che - come riferito nello storico di lite - facendo leva sui dati istruttori di natura testimoniale acquisiti in atti, è pervenuta all'accertamento della insussistenza degli addebiti ascritti alla lavoratrice all'esito di una compiuta disamina del quadro probatorio delineato in prime cure. Si tratta di un percorso argomentativo che, congruo e completo, resiste alla censura all'esame. Con il secondo mezzo di impugnazione, si deduce nullità della sentenza ai sensi dell'articolo 360 numero 4 c.p.c. per avere la Corte di merito aprioristicamente delibato in ordine alla inattendibilità del teste P., traducendosi detta valutazione, in violazione delle regole procedurali. La censura si palesa inammissibile, in quanto introdotta mediante disposizione articolo 360 numero 4 c.p.c. non appropriata. Il ricorso a tale strumento di impugnazione presuppone la denuncia di un vizio di attività, che sia determinato da erronea applicazione della legge processuale e sia idoneo a determinare la nullità dell'atto e di tutti quelli successivi dipendenti, sino alla sentenza. Orbene, nello specifico, la ricorrente intende muovere una critica in ordine alla valutazione sulla inattendibilità dei testimone A. P. superiore gerarchico della c disposta dal giudice dell'impugnazione, secondo modalità che, all'evidenza, esulano dal mezzo di impugnazione utilizzato, non risultando vulnerata alcuna disposizione di ordine processuale del resto, neanche indicata dalla società . Detta critica ridonda, invece, in termini di vizio di motivazione ex articolo 360 comma primo numero 5 c.p.c. Ed invero, la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull'attendibilità dei testimoni - oggetto della presente doglianza - come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili cfr. Cass. 23/5/2014 numero 11511, Cass. 7/1/2009 numero 42 . Né, sotto altro versante, può ritenersi validamente impugnata tale statuizione dei giudice dell'impugnazione, per violazione e falsa applicazione dell'articolo 246 c.p.c. in riferimento all'articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c., giacchè, secondo l'orientamento tracciato da questa Corte, e che va qui ribadito, la valutazione della sussistenza o meno dell'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell'articolo 246 cod. proc. civ., è rimessa - così come quella inerente all'attendibilità dei testi e alla rilevanza delle deposizioni - al giudice dei merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se -come nella specie - risulta congruamente motivata. Cass.4/6/2007 numero 12947, Cass. 19/1/2007 numero 1188 . Con la quarta censura è dedotta violazione dell'articolo 360 numero 5 c.p.c. per omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, costituito dalle ingiurie e minacce profferite dalla lavoratrici nei confronti dei superiore sig.P. e nell'aver aizzato contro di lui la propria madre. Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c. in relazione all'articolo 360 numero 3 c.p.c. per aver negato che il comportamento assunto alla lavoratrice, la quale aveva assistito alle minacce anche di morte, indirizzate dalla madre al proprio superiore, fomentando il suo atteggiamento aggressivo, non costituisse comportamento rilevante ai fini della giusta causa di licenziamento. I motivi, che possono congiuntamente esamina siccome connessi, vanno disattesi. Essi tendono a pervenire, anche a mezzo della denuncia dei vizio di violazione di legge, ad una rivalutazione del quadro probatorio delineato in prime cure, come elaborato dalla Corte territoriale. La violazione di legge viene infatti dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura attiene al vizio di motivazione, mirando a pervenire inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione, nel merito, dei fatti di causa elaborata dai giudici del gravame che è inibita nella presente sede di legittimità, giacchè l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito cfr. Cass. 16/7/2010 numero 16698, cui adde Cass. 18/11/2011 numero 24253, Cass. 16/09/2013 numero 21099 e, da ultimo, Cass. 11/1/2016 numero 195 . Tali aspetti del giudizio, come già rilevato in relazione ai primo motivo di ricorso, attengono al libero convincimento dei giudice e nAn assumono rilevanza in questa sede di legittimità, ai sensi dei novellato disposto di cui all'articolo 360, co. 1 numero 5, c.p.c Con il sesto motivo si deduce nullità della sentenza in relazione all'articolo 360 numero 4 c.p.c. per omesso esame dei motivo di appello concernente l'aliunde perceptum e 1 aliunde percipiendum. Il motivo va disatteso. In via di premessa va considerato che, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata dei processo ex articolo 111, comma secondo, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell'attuale articolo 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi, qualora sia riscontrabile l'omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di legittimità può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello determinando l'inutilità di un ritorno della causa in fase di merito , sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti di fatto vedi Cass. 28/10/2015 numero 21968, Cass. 11/11/2014 numero 23989 Cass. 11/4/2012 numero 5729, Cass. 1/2/2010 numero 2313 . Orbene, nello specifico ricorre proprio siffatta situazione. La ricorrente, infatti, ha criticato la sentenza impugnata per avere omesso di scrutinare i motivi di appello rubricati sub. 15 e 16, con i quali si era limitata a dedurre che erroneamente il giudice di primo grado aveva disatteso l'eccezione, formulata nella memoria difensiva di costituzione, di aliunde perceputm, nonché le richieste istruttorie finalizzate a provare il percepimento di redditi da lavoro da parte della c, così come l'eccezione di aliunde percipiendum ai sensi dell'articolo 1227 c.c., nonostante la lavoratrice non avesse provato di essersi iscritta al Centro per l'impiego, né di essersi attivata nella ricerca di una nuova occupazione. Ha chiesto, quindi, l'assunzione di informazioni ex articolo 210, 213 e 421 c.p.c., in relazione ai redditi da lavoro eventualmente da quest'ultima percepiti nel periodo successivo al licenziamento. Benchè la lacuna censurata sia effettivamente riscontrabile nella pronuncia qui scrutinata, non può prescindersi dal rilievo che l'incedere argomentativo seguito dalla ricorrente in sede di gravame, non è consono ai principi affermati da questa Corte secondo cui, in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell'aliunde perceptum o dell'aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che, il lavoratore abbia l'onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva dei danno patito cfr. Cass. 12/5/2015 numero 9616, Cass. 17/11/2010 numero 23223 . Ai fini della sottrazione dell'aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute, è, quindi, necessario che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di'altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte provenga la prova, che il lavoratore ha trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, tale essendo il fatto idoneo a ridurre l'entità del danno risarcibile in tali sensi, vedi Cass. 1/9/2015 numero 17368, Cass. 10/4/2012 numero 5676 . Siffatti oneri non risultano adempiuti dalla società su cui gravavano, giacchè critiche formulate alla sentenza di primo grado si sono concretate in una mera allegazione di circostanze, peraltro del tutto generiche, che non rispondono ai principi in tema di ripartizione degli oneri probatori testè riportati. In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto. Per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore dell'avv, B.I Si dà atto, infine, della sussistenza delle condizioni richieste dall'articolo 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, per il versamento da parte ricorrente, a titolo di contributo unificato, dell'ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge da distrarsi in favore dell'avv. B.I Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater d.p.r. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dei comma 1 bis .dello stesso articolo 13.