Dà del “barbone” all’amministratore delegato: licenziata

Scontro provocato dalla richiesta di restituzione di un rimborso pagato due volte alla lavoratrice. Eccessiva e offensiva la reazione della donna. Legittimo il provvedimento drastico adottato dall’azienda.

Parole grosse in azienda. Strali verbali della dipendente contro l’amministratore delegato, apostrofato come barbone”. Consequenziale il licenziamento della lavoratrice. Cassazione, sentenza n. 5523/16, sezione Lavoro, depositata oggi . Rimborso. Pomo della discordia è un rimborso spese . Nello specifico, l’amministratore delegato della società – proprietaria di una concessionaria d’automobili di lusso – chiede alla dipendente la restituzione di 50 euro , rimborsatale due volte, per errore, a titolo di spese per carburante . Imprevedibile e fuori dall’ordinario il comportamento della lavoratrice, che, dinanzi al cassiere della società , risponde così Così si va a comprare un gelato, ‘sto c ne ‘sto barbone di m da”. Per l’azienda c’è una sola scelta allontanare la dipendente per gli epiteti ingiuriosi utilizzati nei confronti dell’amministratore delegato. E questa drastica decisione viene ritenuta corretta dai giudici di merito confermato, quindi, il licenziamento , prima in Tribunale e poi in Corte d’appello. Offese. Nessun dubbio per i giudici di secondo grado ricostruito l’episodio, la condotta della lavoratrice è ritenuta particolarmente grave , alla luce della oggettiva portata diffamatoria delle espressioni utilizzate. E tale visione è condivisa anche dai magistrati della Cassazione. Ciò comporta, ovviamente, la conferma definitiva del licenziamento . Indiscutibile la gravità del comportamento della donna, tale da costituire giusta causa di licenziamento . Su questo fronte, in particolare, viene evidenziata la pesantezza dell’ insulto rivolto all’amministratore delegato. E allo stesso tempo appare evidente la assenza di giustificazioni per la lavoratrice, che si stava finalmente conformando, alla seconda richiesta, ad adempiere ad una restituzione dovuta . Per chiudere il cerchio, infine, i giudici tengono anche a sottolineare che le parole pronunciate ‘a freddo’ dalla dipendente non possono essere, in questo caso, fatte rientrare nell’ esercizio del diritto di critica delle decisioni aziendali .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 dicembre 2015 – 21 marzo 2016, n. 5523 Presidente Stile – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo Con la sentenza n. 791 pubblicata il 29.7.2014, la Corte d'appello dì Torino rigettava il reclamo proposto da F.L. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva confermato l'ordinanza resa in sede di cognizione sommaria nel procedimento ex art. 1 commi 48 ss. della L. n. 92 del 2012 e rigettato il ricorso proposto al fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità dei licenziamento irrogatole con lettera del 18.6.2013 dalla s.p.a. Idea uno, a seguito di contestazione disciplinare con la quale le si addebitava di avere utilizzato davanti al cassiere della società epiteti ingiuriosi nei confronti dell'amministratore delegato sto barbone di merda così si va a comprare un gelato sto coglione che le aveva richiesto la restituzione della somma di 50 euro rimborsata due volte per errore a titolo di spese di carburante, con l'aggravante della recidiva. La Corte argomentava che l'oggettività dei fatti contestati, come accertata dal giudice dell'urgenza e ritenuta anche in sede dì opposizione, non potesse essere messa in dubbio. Gli elementi dei caso concreto rendevano la condotta ascritta alla lavoratrice particolarmente grave, stante l'oggettiva portata diffamatoria delle espressioni adottate, che la facevano rientrare nella previsione dell'articolo 225 del contratto collettivo, ovvero l’avere tenuto una condotta non conforme ai civici doveri. Le modalità con cui gli insulti erano stati proferiti, di fronte ad altri dipendenti in relazione ad una richiesta dei tutto ragionevole e legittima, rendevano la sanzione adeguata, anche sulla scorta di una recidiva costituita da quattro diversi provvedimenti disciplinari nel biennio che non erano mai stati impugnati. Per la cassazione della sentenza F.L. ha proposto ricorso, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso Idea uno s. p. a. Motivi della decisione 1. Come primo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto e/o contratto collettivo con riferimento all'articolo 2119 c.c., agli articoli 18 della L. n. 300 del 1970 e n. 225 e 229 del CCNL del terziario, nonché omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. Contesta la ricostruzione dei fatti sposata dalla Corte d'appello e sostiene che le risultanze di causa configurino una normale conversazione confidenziale tra due colleghi. 2. Come secondo motivo lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché del contratto collettivo anche con riferimento all'articolo 2119 del codice civile, dell'articolo 18 della legge 300 dei 1970 e degli articoli 225 e 229 del contratto collettivo nazionale di lavoro dei terziario e sostiene che alcuna insubordinazione sarebbe ravvisabile nel comportamento posto in essere, considerato che l'espressione usata non può essere ritenuta al di fuori dei normali civici doveri e pertanto non rientrerebbe nella previsione di cui all'articolo 225 del contratto collettivo, tenuto conto dell'assenza totale di toni irosi, minacciosi o di contrasto, dell'assenza di soggetti esterni all'azienda in grado di percepire l'espressione, della mancanza di dipendenti che attestino di aver ascoltato l'espressione al di là dei compiacente teste Z., dell'assenza di prova di aver percepito l'espressione in capo all'amministratore delegato che, pur essendo presente ai fatti, nulla ha riferito in giudizio al riguardo. Lamenta che la Corte d'appello non avrebbe considerato al fine di ritenere la gravità dell'addebito la tipologia del rapporto di lavoro tra le parti ed il correlato grado di fiducia, e che quindi non avrebbe motivato in ordine all'ipotizzata lesione della fiducia riposta dal datore di lavoro, né alla presenza di un notevole inadempimento agli obblighi contrattuali tale da non consentire in alcun modo la prosecuzione del rapporto di lavoro. 3. 1 due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati. 3.1. Occorre qui ribadire che la giusta causa di licenziamento, così come il giustificato motivo, costituisce una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con disposizioni ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge Cass. n. 8367 del 2014, Cass. n. 5095 del 2011 . 3.2. Nei caso, come anticipato nello storico di lite, la Corte d'appello ha desunto la gravità dell'addebito e la sua idoneità a costituire giusta causa di licenziamento da una serie di circostanze, quali in particolare la gravità dell'insulto rivolto al superiore gerarchico, la sostanziale assenza di giustificazioni in capo alla lavoratrice, che si stava finalmente conformando, alla seconda richiesta, ad adempiere ad una restituzione dovuta, la pronuncia a freddo delle parole di fronte ad un collega estraneo ad ogni ragione di malanimo ed infine la ricomprensione della fattispecie non nell'ipotesi dell'insubordinazione di cui all'art. 229 del CCNL, ma nella condotta prevista come giusta causa dall'art. 225,, oltre alla recidiva reiterata formalmente contestata. 3.3. Tale valutazione non si pone in contrasto con i consolidati standard valutativi, considerato che questa Corte ha già affermato che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita art. 2 Cost. , di tutela della persona umana, sicché, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione Cass. n. 7091 del 24/05/2001 . La stessa contrattazione collettiva applicabile inoltre ha ricompreso la condotta non conforme ai civici doveri tra le ipotesi di giusta causa di licenziamento e nel caso la valutazione di gravità è stata corroborata dalla valutazione della recidiva. 3.4. Né la ricostruzione della condotta idonea a costituire giusta causa, puntualmente effettuata dalla Corte di merito con riferimento a tutte le emergenze fattuali, è utilmente revocata in dubbio dalla ricorrente. In primo luogo, infatti, la disciplina speciale prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 28 giugno 2012, n. 92, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa dei licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, va integrata con quella dell'appello nel rito del lavoro. Ne consegue l'applicabilità, nel giudizio di cassazione, anche del quinto comma dell'art. 348 ter cod. proc. civ, applicabile ai giudizi d'appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione a far data dal 11 settembre 2012, come chiarito da Cass. n. 26860 del 18/12/2014 , il quale prevede che la disposizione contenuta nel precedente comma quarto - ossia l'esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 cod. proc. civ. - si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348 bis, secondo comma, lett. a , anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado cosiddetta doppia conforme Cass. n. 23021 del 29/10/2014 . Nel caso, poichè la ricostruzione delle emergenze probatorie effettuata dal Tribunale è stata confermata dalla Corte d'appello, la ricorrente in cassazione, per evitare l'inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., avrebbe dovuto indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse Cass. n. 5528 dei 10/03/2014 . Ciò nel caso non è stato fatto, ed anzi a pg. 7 della motivazione la Corte d'appello afferma espressamente che l'oggettività dei fatti accertata dal giudice dell'urgenza e ritenuta dal giudice dell'opposizione non può essere rimessa in dubbio. 3.5. Inoltre, la sollecitata rivisitazione del materiale istruttorio è inammissibile nel giudizio di legittimità, specie considerato che al presente giudizio si applica ratione temporis la formulazione dell'art. 360 comma i n. 5 c.p.c. introdotta dall'art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha ridotto al minimo costituzionale il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 2014, in considerazione dell'articolata motivazione della Corte d'appello, che ha esaminato tutti gli aspetti della questione. 4. Segue il rigetto dei ricorso, con la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo. In considerazione della data di notifica dei ricorso, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al primo periodo dell'art. 13, comma quater, dei d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dal comma 17 dell'art. 1 della Legge 24 dicembre 2012, n. 228, ai fini del raddoppio del contributo unificato per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese dei giudizio, che liquida in complessivi € 3.500,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi ed accessori di legge. Ai sensi dell' art. 13, comma 1 quater, dei D.P.R. n. 115 dei 2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.