Il lavoratore lamenta un demansionamento: il datore di lavoro deve fornire la prova a sua discolpa

In materia di demansionamento o dequalificazione , il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia ed ha, quindi, l'onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell'esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall'interessato, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo.

Principio affermato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro con la sentenza n. 25780, pubblicata il 22 dicembre 2015 La vicenda esaminata impugnazione di licenziamento e domanda di risarcimento danni conseguenti a demansionamento subito dal lavoratore. Un lavoratore inquadrato con qualifica di quadro, responsabile di vendita di veicoli commerciali, adiva il Tribunale del lavoro, impugnando il licenziamento adottato dall’azienda, domandando l’accertamento del demansionamento rispetto al livello di inquadramento e chiedendo la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno derivante dal licenziamento illegittimo e dall’adottato demansionamento. Il Tribunale accertava la dedotta dequalificazione, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno derivante, e dichiarava illegittimo il licenziamento per genericità della motivazione, con conseguente applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. il datore di lavoro proponeva appello avverso la sentenza di primo grado e la Corte d’Appello confermava il demansionamento, rivedeva, per difetto, l’ammontare del danno liquidato e confermava l’illegittimità del licenziamento L’azienda ricorreva in Cassazione. L’onere della prova in ambito di demansionamento. L’azienda ricorrente censura la decisione dei giudici di merito poiché non avrebbe effettuato un corretto raffronto tra mansioni svolte precedentemente e nuove ed inoltre avrebbe dato rilievo a circostanze di fatto dalle quali non emergerebbe in concreto un demansionamento. La Suprema Corte ritiene infondati i motivi proposti. Afferma prima di tutto che in tema di controversia per lamentato demansionamento, il lavoratore è tenuto ad allegare gli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo. Rimanendo a carico di quest’ultimo l’onere di fornire la propria della correttezza del proprio operato. Non solo divieto di demansionamento ma anche di dequalificazione. Prosegue il Supremo Collegio affermando che nel rapporto di lavoro non vi è solo un divieto di demansionamento dei lavoratore, ossia divieto di attribuzione di mansioni inferiori alle pregresse, ma prima ancora un divieto di dequalificazione, ossia di attribuzione di mansioni inferiori alla qualifica l'articolo 2103 del codice civile infatti prevede non solo il diritto a svolgere mansioni non inferiori alle ultime svolte, ma prima ancora il diritto dei lavoratore di vedersi assegnate le mansioni per le quali è stato assunto, ossia proprie della qualifica pattuita. Dimostrato il demansionamento. Nel caso deciso le risultanze dell’istruttoria effettuata hanno dato conferma dei comportamenti del datore di lavoro lamentati dal ricorrente e d’altro canto il primo non aveva fornito in giudizio prove concrete circa la mancanza di dequalificazione, né aveva contestato in forma specifica le allegazioni di fatto del lavoratore. Inoltre, osserva la Corte, se il dipendente non viene posto in condizioni di operare efficacemente, a nulla possono valere formali modifiche migliorative apportate alla prestazione. Ciò viene ad avere rilevanza anche nel dare conferma della genericità e pretestuosità delle motivazioni addotte al licenziamento intimato, in cui venivano indicate mancanza di collaborazione, assenza di attività lavorativa, mancata produzione di rapporti”. Inammissibile in sede di legittimità la rivalutazione delle risultanze di causa. Da ultimo i giudici di legittimità evidenziano come le censure mosse dal ricorrente alla sentenza di merito, per ciò che concerne la valutazione degli effetti delle modifiche alla prestazione lavorativa, come risultante dagli atti e documenti di causa, si risolvono in una nuova valutazione del merito della causa. Richieste dunque di rivalutazione del fatto, inammissibili in sede di legittimità. Nel caso in esame la Corte d’appello ha correttamente esaminato i criteri presi a fondamento della propria decisione, dando corretta ed esaustiva motivazione, immune da vizi logici. E’ seguito il rigetto del ricorso proposto.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 ottobre – 22 dicembre 2015, numero 25780 Presidente Venuti – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo La Corte d'appello di Roma, con la sentenza numero 29589 del 2012, confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva ritenuto che M.M., dipendente di I.W.R. - Italwagen Roma s.r.l. con qualifica di quadro del contratto collettivo del terziario, responsabile di vendita di veicoli commerciali, nel periodo dal 17 giugno 2002 al 6 ottobre 2003 avesse subito un/ demansionamento, con sostanziale rimozione dalla precedente posizione lavorativa riducendo l'importo riconosciuto dal Tribunale, limitava il risarcimento richiesto al solo danno patrimoniale, liquidato nella misura di € 9994,44. La Corte riferiva che i testi escussi avevano confermato che nella primavera del 2002, nel corso di una riunione dei venditori di veicoli commerciali della IWR, era stato loro comunicato che il referente non sarebbe più stato il M. bensì il collega G.C. inoltre, una volta trasferito presso il punto vendita di Corso Francia prima e poi di via Prenestina, il M. era rimasto sostanzialmente inattivo perché in tali punti vendita non poteva contare su un adeguato numero di venditori e non vi era disponibilità sufficiente di veicoli commerciali infine, i locali di via Prenestina non erano stati mai ristrutturati per renderli idonei ad un'adeguata attività di vendita. Confermava altresì la sentenza del Tribunale che aveva annullato il licenziamento irrogato con lettera del 6 ottobre 2003, con le conseguenze di cui all'art. 18 della L.numero 300 del 1970, ritenendo la genericità della contestazione di addebito che l'aveva preceduto, riferita ali' assoluta mancanza di collaborazione, l'assenza di concreta attività lavorativa, il mancato assolvimento dei compiti d' istituto, la mancata produzione di rapporti, relazioni e piani di lavoro senza ulteriori specificazioni, nonché alla recidiva, della quale difettava il presupposto. Per la cassazione della sentenza I.W.R. - Italwagen Roma s.r.l. ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi, cui ha resistito con controricorso M.M Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione 1. I motivi di ricorso possono essere così riassunti 1.1. Con il primo e secondo motivo, sotto i profili della violazione e falsa applicazione dell'articolo 2103 del codice civile e del vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia incentrato la motivazione soltanto su alcuni aspetti delle mansioni svolte precedentemente al cambio di lavoro verificatosi nel 2002, e non abbia indagato in ordine al nuovo incarico affidato, né effettuato la comparazione tra i vecchi e i nuovi compiti. La Corte non avrebbe infatti tenuto conto del fatto, risultante dalla lettera di IWR del 101712002 che deposita, che almeno a decorrere da tale data al M., inquadrato come quadro e sino ad allora adibito a mansioni di responsabile vendite VIC , era stato affidato 1' incarico di responsabile di una nuova forza vendite dell'area veicoli industriali e commerciali, con competenza esclusiva sul territorio di via Cassia, con una nuova collocazione organizzativa e gerarchica non più dipendente dalla direzione amministrativa, ma coordinato dalla direzione commerciale e direttamente rispondente all'amministratore unico , con allocazione logistica presso la sede di corso Francia, pur prevedendosi già in una logica migliorativa e di potenziamento del settore un ulteriore spostamento nella nuova sede di via Cassia. 1.2. Come terzo motivo, lamenta l' ulteriore violazione dell'articolo 2103 del codice civile laddove la Corte ha valorizzato circostanze fattuali dalle quali non emergerebbe alcun concreto ed effettivo demansionamento, né dequalificazione professionale, considerato che la riunione dei venditori tenutasi nel 2002 avrebbe avuto lo stesso contenuto anche in caso di promozione del M. ad incarico superiore la sua asserita inattività e la mancata ristrutturazione dell'ufficio di nuova destinazione evidenzierebbero semmai un problema pratico di esecuzione del nuovo lavoro, ma non automaticamente una non equivalenza ed inferiorità rispetto al vecchio. 1.3. Come quarto motivo, lamenta il vizio di motivazione nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale laddove ha qualificato come generici gli addebiti posti a base del licenziamento, a fronte delle indicazioni fattuali ben specificate nella contestazione e determinate nel tempo, idonee a consentire il pieno esercizio del diritto di difesa. Il richiamo alla recidiva poi non si riferiva a precedenti disciplinari già sanzionati, ma al ripetersi nel tempo dei comportamenti omissivi. 1.4. Come quinto motivo, deduce la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda di rideterminazione della retribuzione mensile da prendere a base risarcimento del danno, questione che era stata riproposta nell'atto d'appello laddove si evidenziava che la sentenza del Tribunale aveva indicato la retribuzione di riferimento in ê 3.400,00 mentre la retribuzione ultima vantata dal lavoratore e richiesta in ricorso era di 9 2.000,00 lordi al mese, come da prospetti paga in atti. 2. I primi tre motivi di ricorso, da valutarsi congiuntamente in quanto attengono all'accertamento del demansionamento operato dalla Corte territoriale, non sono fondati. 2.1. La Corte di merito, come esposto nella narrativa, ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto che il M. dopo il giugno 1992 fosse stato dequalificato professionalmente, con il sostanziale impoverimento delle mansioni precedentemente affidate, per essere stato egli privato dal team dei venditori, assegnato ad una sede inidonea ' priva dei veicoli commerciali da promuovere, il che ne aveva determinato una sostanziale inattività. Tali circostanze erano del tutto idonee a configurare una violazione dell'ari. 2013 c.c., a mente del quale il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o ad altre equivalenti, tenuto altresì conto che la situazione descritta si è protratta per un anno e quattro mesi, sicché non poteva ritenersi solo determinata dalla necessità di adeguare la struttura ai nuovi compiti affidati al dipendente. Né sono stati allegati dalla società, in sede di merito ed ancora nel ricorso di legittimità, elementi idonei a contrastare tali evidenze. 2.2. Deve in proposito premettersi che, in applicazione dei principi affermati in generale dalle Sezioni Unite di questa Corte sent.30/1012001 numero 13533 e ribaditi dalla sezione Lavoro nello specifico tema che ci occupa Cass. Sez. numero 4766 del 2006, numero 15527 del 2014 e numero 18223 del 2015 , quando il lavoratore denuncia l'illegittimità dell'esercizio dello ius variandi a causa di demansionamento o dequalifcazione, ha l'onere di allegare gli elementi di fatto significativi circa l'inesatto adempimento dell'obbligo di adibizione a mansioni corrispondenti alla categoria e qualifica di appartenenza o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte art. 2103 cod. civ. al datore di lavoro incombe invece l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari ovvero, in base al principio generale di cui aIl'art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. 2.3. Nel caso in esame, una volta emerse le risultanze fattuali che deponevano nel senso della sussistenza del demansionamento, nessuna circostanza la società ha dedotto e dimostrato in senso contrario, considerato che tale non può considerarsi di per sé il realizzato mutamento di mansioni, considerato che se il dipendente non era posto in effetti in condizione di operare efficacemente, a nulla potevano valere le formali modifiche migliorative apportate alla prestazione. 2.4. Sotto il lamentato profilo del vizio di motivazione, poi, t ricorrente si limita a proporre la propria lettura degli atti e dei documenti che sono già stati esaminati dalla Corte d'appello, la cui analisi è stata precisamente incentrata sugli effetti delle modifiche della prestazione lavorativa determinatisi a far data dal giugno 2002 in tal modo, si chiede quindi a questa Corte di riesaminare tutte le risultanze richiamate, cercando in esse i contenuti che potrebbero essere rilevanti nel senso patrocinato. Quella che si sollecita in sostanza è una nuova completa valutazione delle risultanze di causa, inammissibile in questa sede, considerato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi così da ultimo tra le tante Cass. numero 22065 deI 2014, Cass. numero 27197 del 2011 . 3. Il quarto motivo è inammissibile. , La censura, proposta come vizio di motivazione, critica la valutazione operata dalla Corte territoriale del contenuto della contestazione disciplinare, senza censurare l'applicazione della disciplina legale ermeneutica adottata, né denunciare la violazione di legge con riferimento alla sussunzione della fattispecie nell'ambito della disciplina dei vizi del procedimento disciplinare. Si chiede quindi ancora una volta la rinnovazione del giudizio di merito operato nella sentenza gravata, che questa Corte non può compiere' per i limiti connessi al giudizio di legittimità, considerato che la motivazione del giudice di merito è in proposito completa e articolata, né vengono prospettate circostanze di fatto che sarebbero state ignorate o travisate. 4. Parimenti infondato è il quinto motivo. La questione avente ad oggetto la retribuzione presa a base di riferimento per il calcolo dell'indennità risarcitoria è stata infatti esaminata dalla Corte capitolina nel secondo capoverso di pg. 5, e rigettata con riferimento alle risultanze delle documentazione in atti, attestante quanto corrisposto al lavoratore. Tali argomentazioni non sono state peraltro adeguatamente confutate, né le buste paga sono state riprodotte nel ricorso, né allegate allo stesso, né se ne indica la collocazione in atti, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute negli artt. 366, co.1, numero 6 e 369, co. 2, numero 4 cod. proc. civ. 5. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del soccombente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, con distrazione in favore dei difensori in virtù della dichiarata anticipazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 3.000,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi ed accessori di legge, con distrazione in favore dei difensori.