Quando «interpretare» è sinonimo di «inventare»: la Cassazione estende il repechage alle mansioni inferiori

L’art. 2103 c.c. va interpretato nel senso che, nei casi di legittime scelte imprenditoriali comportanti interventi di ristrutturazione aziendale, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse - ed anche inferiori – a quelle precedentemente svolte, senza modifica del livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile se essa rappresenta l’unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per motivo oggettivo.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23698, depositata il 19 novembre 2015. Il caso. La Corte d’Appello di Brescia, confermando la pronuncia di primo grado, dichiarava l’illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo comunicato da una società ad un proprio dipendente. I Giudici di merito ritenevano infatti che, a fronte della soppressione del posto di lavoro occupato dal dipendente, la società non avesse offerto a quest’ultimo il reimpiego nelle mansioni inferiori di responsabile dell’ufficio acquisti, resosi vacante in epoca di poco precedente al licenziamento. Contro tale sentenza la società ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi. Quando l’art. 2103 dice nullità intende derogabilità . In particolare, la ricorrente lamentava innanzitutto la violazione dell’art. 3 della L. n. 604/1966 e dell’art. 2103 c.c. atteso che, contrariamente a quanto affermato dai Giudici di merito, l’obbligo di repechage che la gravava non poteva essere esteso sino alla verifica sull’esistenza di mansioni inferiori a quelle da ultimo svolte dal dipendente. Motivo che tuttavia, sulla base del principio esposto in massima, non viene condiviso dalla Corte. Ritiene infatti la Cassazione di dare continuità giuridica al proprio – più che minoritario – orientamento, per il quale l’art. 2103 c.c. deve essere interpretato alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto . L’effetto di tale bilanciamento è, ad avviso della Corte, l’inesistenza di una violazione della norma codicistica tutte le volte in cui l’assegnazione alle mansioni inferiori perentoriamente qualificata dall’art. 2103 c.c. come nulla sia funzionale ad evitare il licenziamento. Questa ricostruzione sarebbe avallata da varie fonti. Ad avviso della stessa Corte, inoltre, questa conclusione sarebbe il condizionale è d’obbligo in coerenza con la ratio sottesa a numerosi interventi normativi - peraltro tutti riferiti a fattispecie affatto peculiari che, ad avviso di chi scrive, altro non fanno che confermare la regola generale espressa dalla lettera dell’art. 2103 c.c. e salve le ipotesi di novazione da tempo individuate dalla giurisprudenza - ultimo dei quali la modifica apportata dal c.d. Jobs Act . Nemmeno servirebbe il consenso del lavoratore. Ma v’è di più. Ad avviso della Corte, a questi fini nemmeno sarebbe necessario un patto di demansionamento ovvero una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o coeva al licenziamento come invece riteneva, condivisibilmente, la maggior parte delle - davvero poche - sentenze che autorizzavano il repechage su mansioni inferiori , atteso che in questo scenario sarebbe onere del datore di lavoro, proprio in attuazione dei principi di correttezza e buona fede [ ] rappresentare al lavoratore la possibilità di un’assegnazione a mansioni compatibili ancorché inferiori, ndr con il suo bagaglio professionale . Quando il diritto diventa opinione. La Corte, infine, accoglie il ricorso della società, pur in relazione ad altri – condivisibili – motivi. Riteniamo tuttavia di soffermarci sul principio poc’anzi esposto in quanto, ad avviso di chi scrive, sintomatico di un’aleatorietà del diritto incompatibile con un sistema asseritamente civile. E’ noto, infatti, che l’obbligo di repechage è di per sé frutto di una, pur coerente, invenzione giurisprudenziale. Che ora quest’obbligo venga esteso – peraltro senza nemmeno il consenso del dipendente - a mansioni inferiori è francamente grottesco, tanto più alla luce di una norma codicistica che perentoriamente qualifica l’assegnazione a mansioni inferiori come nulla . Ancor più grottesco è poi che, senza ritenere necessario il consenso del dipendente o una sua preventiva manifestazione di volontà in tal senso, la stessa Corte stia di fatto arrogando a sé prerogative del legislatore, che è recentemente intervenuto in materia modificando l’art. 2103 c.c. . Insomma l’impressione di chi scrive è che, più che applicare in maniera rigorosa una norma di legge, la Cassazione sia stata mossa da quello che la più autorevole dottrina ha definito pietismo giuridico , il quale, tuttavia, non può certo giovare ad un paese che, oggi più che mai, ha necessità di soluzioni certe e valide sempre e per tutti.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 ottobre – 19 novembre 2015, n. 23698 Presidente/Relatore Napoletano Svolgimento del processo La Corte di Appello Brescia, confermando la sentenza Tribunale di Brescia, accoglieva l'impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a B.G. dalla Biticino S.p.A A fondamento del decisimi, e per quello che interessa in questa sede,la Corte di Appello poneva il fondante rilievo secondo il quale, la società, a fronte della soppressione,a seguito della riorganizzazione aziendale, del posto di lavoro occupato dal B. non aveva allo stesso offerto il reimpiego nelle mansioni inferiori di responsabile dell'ufficio acquisti ancorché resosi vacante in epoca di poco precedente al licenziamento. Avverso questa sentenza la società in epigrafe ricorre in cassazione sulla base di quattro censure, illustrate da memoria. Resiste con controricorso la parte intimata. Motivi della decisione Con il primo motivo la società ricorrente, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 della legge n. 604 del 1966 e 2013 cc, sostiene che la Corte ha erroneamente ritenuto illegittimo il licenziamento sulla base dell'errato assunto che l'azienda dovesse fornire la prova dell'assenza di posti aventi ad oggetto mansioni inferiori. Con la seconda censura la società ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2013, 1375 e 1175 cc, assume che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che fosse onere dell'azienda prospettare al lavoratore uno spostamento in mansioni inferiori mentre in realtà era il lavoratore che avrebbe dovuto offrire la propria disponibilità. Con la terza critica la società ricorrente,allegando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 41 Cost. e 30, comma 1, della legge 183 del 2010, rileva che la Corte distrettuale, nel qualifica illegittimo il licenziamento ancorché non vi fossero mansioni equivalenti o inferiori da assegnare al lavoratore al momento del suo licenziamento, è entrata, erroneamente nel merito delle scelte aziendali effettuate prima del licenziamento. Con la quarta censura la società ricorrente,asserendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 41 Cost., 2103, 1375 e 1175 cc, critica la sentenza impugnata per aver la Corte territoriale imposto al datore di lavoro scelte imprenditoriali che l'avrebbero obbligata a modificare il proprio assetto organizzativo. Le censure in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico giuridico vanno trattate unitariamente. Ritiene questa Corte di dar continuità giuridica, al principio anche di recente ribadito, secondo il quale la disposizione dell'articolo 2103 cc sulla disciplina delle mansioni e sul divieto di declassamento va interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti, tra l'altro, interventi di ristrutturazione aziendale, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte senza modifica del livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile se essa rappresenti l'unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo per tutte V. Cass. 5 aprile 2007 n. 8596 e Cass. 22 maggio 2014 n. 11395 . Tanto è in coerenza con la ratio sottesa a numerosi interventi normativi quali quello riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli alla loro salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a quelle abituali, conservando la retribuzione precedente cfr. D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, articolo 7, comma 5 quello relativa ai lavoratori divenuti inabili durante il rapporto lavorativo, che possono essere licenziati solo se risulti impossibile adibirli in mansioni disponibili in azienda, anche se non equivalenti, con la conservazione del trattamento della precedente qualifica cfr. L. 12 marzo 1999, n. 68, articolo 1, comma 7 quello - in modo ancora più significativo in considerazione di quanto interessa in questa sede - attinente i lavoratori esuberanti, il cui licenziamento può essere evitato proprio attraverso un accordo collettivo che permetta loro di essere adibiti a mansioni anche inferiori alle precedenti ai fini della conservazione nel posto di lavoro cfr. D.Lgs. 23 luglio 1991, n. 223, articolo 4, comma 11 , ed infine quello di cui alla recente riformulazione dell'articolo 2013 cc ex articolo 55 del D.Lgs. 20 febbraio 2015 di attuazione del c.d. Jobs Act il cui secondo comma prevede che In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore . Né ritiene questo Collegio che ai fini di cui trattasi sia necessario un patto di demansionamento ovvero una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o coeva al licenziamento. Se, infatti, il demansionamento rappresenta l'unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è onere del datore di lavoro, proprio in attuazione dei principi di correttezza e buona fede che governano il rapporto di lavoro, rappresentare al lavoratore la possibilità di una assegnazione a mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale. Né nella specie si pongono problemi di ordine processuale atteso che la Corte del merito accerta che il lavoratore ha indicato l'ufficio acquisti per la possibilità del reimpiego in mansioni diverse, anche inferiori e la società sin dal primo atto di costituzione in giudizio ha contestato la fondatezza della pretesa del lavoratore di considerare l'obbligo del reimpiego esteso alla necessità della previa prospettazione di un utilizzo in mansioni inferiori. Residua da affrontare il delicato tema delle scelte organizzative datoriali. La Corte del merito movendo dal presupposto che la riorganizzazione aziendale predisposta dalla società ricorrente già all'epoca in cui si era reso vacante il posto di responsabile dell'Ufficio acquisti, compatibile con il bagaglio professionale del B. , era pervenuta alla determinazione di licenziare quest'ultimo avrebbe dovuto tenere presente, prima di ricoprire tale posto, che a tale posto poteva essere assegnato il B. adottando una soluzione per così dire transitoria sino al licenziamento. Tuttavia non ritiene il Collegio che la soluzione adottata dalla Corte del merito possa essere avallata poiché il rispetto dei doveri di correttezza e buona fede non può spingersi sino ad imporre al datore di lavoro una scelta organizzativa,quale quella suggerita dalla Corte del merito, ancorché transeunte, tale da incidere, sia pure in maniera modesta, come sottolineato dai Giudici di appello, sulle decisioni organizzative del datore di lavoro che appartengono sempre alla sua sfera di libertà d'iniziativa economica ex articolo 41 della Cost. In conclusione va accolto il quarto motivo del ricorso e vanno rigettati gli altri con conseguente annullamento della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto e decidendosi nel merito va rigetta l'originaria domanda del lavoratore. Considerato il diverso esito dei giudizi di merito rispetto a quello di legittimità, nonché la complessità delle questioni trattate stimasi compensare tra le parti le spese dell'intero processo. Si da atto della non sussistenza dei presupposti di cui all'articolo 13, comma 1 quater, del DPR n. 115 del 2002 introdotto dall'articolo 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012 per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo del ricorso e rigetta gli altri, cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l'originaria domanda del B. . Compensa tra le parti le spese dell'intero processo. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater, del DPR n. 115 del 2002 introdotto dall'articolo 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012 si dichiara la non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.