Prende una scopa a mo’ di arma e sfiora la spalla del suo superiore: licenziato

Linea di pensiero comune per i Giudici evidente la gravità della condotta di un uomo, dipendente in un supermercato. Destinatario dei suoi strali verbali e del suo gesto violento il direttore del ‘punto vendita’.

Scontro clamoroso in ambito lavorativo. Parole pesanti come pietre, e contatto fisico evitato davvero per pochi centimetri. A finire nel mirino dell’azienda – proprietaria di una ‘catena’ di supermercati in tutt’Italia – è il lavoratore che, all’interno di un ‘punto vendita’, ha aggredito, seppur solo verbalmente, un collega, per giunta superiore a lui gerarchicamente, in quanto inquadrato come direttore del supermercato. Ricostruita la dinamica dell’increscioso episodio, è inevitabile l’applicazione della misura più dura, cioè il licenziamento Cassazione, sentenza n. 14360, sez. Lavoro, depositata oggi . Scontro. Come detto, l’azienda contesta al dipendente di avere tenuto, nel contesto del luogo di lavoro, condotte ingiuriose e minacciose verso il suo superiore gerarchico . A rendere più grave la posizione dell’uomo, poi, anche il fatto che egli ha addirittura preso in mano una scopa e l’ha utilizzata a mo’ di arma, quasi colpendo il direttore del punto vendita . Per la società – una ‘spa’ – l’unica soluzione è l’allontanamento del lavoratore. E tale visione viene ritenuta corretta dai giudici di merito, i quali respingono le contestazioni dell’uomo per il licenziamento disciplinare subito. A casa. Secondo l’uomo, che vede messo seriamente a rischio il proprio posto di lavoro, però, i giudici hanno trascurato due elementi primo, l’assenza di precedenti disciplinari nel suo curriculum alle dipendenze di quell’azienda secondo, l’elemento della provocazione , che può, a dire dell’uomo, connotare come discriminatorio il recesso . Ogni obiezione, però, si rivela inutile. Per i giudici della Cassazione, difatti, è corretta la valutazione tracciata tra primo e secondo grado, e poggiata sulla gravità della condotta tenuta dal lavoratore. Quest’ultimo, viene ricordato, non si era limitato a insulti e minacce , ma aveva anche preso in mano una scopa, brandendola nei confronti del direttore del punto vendita e arrestandola solo a pochi centimetri dalla spalla del suo superiore. Evidente, quindi, non solo il carattere violento del gesto , ma anche la sua intenzionalità . Tutto ciò rende comprensibile, secondo i giudici, la scelta dell’azienda di optare per il licenziamento .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 16 aprile – 9 luglio 2015, n. 14360 Presidente Stile – Relatore Mammone Svolgimento del processo Con sentenza del 6 giugno 2014, la Corte d'Appello di Milano, confermava la decisione resa dal Tribunale di Pavia in sede di opposizione all'ordinanza pronunciata dallo stesso Tribunale nella fase sommaria del giudizio promosso, con ricorso ex articolo 1, comma 48, I. n. 92/2012 da A.A.E.M. nei confronti di SMA s.p.A., sua datrice di lavoro, di rigetto della domanda del lavoratore avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli per le condotte ingiuriose e minacciose da questi tenute nei confronti del proprio superiore gerarchico. La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto raggiunta la prova della condotta addebitata e pertanto giustificata l'irrogazione della massima sanzione del licenziamento per giusta causa con conseguente irrilevanza del motivo discriminatorio invocato dal lavoratore. Per la cassazione di tale decisione ricorre A.A.E.M., affidando l'impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la Società. Motivi della decisione Con i due motivi su cui articola la proposta impugnazione, l'uno inteso a denunciare la violazione e falsa applicazione dell'articolo 2106 c.c. nella parte in cui impone l'irrogazione di una sanzione proporzionata alla condotta addebitata, l'altro On cui lo stesso vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto attiene all'articolo 229 del CCNL del settore commercio, applicabile alla fattispecie, ritenendosi questo fare riferimento ad una fattispecie astratta non corrispondente a quella in concreto verificatasi, il ricorrente, in sostanza, imputa alla Corte territoriale di aver calcato le tinte dell'episodio che lo ha visto coinvolto, per derivarne l'accertamento di una condotta riconducibile alle ipotesi di diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio anche tra dipendenti che provochi nocumento o turbativa al normale esercizio dell'attività aziendale o di insubordinazione verso i superiori accompagnata da un comportamento oltraggioso , individuate in sede collettiva come legittimanti l'applicazione della massima sanzione del licenziamento per giusta causa e concludere, a questa stregua, per la ricorrenza dell'invocata giustificazione dell'intimato recesso, senza preoccuparsi di prendere in considerazione e valutare ai fini del giudizio di proporzionalità circostanze su questo piano rilevanti, quali l'assenza di precedenti disciplinari nel corso del lungo periodo di servizio trascorso presso la Società datrice e l'elemento della provocazione tale da connotare come discriminatorio l'intimato recesso. In merito, si deve rilevare, da un lato, come la confutazione dell'accertamento in fatto della condotta tenuta dal ricorrente prescinda dei tutto dalla formulazione di specifiche censure volte ad evidenziare l'incongruità dell'iter logico-giuridico, di contro saldamente ancorato ad un'ampia e puntuale valutazione delle risultanze istruttorie, su cui la Corte territoriale ha fondato la conclusione per cui la condotta del ricorrente si era concretata nel far seguire ai numerosi insulti e alle minacce, che così risultavano rafforzate e confermate nella loro reale consistenza, le vie di fatto, costituite dall'atto di brandire la scopa nei confronti del direttore del punto vendita e di arrestarla solo a pochi centimetri dalla sua spalla dall'altro, il carattere recessivo delle circostanze attenuanti, del resto escluse, sempre sulla base del riferimento alle risultanze istruttorie, almeno con riguardo all'elemento della provocazione, rispetto ad una valutazione correttamente intesa a valorizzare il profilo della gravità, tanto sul piano oggettivo che sul piano soggettivo, atteso il carattere violento del gesto e la sua intenzionalità, della condotta del ricorrente così configurata. Entrambi i motivi dunque devono ritenersi inammissibili o, comunque, infondati. Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi oltre spese generali e altri accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater del d.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.