La denuncia di fatti illeciti commessi dal datore di lavoro non integra giusta causa di licenziamento

Il mero presentare un esposto o una denuncia all’autorità giudiziaria non viola i doveri di diligenza, di subordinazione o di fedeltà sanciti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., salvo che ne risulti l’intento calunnioso e/o diffamatorio del lavoratore.

Se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia o un esposto all’autorità giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa di licenziamento la mera denuncia di fatti illeciti commessi dal datore di lavoro. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 14249/15, depositata l’8 luglio. Il caso. Un gruppo di lavoratori era stato licenziato per aver presentato una denuncia nei confronti del datore di lavoro, accusandolo di aver alterato e/o abusato di fogli firmati in bianco contenenti ricevute di pagamento dallo stesso esibite nel corso di un altro giudizio, intentato dagli stessi lavoratori per ottenere il pagamento di competenze retributive arretrate. Secondo la prospettazione dell’azienda, tale condotta, di carattere diffamatorio e calunnioso, avrebbe incrinato irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti. La Corte d’Appello di Catanzaro, in totale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimi i licenziamenti. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado. Il diritto di difesa del lavoratore. La Suprema Corte ha ribadito che la mera denuncia all’autorità giudiziaria di fatti illeciti commessi dal datore di lavoro non costituisce giusta causa di licenziamento, salvo che non emerga con chiarezza la volontà del lavoratore di danneggiare il proprio datore di lavoro mediante accuse false. Sul punto, la Corte di Cassazione ha precisato che è necessario, ai sensi dell’art. 5 Legge n. 604/1966, che risulti dimostrata la mala fede del lavoratore, cioè il suo intento calunnioso e/o diffamatorio. Nella vicenda in esame, l’esposto-querela presentato dai lavoratori era stato archiviato per insufficienza di elementi di accusa e per la non configurabilità del delitto di falsità ideologica in scrittura privata in realtà, la corretta ipotesi accusatoria sarebbe stata quella di falsità materiale in scrittura privata tuttavia, il P.M. aveva rilevato che le ricevute esibite in giudizio dalla società presentavano delle incongruenze. Ad ogni buon conto, la Corte territoriale non ha rinvenuto prova di alcun intento denigratorio o calunnioso da parte dei lavoratori licenziati, concludendo che la contestazione del contenuto dei documenti prodotti in giudizio rispondeva all’esercizio del loro diritto di difesa, da riconoscersi sia in sede civile che penale. Secondo la Suprema Corte, i diritti di difesa costituzionalmente garantiti dall’art. 24 Cost. trovano riconoscimento nell’esimente di cui all’art. 598 comma 1 c.p. offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative e insistono anche in capo ai soggetti che non abbiano ancora assunto la qualità di parte in un procedimento penale. Per tale motivo, nel caso di specie non sussiste la giusta causa di licenziamento, poiché la condotta addebitata ai lavoratori rispondeva alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto ed era dunque coperta dall’efficacia scriminante prevista dall’art. 51 c.p., di portata generale e non già limitata al mero ambito penalistico.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 marzo – 8 luglio 2015, n. 14249 Presidente Stile – Relatore Manna Svolgimento del processo Con sentenza depositata il 12.1.12 la Corte d'appello di Catanzaro, in totale riforma della pronuncia 27.5.10 del Tribunale di Castrovillari, dichiarava illegittimi i licenziamenti disciplinari intimati il 7.3.03 ad un gruppo di lavoratori C.F. , B.E. , Be.Sa. , S.A. , Sa.Re. , Ca.Ra. e C.G. della Autolinee La Valle S.r.l., condannando quest'ultima a reintegrarli nel posto di lavoro con le conseguenze economiche di cui all'art. 18 Stat. Tale licenziamento era stato intimato dopo che un precedente licenziamento intimato il 5.4.97 nei confronti degli stessi dipendenti era stato dichiarato illegittimo dal Tribunale di Castrovillari con sentenza n. 26 del 10.1.03 poi passata in giudicato . Per la cassazione della sentenza ricorre Autolinee La Valle S.r.l., in liquidazione, affidandosi a due motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c C.F. , B.E. , Be.Sa. , S.A. , Sa.Re. , Ca.Ra. e C.G. resistono con controricorso. La società ricorrente ha depositato note d'udienza per confutare le conclusioni del PG. Motivi della decisione Preliminarmente va dichiarata l'inammissibilità della produzione documentale sentenza 21.2.13 del Tribunale di Castrovillari effettuata da parte ricorrente, atteso che ex art. 372 co. 1 c.p.c. non possono essere prodotti in sede di legittimità, ancorché formatisi successivamente al ricorso, documenti diversi da quelli relativi alla nullità della sentenza impugnata o all'ammissibilità del ricorso e del controricorso. È pur vero che tale regola non si applica al documento attestante un giudicato esterno cfr. Cass. n. 360/06 , ma la sentenza prodotta dalla società ricorrente, lungi dal costituire un giudicato sulla genuinità delle ricevute di pagamento che sono all'origine del presente contenzioso, si è limitata a dichiarare inammissibile la querela di falso proposta dai lavoratori sol perché i documenti che ne formavano oggetto non erano stati esibiti in originale. 1 - Con il primo motivo il ricorso lamenta vizio di motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata ha negato che costituisca giusta causa di recesso l'addebito mosso ai lavoratori, consistente nell’aver denunciato il proprio datore di lavoro accusandolo di aver alterato e/o abusato di fogli firmati in bianco contenenti ricevute di pagamento da lui esibite nel corso di un altro giudizio intentato dagli stessi lavoratori per ottenere il pagamento di competenze retributive arretrate afferma il ricorso che tale condotta, di carattere diffamatorio e calunnioso, ha incrinato irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti. Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 7 legge n. 300/70, nonché vizio di motivazione, là dove la gravata pronuncia ha affermato che gli addebiti disciplinari de quibus , oltre che infondati, sono stati tardivamente contestati obietta a riguardo la società ricorrente che, invece, l'addebito è stato contestato non appena la società ha avuto modo di prendere visione degli atti delle indagini penali svolte a seguito dell'esposto-querela dei lavoratori, conclusesi con decreto di archiviazione. 2 - Il primo motivo di ricorso è infondato. In tema di licenziamento l'oggetto della controversia risiede nell'accertare se il lavoratore si sia reso gravemente inadempiente rispetto ai propri doveri di subordinazione, diligenza e fedeltà e/o abbia posto in essere condotte extralavorative comunque tali da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. Pertanto, se l'azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia od un esposto all'A.G., deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi dal datore di lavoro, salvo che ne risulti il carattere calunnioso e/o diffamatorio. Ne deriva che il mero presentare un esposto o una denuncia all'A.G. non viola i doveri di diligenza, di subordinazione o di fedeltà artt. 2104 e 2105 c.c. quest'ultimo, in particolare, deve intendersi come divieto di abuso di posizione mediante condotte concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi e non già di segreti tout court, non meglio specificati. Cosa diversa, invece, è una precipua volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro mediante false accuse. Ma è pur sempre necessario, ai sensi dell'art. 5 legge n. 604/66, che risulti dimostrata la mala fede del lavoratore, cioè un suo intento calunnioso e/o diffamatorio cfr. Cass. n. 6501/2013 , il che nella vicenda in esame non può ritenersi insito neppure nell'archiviazione dell'esposto-querela presentato dagli odierni controricorrenti, la quale - secondo quel che si legge nell'impugnata sentenza - è stata motivata soltanto dall'insufficienza di elementi di accusa e dalla non configurabilità del delitto di falsità ideologica in scrittura privata in realtà, la corretta ipotesi accusatoria sarebbe stata di falsità materiale in scrittura privata , pur avendo il c.t. del PM evidenziato che le ricevute esibite in giudizio dalla società ricorrente - e che i lavoratori avevano contestato assumendo che contenevano delle false aggiunte in relazione alle imputazioni di pagamento e alla date - presentavano delle incongruenze. Nel caso di specie, giova ribadire, la Corte territoriale non ha rilevato prova alcuna di intento denigratorio o calunnioso da parte dei lavoratori licenziati, correttamente osservando che la contestazione del contenuto delle ricevute prodotte in giudizio dalla Autolinee La Valle S.r.l. rispondeva all'esercizio del loro diritto di difesa, da riconoscersi tanto in sede civile che penale. A riguardo si tenga presente che i diritti di difesa costituzionalmente garantiti dall'art. 24 Cost. trovano riconoscimento nell'esimente di cui all'art. 598 co. 1 c.p. avente valenza generale nell'ordinamento cfr. Cass. n. 26106/14 ed hanno una tale latitudine da sussistere - ad esempio - anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento penale basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex artt. 391 bis e ss. c.p.p., alcune delle quali possono esercitarsi anche prima dell'eventuale instaurazione d'un procedimento penale cfr. art. 391 nonies c.p.p. , oppure ai poteri processuali della persona offesa, che - ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile - ha il diritto, nei termini di cui agli artt. 408 e ss. c.p.p. - di essere informata dell'eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in tal caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell'udienza camerale. Dunque, l'addebito disciplinare mosso agli odierni controricorrenti non può integrare il concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d'un diritto e, quindi, essendo coperta dall'efficacia scriminante prevista dall'art. 51 c.p., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com'è noto, da sempre concordi . 3 - Il rigetto del primo motivo di ricorso, lasciando in vita la prima e più importante delle due concorrenti rationes decidendi adottate dalla pronuncia gravata, assorbe la disamina del secondo motivo di ricorso. 4 - In conclusione, il primo motivo di ricorso è da rigettarsi, con assorbimento del secondo, irrilevante essendo ormai la tempestività o meno della contestazione a fronte d'un addebito disciplinare comunque infondato. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.