Il licenziamento di madre lavoratrice è nullo, ma niente art. 18

Il licenziamento intimato alla lavoratrice madre, in violazione del divieto posto dall’art. 2, l. n. 1204/1971, è soggetto al regime ordinario della nullità di cui all’art. 1418 c.c., che prevede, come sanzione, il risarcimento del danno per tutto il periodo di permanenza degli effetti dell’evento lesivo.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza 8683/2015, depositata il 29 aprile 2015, con riferimento ad un licenziamento intervenuto nel 2007 e, quindi, precedentemente alla Riforma Fornero ed al Jobs Act. Non si licenzia la lavoratrice madre! L’art. 2, l. n. 1204/1971, stabilisce che le lavoratrici non possano essere licenziate dall'inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino. Secondo una costante giurisprudenza, il licenziamento intimato durante tale periodo è da considerarsi discriminatorio e, quindi, nullo. Quale nullità? Tutti d’accordo sulla nullità di un simile licenziamento, ma quali effetti comporta la nullità del licenziamento della madre lavoratrice? Le ipotesi sono due l’applicazione dell’art. 18 Statuto del Lavoratori o l’applicazione dell’art. 1418 c.c Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione propende per l’applicazione della nullità ordinaria di cui all’art. 1418 c.c., sottraendo esplicitamente l’ipotesi del licenziamento della lavoratrice madre al regime sanzionatorio di cui all’art. 18. Se il licenziamento intimato durante la maternità è nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c., allora il rapporto di lavoro dovrà considerarsi in essere, senza soluzione di continuità la nullità opera con effetto retroattivo e la lavoratrice avrà diritto al risarcimento del danno, pari a tutte le retribuzioni maturate e non percepite dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. La Suprema Corte, quindi, rigetta il ricorso della società datrice di lavoro, con cui quest’ultima chiedeva che il risarcimento del danno fosse limitato alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello in cui la società aveva formalmente proposto alla lavoratrice il rientro in azienda e non fino al giorno in cui la lavoratrice aveva espresso la sua volontà di riprendere servizio! L’evento dannoso causato dal licenziamento, infatti, dura sino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa da parte della lavoratrice licenziata. Si consideri, inoltre che, nel caso di specie, la lavoratrice aveva rifiutato la proposta di rientrare in azienda, pertanto, ai sensi dell’art. 1418 c.c., l’azienda avrebbe dovuto offrire alla lavoratrice le retribuzioni perse, alla stregua di quanto accade con l’offerta reale nell’ambito della mora del creditore. Poiché ciò non è accaduto, la Corte ha ritenuto sussistente l’obbligo dell’azienda a risarcire il danno, pari alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello del rifiuto della lavoratrice a rientrare in servizio. Riforma Fornero e Jobs Act. Si badi che la sentenza in commento riguarda un licenziamento intimato prima della riforma Fornero l. n. 92/2012 . Con essa, il quadro del licenziamento della lavoratrice madre cambia parzialmente il primo comma dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori annovera tra le ipotesi di nullità del licenziamento, la risoluzione intimata in violazione delle norme a tutela della maternità. Pertanto, a fronte di un simile licenziamento le sanzioni sono la reintegrazione sul posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno corrispondente alle mensilità maturate dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione. Sembra quasi che non vi siano più dubbi sul tipo di nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice madre. In ogni caso, è bene osservare che gli effetti della nullità ex art. 1418 c.c. e quelli della tutela reale ex art. 18 Statuto dei Lavoratori sono del tutto analoghi il rapporto di lavoro non si considera cessato quindi, consegue l’obbligo di reintegrazione , con diritto del lavoratore a percepire tutte le retribuzioni maturate nel periodo tra il licenziamento nullo e l’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro. Certo, se si applicasse l’art. 1418 c.c., non si configurerebbe l’opzione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 febbraio – 29 aprile 2015, n. 8683 Presidente Stile – Relatore De Marinis Svolgimento del processo Con sentenza del 25 novembre 2011, la Corte d'Appello di Napoli, investita del gravame avverso la decisione resa dal Tribunale di Benevento nel giudizio promosso da M.M.E. avverso la Clean Style S.r.l., sua datrice di lavoro - decisione con cui il primo giudice dichiarava illegittimo perché discriminatorio, in quanto intervenuto nell'anno di interdizione del recesso per maternità, il licenziamento intimato alla E. dalla Società datrice, con condanna di questa al risarcimento del danno dalla data del licenziamento a quella dell'offerta della reintegrazione nel posto di lavoro dalla Società formulata alla E. nel corso del giudizio e dichiarava dovute, con la sola eccezione degli importi pretesi a titolo di maggiorazioni per lavoro straordinario, le differenze retributive a vario titolo da questa rivendicate - mentre respingeva integralmente la domanda relativa al pagamento di tutte le differenze retributive indicate, confermava la declaratoria di nullità del licenziamento e la statuizione in ordine alle conseguenze risarcitorie. La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto, in base al tenore della comunicazione di recesso inviata alla E. dalla Società, non ravvisabile in essa e, dunque tale da mutare, in violazione del contrario principio invalso in sede giurisprudenziale, la causale giustificativa del recesso, l'imputazione di assenza arbitraria per il periodo, protrattosi per sei mesi, successivo a quello di regolare fruizione dell'astensione obbligatoria per maternità, derivandone la qualificazione del provvedimento datoriale come recesso intimato in violazione del divieto di cui all'art. 2 1. n. 1204/1971 e come tale nullo e soggetto al relativo regime di diritto comune implicante il risarcimento del danno, per il quale, sul presupposto della formulazione da parte della E. di apposita domanda nelle conclusioni del ricorso introduttivo, ribadiva, in difetto di ulteriori domande risarcitorie proposte in via incidentale dalla E. in sede d'appello, la pronunzia di condanna nei termini di cui alla decisione di primo grado. Per la cassazione di tale decisione ricorre la Clean Style S.r.l., affidando a due motivi l'impugnazione, rispetto alla quale la E. è rimasta intimata. Motivi della decisione Con il primo motivo, così rubricato Omessa motivazione su un punto decisivo del giudizio - Violazione dell'art. 112 c.p.c. - Riconoscimento alla lavoratrice di un risarcimento non dovuto - Violazione dell'art. 18, comma 5, 1. n. 300/1970 , la Società ricorrente lamenta da parte della Corte territoriale l'omessa pronunzia in ordine all'accoglibilità del rilievo svolto in sede di gravame circa l'erroneità della statuizione del primo giudice, intesa a fissare il dies ad quem del risarcimento dovuto alla E. alla data, il 7.5.2007, del rifiuto da parte della stessa dell'offerta di reintegrazione nel posto di lavoro formulatale dalla Società all'udienza del 22.1.2007 e non, come sostiene la Società ricorrente, a quella in cui l'offerta è stata avanzata. Il motivo è infondato, essendo basato su argomentazioni e riferimenti normativi ultronei rispetto all'iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale per pervenire alla conferma della statuizione risarcitoria resa dal primo giudice. Nella motivazione dell'impugnata sentenza la Corte territoriale mostra chiaramente di ritenere, in consonanza con l'orientamento espresso da questa Corte vedi le pronunzie ivi citate Cass. n. 16189/2002, Cass. n. 10531/2004 e Cass. n. 426/2005 , il licenziamento intimato alla lavoratrice madre in violazione del divieto posto dall'art. 2 1. n. 1204/1971 come sottratto al regime sanzionatorio di cui all'art. 18 1. n. 300/1970 e, viceversa, soggetto al regime ordinario della nullità di cui all'art. 1418 c.c., che prevede, a fronte dell'inadempimento la comune sanzione del risarcimento del danno applicabile, tuttavia, per tutto il periodo di permanenza degli effetti dell'evento lesivo. Il che comporta l'inoperatività del disposto dell'invocato comma 5 dell'art. 18 citato che ricollega al rifiuto dell'offerta datoriale alla ripresa del lavoro l'effetto risolutivo del rapporto, del resto previsto con riguardo al periodo successivo all'emanazione dell'ordine giudiziale di reintegra, dovendosi semmai in precedenza parlare di revoca del licenziamento intervenuta allorché l'atto recettizio ha esplicato la sua efficacia, revoca che tuttavia il lavoratore ha diritto di rifiutare senza conseguenza alcuna. Ciò posto è evidente che, a seguito del rifiuto della lavoratrice, l'effetto liberatorio della Società dal vincolo conseguente alla perpetuatio obligationis avrebbe potuto derivare soltanto, secondo il regime ordinario della mora del creditore, dall'offerta reale della retribuzione, il che non si è verificato. Correttamente dunque la Corte territoriale ha ritenuto la permanenza dell'obbligo in capo alla Società, prefigurando la possibilità di una condanna del medesimo ad un risarcimento ulteriore, peraltro, contenuto, stante l'inammissibilità della condanna in futuro, alla data di emanazione della sentenza d'appello, condanna cui, come esplicitamente dichiarato in motivazione, la Corte stessa non è addivenuta, ribadendo viceversa la pronunzia sanzionatoria del primo giudice, solo per il difetto di una specifica domanda in tal senso da parte dell'allora appellata. Inammissibile è invece il secondo motivo, così rubricato Mancato accertamento dell'esistenza di assunzione presso altro datore di lavoro. Aliunde perceptum. Violazione dell'art. 18, comma 4, 1. n. 300/1970 , con il quale la Società ricorrente lamenta la mancata detrazione dell'aliunde perceptum nella determinazione del risarcimento spettante alla lavoratrice e ciò in relazione alla violazione del principio di autosufficienza del ricorso, atteso che la Società ricorrente nulla deduce che valga ad attestare l'acquisizione al giudizio della circostanza da cui possa desumersi l'insorgenza di un diverso reddito suscettibile di limitare il danno risarcibile, requisito questo indefettibile perché il giudice possa procedere al relativo accertamento anche facendo ricorso ai suoi poteri officiosi. Il ricorso va dunque rigettato, senza attribuzione di spese per la mancata costituzione della parte intimata P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.