Come determinare la partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare?

La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., deve essere determinata sulla base sia degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, sia dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, considerato che gli stessi utili non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nella sentenza numero 7007, depositata l’8 aprile 2015. Il fatto. Un marito chiedeva accertarsi se la cessazione dell’impresa familiare agricola era avvenuta alla data di separazione dei coniugi e, se così fosse, chiedeva la condanna della moglie a corrispondergli una quota dei quattro fondi a lei intestati in via esclusiva e dei due fondi in comunione, per essere stati detti fondi acquistati con i proventi della impresa familiare. Con la sentenza di primo grado veniva accertata la cessazione dell’impresa familiare alla data di separazione dei coniugi e concedeva il diritto dei coniugi al 50% dell’impresa. La Corte d’appello, confermava la data di cessazione dell’impresa e il diritto dei coniugi al 50% dell’impresa, dichiarava, invece, inammissibile la domanda volta a far ricadere i quattro fondi intestati alla moglie, ritenendo la questione di proprietà non di competenza del giudice del lavoro. Contro tale decisione propone ricorso il marito. Con il motivo che il Collegio ha ritenuto meritevole di accoglimento, il ricorrente deduce violazione dell’art. 230- bis c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto inammissibile la domanda di attribuzione dei beni, benché si fosse in presenza di incrementi dell’azienda e di beni acquistati con gli utili di essa. Competenza del giudice del lavoro. Il Collegio ritiene il motivo fondato in quanto la domanda, al contrario di quanto sostenuto dalla Corte territoriale, è ammissibile e ritualmente proposta al giudice del lavoro, essendo inerente gli incrementi dell’azienda o i beni acquistati con gli utili di essa. Infatti, ricorda come la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che, in tema di impresa familiare, la cognizione del giudice del lavoro, ex art. 409 c.p.c., non è circoscritta all’accertamento del diritto alla remunerazione dei soggetti indicati dall’art. 230- bis c.c., ma comprende la domanda con la quale un coniuge, chieda, ai sensi della disposizione citata, l’attribuzione di beni o di quote di beni, che assuma acquistati con i proventi dell’impresa stessa, posto che tali pretese trovano titolo nel rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata, riconducibile nella previsione dell’art. 409, numero 3, c.p.c. . Diritti del coniuge alla partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare. Quanto, poi, ai diritti del coniuge, il Collegio ricorda che la partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230- bis c.c., deve essere determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, considerato che gli stessi utili non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Il coniuge che afferma il diritto di comproprietà su bene immobile intestato all’altro coniuge ha l’onere di provarlo. Resta fermo, peraltro, continua il Collegio, che non è configurabile la presunzione che il denaro utilizzato per l’acquisto di un immobile compiuto da un partecipante in nome proprio e in costanza di comunione provenga dagli utili tratti dall’attività economica comune, attesa la compatibilità del fondo comune costituito da detti utili con un patrimonio personale dei partecipanti. Spetterà, dunque, al coniuge che affermi il diritto di comproprietà su bene immobile intestato all’altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare, l’onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonché di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali. In accoglimento di tale motivo di ricorso, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello, al fine di accertare il collegamento dei beni con l’impresa familiare.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 4 novembre 2014 – 8 aprile 2015, n. 7007 Presidente Macioce – Relatore Buffa Ragioni della decisione 1. P.A. chiedeva innanzi al giudice del lavoro di Verona, nei confronti della moglie F.E. da cui si era da tempo separato , accertarsi la prosecuzione della impresa familiare agricola in essere dal 1976 oltre la data di separazione dei coniugi 1998 , nonché accertarsi il suo diritto ad una quota dell'80% dell'impresa in ragione del proprio lavoro prevalente per il diverso caso di riconoscimento della cessazione dell'impresa, chiedeva la condanna della F. a corrispondergli una quota dei quattro fondi a lei intestati in via esclusiva e dei due fondi in comunione, per essere stati detti fondi acquistati con i proventi della impresa familiare. La F. presentava domanda riconvenzionale, chiedendo il rendiconto dell'impresa dal 1998. 2. Il giudizio di primo grado si concludeva con sentenza non definitiva del 20.11.07 che riconosceva l'impresa dal 1976 al 1998 e dichiarava il diritto dell'attore al 50% dell'impresa. La sentenza definitiva del 18.5.08 liquidava quindi alla F. il 50% degli utili dal 1998 al 2007. 3. La corte d'appello di Venezia con sentenza del 3.2.2011, in riforma delle predette sentenze del tribunale di Verona, ha ritenuto cessata l'impresa al 1998, ravvisando la formazione del giudicato sul punto, in ragione di,mancato appello delle parti ha quindi ritenuto inammissibili le richieste istruttorie attoree volte a dimostrare il lavoro del P. , in quanto i capitoli di prova erano generici e tanto più che il P. aveva altra attività lavorativa la corte ha quindi confermato il diritto dei coniugi al 50% dell'impresa la corte ha poi dichiarato inammissibile la domanda volta fa ricadere nell'impresa i quattro fondi intestati alla F. , ritenendo la questione di proprietà non di competenza del giudice del lavoro infine, la Corte ha rigettato la domanda riconvenzionale, in quanto l'articolo 230 bis c.c. non include gli utili successivi alla cessazione ove non vi sia un apporto lavorativo, e non essendo configurabile peraltro un danno risarcibile. 4. Avverso tale sentenza propone ricorso il P. per due motivi illustrati da memoria controparte è rimasta intimata. 5. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione dell'articolo 230 bis c.c., per avere ritenuto inammissibile la domanda di attribuzione dei beni, benché si fosse in presenza di incrementi dell'azienda e di beni acquistati con gli utili di essa. Con il secondo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione per aver ritenuto carente la prova sul lavoro prevalente svolto nell'impresa. 6. Il primo motivo di ricorso è fondato, essendo la domanda ammissibile e ritualmente proposta al giudice del lavoro, in quanto inerente gli incrementi dell'azienda o i beni acquistati con gli utili di essa. 7. La giurisprudenza di questa Corte ha infatti chiarito in proposito Sez. 1, Sentenza n. 158 del 16/01/1990 Sez. 1, Sentenza n. 3411 del 10/05/1988 Sez. L, Sentenza n. 7460 del 12/12/1986 Sez. L, Sentenza n. 6069 del 23/11/1984 che, in tema d'impresa familiare, la cognizione del giudice del lavoro, ex art. 409 cod. proc. civ., non è circoscritta all'accertamento del diritto alla remunerazione dei soggetti indicati dall'art. 230 bis cod. civ., ma comprende la domanda con la quale un coniuge, previo accertamento della partecipazione all'impresa familiare con l'altro coniuge, chieda, ai sensi della disposizione citata, l'attribuzione di beni o di quote di beni, che assuma acquistati con i proventi dell'impresa stessa, posto che tali pretese trovano titolo nel rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata, riconducibile nella previsione dell'art. 409 n. 3 cod. proc. civ., il quale non diversifica le controversie in ragione del fatto che sia stata proposta una domanda di accertamento ovvero di condanna. 8. Quanto poi ai diritti del coniuge, va ricordato con Sez. L, Sentenza n. 5448 del 08/03/2011 che la partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell'impresa familiare, ai sensi dell'art. 230 bis cod. civ., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell'accrescimento, a tale data, della produttività dell'impresa beni acquistati con gli utili, incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall'azienda, atteso che gli stessi utili - in assenza di un patto di distribuzione periodica - non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell'azienda o in acquisti di beni. Resta fermo, peraltro Sez. 1, Sentenza n. 9119 del 30/08/1999 che non è configurabile alcuna presunzione che il denaro utilizzato per l'acquisto di un immobile compiuto da un partecipante in nome proprio ed in costanza di comunione provenga dagli utili tratti dall'attività economica comune, attesa la compatibilità del fondo comune costituito da detti utili con un patrimonio personale dei partecipanti, sicché il coniuge che affermi il diritto di comproprietà su bene immobile intestato all'altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare - idoneo ad estendersi di diritto agli acquisti fatti da ciascun partecipante, senza bisogno di mandato degli altri, né di successivo negozio di trasferimento - ha l'onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonché di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali. 9. È invece infondato il secondo motivo di ricorso, volto a dimostrare la prevalenza del lavoro del marito rispetto a quello della moglie, in quanto la Corte ha adeguatamente motivato sul punto, valutando le risultanze di merito del giudizio, ed in particolare tenendo conto dell'attività lavorativa ordinaria svolta dal ricorrente e delle prove acquisite. La valutazione della corte territoriale, in quanto motivata adeguatamente e correttamente, non è sindacabile in questa sede di legittimità, essendo consolidato il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale, con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente l'apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell'ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione tra le tante, Sez. 6-5, Ordinanza n. 7921 del 06/04/2011 Sez. L, Sentenza n. 15693 del 12/08/2004 . 10. La sentenza impugnata deve essere dunque cassata in accoglimento del primo motivo, e la causa va rinviata, al fine di accertare il collegamento dei beni con l'impresa familiare, alla corte d'appello di Brescia, anche per il regolamento delle spese di lite. P.Q.M. la Corte accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla corte d'appello di Brescia anche per il regolamento delle spese di lite.