Il rapporto di lavoro è solo uno, anche in caso di trasferimento d’azienda

La nullità della cessione di ramo d’azienda produce il diritto al risarcimento del danno a favore del lavoratore che, nonostante la dichiarazione giudiziale di nullità, non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell’impresa cedente. Questo diritto tuttavia non sussiste qualora lo stesso lavoratore abbia accettato l’estinzione dell’unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l’impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest’ultima un verbale di messa in mobilità.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6755, depositata il 2 aprile 2015. Il caso. La vicenda posta al vaglio della Cassazione si presenta affatto complessa e muove i passi da una pronuncia con cui, nel 2007, il Tribunale di Milano dichiarava l’inefficacia della cessione – da parte di un noto operatore telefonico nazionale – del ramo d’azienda cui erano addetti i 4 lavoratori ricorrenti. A dispetto di tale declaratoria e della successiva offerta della prestazione lavorativa formulata dai dipendenti, la cedente non ottemperava all’ordine giudiziale di ripristino dei rapporti, ragion per cui i ricorrenti continuavano a prestare la propria attività presso l’impresa cessionaria . Successivamente, gli stessi lavoratori ottenevano ancora dal Tribunale di Milano altrettanti decreti ingiuntivi, con i quali intimavano al cedente il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data della cessione del contratto di lavoro subordinato sino alla domanda. I Giudici di merito davano ragione ai lavoratori. La relativa opposizione veniva rigettata sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello i quali ritenevano che, una volta dichiarata l’illegittimità del trasferimento del ramo d’azienda, i rapporti di lavoro dei dipendenti coinvolti dovevano intendersi ricostituiti ex tunc alle dipendenza del cedente, con conseguente diritto alla retribuzione per il periodo successivo alla sentenza medesima ed alla messa a disposizione della prestazione . Priva di pregio ritenevano poi la tesi, proposta dalla società, per la quale il rapporto di lavoro doveva intendersi risolto in quanto i lavoratori avevano accettato la risoluzione del rapporto con la cessionaria percependo l’indennità di mobilità. Ad avviso degli stessi Giudici di merito, infatti, tale ragionamento presupponeva una valida cessione del ramo d’azienda, già esclusa . Contro la sentenza di secondo grado la società proponeva ricorso alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi. Il rapporto uno è ed uno resta. In particolare, la società lamentava come i lavoratori avessero accettato la collocazione in mobilità da parte della cessionaria, riconoscendola quindi come proprio datore di lavoro e - in ogni caso – facendo così cessare il rapporto di lavoro. Motivo che viene condiviso dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, accoglie il ricorso decidendo nel merito la controversia. Ed infatti, ad avviso della Corte, con l’accettazione della collocazione in mobilità i lavoratori avevano liberamente accettato l’estinzione dell’ unico rapporto di lavoro, atteso che non si può dubitare del fatto che comunque si è svolta una sola attività lavorativa degli intimati presso quel complesso che non è stato ritenuto costituire ramo d’azienda . Nella specie, i lavoratori richiedevano il pagamento di retribuzioni teoricamente maturate successivamente alla collocazione in mobilità le quali, tuttavia, non potevano ad avviso della Corte essere dovute, poiché il rapporto si era risolto su loro stessa iniziativa.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 4 dicembre 2014 – 2 aprile 2015, n. 6755 Presidente Roselli – Relatore Bronzini Svolgimento del processo Con sentenza n. 3227/2007 il Tribunale di Milano dichiarava l'inefficacia della cessione da Telecom Italia S.p.A. Telepost spa del ramo d'azienda cui erano addetti G.C., I.O.C, C., G.P., C.e C.G. e condannava la cedente a ripristinarne i rapporti di lavoro. Telecom Italia S.p.A. non ottemperava all'ordine di ripristinare i rapporti di lavoro malgrado la formale offerta delle prestazioni ed i lavoratori, che continuavano a lavorare per la società cessionaria, chiedevano ed ottenevano dal Tribunale di Milano decreti ingiuntivi con i quali si intimava a Telecom il pagamento delle retribuzioni da loro maturate dalla data di cessione del contratto di lavoro sino alla domanda. L'opposizione proposta avverso tali decreti ingiuntivi veniva rigettata dal Tribunale di Milano e così dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 14.12.2012. Ad avviso della Corte a seguito della sentenza con cui viene dichiarata l'illegittimità del trasferimento d'azienda con i connessi rapporti di lavoro, questi devono intendersi ricostituiti ex tunc alle dipendenze del cedente, con conseguente diritto alla retribuzione per il periodo successivo alla sentenza medesima ed alla messa a disposizione della prestazione. Non poteva accedersi alla tesi dell'avvenuta risoluzione del rapporto in quanto i lavoratori avevano accettato la risoluzione del rapporto con la cessionaria ed avevano percepito l'indennità di mobilità in quanto tale ragionamento presupponeva una valida cessione dei ramo d'azienda già esclusa. Inoltre l'indennità di mobilità posta la natura previdenziale non retributiva di tale trattamento non poteva neppure essere sottratta alle some dovute. Telecom Italia s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza, affidato a tre motivi. Gli intimati hanno resistito con controricorso. Le parti hanno depositato memorie difensive. Motivi della decisione Come primo motivo parte ricorrente deduce la violazione degli artt. 2112 e 2126 c.c. I lavoratori avevano accettato la collocazione in mobilità da parte della società Telepost, riconoscendolo come vero datore di lavoro e comunque facendo cessare il rapporto da intendersi unico. Come secondo motivo deduce l'omesso esame di un punto decisivo e cioè che i lavoratori avevano accettato la loro messa in mobilità da parte della Telepost. Come terzo motivo deduce Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1223, 1256, 1453 e 1463 c.p.c. e ribadisce che il diritto alla retribuzione è collegato allo svolgimento della prestazione, mentre qualora questa non venga richiesta e resa il lavoratore ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno, con detrazione dell'aliunde perceptum. Vanno accolti i primi due motivi di ricorso e dichiarato assorbito il terzo. Emerge dal ricorso Telecom e non viene contestato da controparte, cfr. pag. 2 del controricorso che i lavoratori hanno nel dicembre del 2005 accettato la messa in mobilità da parte di Telepost sottoscrivendo il relativo verbale. l lavoratori hanno pertanto accettato liberamente l'estinzione dell'unico rapporto di lavoro posto che non si può dubitare del fatto che comunque si è svolta una sola attività lavorativa degli intimati presso quel complesso che non è stato ritenuto costituire ramo d'azienda. Gli intimati chiedono in questa sede il pagamento di retribuzioni dopo la cessazione volontaria del rapporto di lavoro avendo firmato il verbale di conciliazione ed essendo stati immessi in mobilità percependo il relativo trattamento. Tali mensilità di retribuzione, anche solo a titolo risarcitorio secondo l'orientamento di questa Corte, non spettano in quanto il rapporto si è risolto su iniziativa dei lavoratori che hanno aderito alle proposte conciliative della società cessionaria. Certamente la cessione di ramo d'azienda è stata dichiarata inefficace e Telecom è stata condannata al ripristino dei rapporto il che non è avvenuto tuttavia il detto rapporto è stato autonomamente risolto dai lavoratori che hanno percepito i benefici previsti in conseguenza di un atto di conciliazione e pertanto non spettano somme richieste dopo l'avvenuta risoluzione. Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto la nullità della cessione di ramo d'azienda produce il diritto al risarcimento dei danno a favore del lavoratore che, nonostante la dichiarazione giudiziale di nullità, non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell'impresa cedente. Questo diritto tuttavia non sussiste qualora lo stesso lavoratore abbia accettato l'estinzione dell'unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l'impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest'ultima un verbale di messa in mobilità . La fondatezza dei primi due motivi di ricorso ne determina l'accoglimento, con assorbimento del terzo motivo, risultando infondate le pretese azionate con i decreti ingiuntivi opposti. La sentenza gravata deve essere quindi cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 1 con il rigetto delle domande dei lavoratori. Circa le spese sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei gradi di merito stante la controvertibilità della questione ponendo a carico delle parti intimate le spese dei giudizio di legittimità liquidate come al dispositivo della presente sentenza. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta la domanda. Condanna le parti intimate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 3.500,00 per compensi oltre accessori.