Malattia professionale riconosciuta, postumi stabilizzati: niente risarcimento per la morte del lavoratore

Linea di pensiero comune nei tre gradi di giudizio respinta definitivamente la richiesta avanzata dagli eredi dell’operaio di un’impresa di costruzione. Nessun dubbio sulla malattia professionale, ma i postumi si sono stabilizzati, e la morte è avvenuta per una diversa patologia.

Malattia professionale acclarata non a caso, il lavoratore ha ricevuto, dalla metà degli anni ’70, rendita ad hoc dall’INAIL. Ma la stabilizzazione dei postumi, non peggiorati dalla fine degli anni ’70, rende impossibile il collegamento tra la morte del lavoratore – avvenuta alla fine degli anni ’80 – e la patologia contratta in ambito professionale. Senza dimenticare, poi, che la richiesta degli eredi dell’uomo, arrivata solo nel 2000, è davvero tardiva Cassazione, sentenza n. 6769, sez. Lavoro, depositata oggi . Malattia. Negative già le valutazioni dei giudici di merito sia in Tribunale che in Corte d’Appello, difatti, viene ritenuta priva di appigli la domanda proposta dagli eredi dell’ex lavoratore di un’impresa di costruzioni, e mirata ad ottenere dall’azienda il risarcimento del danno subito dall’uomo prima con una tecnopatia e poi, infine, con il decesso . Decisiva, per i giudici, la constatazione che la malattia professionale – contatta dal de cuius nel periodo 1969-1976 – non aveva avuto aggravamenti dal 1979 , vista la stabilizzazione dei relativi postumi , né era stata poi causa del decesso del lavoratore, avvenuto nel 1989 . Evidente, quindi, che le pretese degli eredi del lavoratore erano prescritte , avendo egli consapevolezza della malattia sin dall’anno 1970 e avendo gli eredi presentato richiesta di risarcimento solo nel 2000, ossia undici anni dopo il decesso del lavoratore . Decesso. E ora il ‘cuore’ delle decisioni messe ‘nero su bianco’ tra primo e secondo grado viene condiviso e fatto proprio anche dai giudici della Cassazione. Definitivo, quindi, il ‘niet’ alle richieste degli eredi del lavoratore, alla luce della considerazione che, come da consulenza medico-legale, è stato acclarato che la morte del lavoratore è dipesa da cause autonome rispetto alla tecnopatia riconosciuta molti anni prima, le cui patologie sono rimaste immutate e non hanno subito aggravamenti da molti anni prima del decesso del lavoratore . E questa prospettiva, sulla effettiva causa del decesso , non può essere messa in discussione, chiariscono i giudici, dal riferimento, fatto dagli eredi del lavoratore, alla presunta incidenza indiretta delle differenti patologie , incidenza che, a loro dire, avrebbe indebolito le difese dell’organismo del lavoratore e inciso sui caratteri della malattia sopravvenuta, accelerandone il decorso verso l’esito letale . Su questo fronte, difatti, va rilevato, chiariscono i giudici, che il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore – la patologia che ha poi condotto alla morte del lavoratore – sufficiente da solo a produrre l’evento e tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni . Di conseguenza, va escluso anche un ruolo concausale della malattia professionale in relazione alla morte del lavoratore, che è stata conseguenza di patologia del tutto autonoma . E ciò significa che la patologia rilevatasi fatale per l’uomo non rileva ai fini della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro . Per questo, calendario alla mano, è da considerare ampiamente scaduto il termine decennale per l’ azione risarcitoria messa in moto dagli eredi del lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 gennaio – 2 aprile 2015, n. 6769 Presidente Macioce – Relatore Buffa Svolgimento del processo 1. Con sentenza del 10/7/07, la corte d'appello di Venezia, confermando la sentenza del tribunale di Vicenza dell'11/3/03, ha rigettato la domanda proposta dagli eredi di C.C. volta ad ottenere -dall'ex datore di lavoro di quest'ultimo il risarcimento del danno subito in ragione di tecnopatia e poi del decesso del lavoratore. In particolare, la corte territoriale ha rilevato che la malattia professionale -contratta dal de cuius nel periodo dal 1969 al 1976 non aveva avuto aggravamento dal 1979, avendo visto stabilizzarsi i relativi postumi, né era stata poi causa dei decesso del lavoratore, avvenuto nel 1989, sicché le pretese degli eredi dei lavoratore erano prescritte, avendo l'assistito consapevolezza della malattia sin dall'anno 1974 anno di riconoscimento della malattia professionale da parte dell'Inail con costituzione di rendita dei 40 e poi del 50% , mentre la richiesta degli eredi era stata effettuata solo nel 2010, ossia undici anni dopo il decesso del lavoratore. 2. Avverso tale sentenza ricorrono gli eredi dei lavoratore moglie e figlia per due motivi, cui resiste il datore di lavoro con controricorso. 3. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 113, 115 e 116 del codice di rito, 40 e 41 del codice penale, nonché vizio di motivazione della sentenza, in ragione della omessa consulenza tecnica medico legale in appello, dell'erroneo utilizzo delle risultanze della consulenza di primo grado, della mancata ricostruzione dello stato di salute del ricorrente e della mancata considerazione dell'efficienza debilitante che la malattia professionale aveva avuto e dunque della rilevanza concausale della stessa nella morte dei lavoratore. 4. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell' articolo 2946 del codice civile e vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata trascurato che la morte dei lavoratore era una nuova ed autonoma lesione, atta ad interrompere la prescrizione decennale. Motivi della decisione 5.I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi essi sono infondati. 6.I denunciati vizi di violazione di legge sono oggetto di motivi di ricorso inammissibili, in quanto non precisano in alcun modo in cosa consiste la violazione di legge né sono in alcun modo indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si assumono in contrasto con le disposizioni invocate. 7. Questa Corte ha già affermato, infatti, Sez. U, Sentenza n. 21672 del 23/09/2013 Sez. 6 5, Ordinanza n. 187 del 08/01/2014 Sez. L, Sentenza n. 5024 del 08/04/2002 , che il ricorso per cassazione che contenga mere enunciazioni di violazioni di legge o di vizi di motivazione, senza consentire, nemmeno attraverso una sua lettura globale, di individuare il collegamento di tali enunciazioni con la sentenza impugnata e le argomentazioni che la sostengono, nè quindi di cogliere le ragioni per le quali se ne chieda l'annullamento, non soddisfa i requisiti di contenuto fissati dall'art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., e, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. 8. Con riferimento ai dedotti vizi di motivazione della sentenza impugnata, i motivi sono infondati. Il ricorso sostanzialmente mira ad un riesame nel merito della situazione di fatto che ha portato al decesso del lavoratore, riesame che è inammissibile in sede di legittimità. La sentenza impugnata, con motivazione adeguata e corretta, ha verificato che la morte del lavoratore è dipesa da cause autonome rispetto alla tecnopatia riconosciuta molti anni prima, le cui patologie sono rimaste immutate e non hanno subito aggravamenti da molti anni prima del decesso del lavoratore. 9. Su tale valutazione causale del decesso non possono del resto assumere rilievo le deduzioni dei ricorrente in ordine alla incidenza indiretta delle differenti patologie, per aver indebolito le difese dell'organismo dei lavoratore ed inciso sui caratteri della malattia sopravvenute, accelerandone il decorso verso l'esito letale. Infatti, anche a voler prescindere dalla considerazione dell'assenza di prova circa la produzione, a distanza di molti anni, di un effetto pur indiretto delle tecnopatie, deve rilevarsi che il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni, sicché va escluso un ruolo concausale della malattia professionale in relazione alla morte verificatesi -come accertato dalle sentenze di merito molti anni dopo, per patologie del tutto autonome e distinte, in alcun modo ricollegabili alla pregressa tecnopatia. 10. Infine, la scelta del giudice di merito di non disporre nuova consulenza rientra nei poteri discrezionali del giudice del lavoro e non è sindacabile in sede di legittimità Sez. 3, Sentenza n. 11143 del 16/07/2003 Sez. 1, Sentenza n. 16980 dei 25/07/2006 Sez. 3, Sentenza n. 4686 del 08/03/2004 . 11. Ne deriva che nella specie, poiché la morte del lavoratore non è configurabile quale sviluppo e conseguenza delle patologie professionali, ma è conseguenza di patologia del tutto autonoma, essa non rileva ai fini della decorrenza del termine di prescrizione dell'azione risarcitoria nei confronti del datore. 12. L'azione risarcitoria del lavoratore nei confronti dei datore di lavoro -peraltro ancorata, in presenza di tutela previdenziale fruita dal lavoratore che come detto ha beneficiato di rilevante rendita per malattia professionale , alla ricorrenza di vari presupposti nel caso neppure dedotti dalla parte è soggetta comunque al termine prescrizionale ordinario, che decorre dal momento in cui il lavoratore aveva potuto avere piena consapevolezza della malattia Sez. L, Sentenza n. 19022 del 11/09/2007, secondo cui, in tema di risarcimento dei danno subito dal lavoratore per effetto della mancata tutela da parte del datore delle condizioni di lavoro, in violazione degli obblighi imposti dall'art. 2087 cod. civ., la prescrizione decennale, ove il lavoratore esperisca l'azione contrattuale decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile . 13. Nella specie, il lavoratore aveva potuto avere piena consapevolezza della malattia nel caso si tratta dei 1974, anno di riconoscimento della rendita da parte dell'INAIL . Il termine decennale era quindi già decorso al momento della morte del lavoratore. 14. II ricorso deve essere per quanto detto rigettato. 15. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in euro quattromila per compensi, euro cento per spese, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura dei 15%.