Il cassiere disonesto non troverà amici in Tribunale

Nell’ipotesi di un dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutato con particolare rigore, a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo e concreto per il datore di lavoro.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 26039, depositata il 10 dicembre 2014. Il caso. La Corte d’appello di Roma dichiarava la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato al dipendente di una banca. Il lavoratore, che aveva mansioni di addetto operativo e di cassiere, più volte aveva effettuato prelievi su conti bancari dei clienti all’insaputa dei titolari ed aveva concesso sconfinamenti senza ordine scritto, sottraendosi agli ordinari controlli necessari per tale tipo di operazioni. L’uomo ricorreva in Cassazione, contestando la sproporzione della sanzione, in quanto non si sarebbe tenuto conto del suo curriculum e della modesta entità del danno. Inoltre, i giudici territoriali avrebbero dovuto considerare l’assoluzione in sede penale nel giudizio di primo grado per il reato di appropriazione indebita. Vincolo fiduciario spezzato. I giudici di legittimità, tuttavia, concordano con i loro colleghi territoriali, secondo i quali il comportamento del ricorrente era stato di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, e posto, inoltre, in essere in un rapporto di lavoro bancario, caratterizzato da una certa autonomia. Infatti, il ricorrente lavorava in uno sportello molto attivo e distaccato dalla sede filiale, il che lo sottraeva fisicamente dai controlli quotidiani diretti. Severità particolare. La Cassazione ribadisce che, nell’ipotesi di un dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutato con particolare rigore, a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo e concreto per il datore di lavoro. Assoluzione penale. Inoltre, l’eventuale rilevanza della sentenza penale di assoluzione in un giudizio riguardante la dichiarazione di illegittimità di un licenziamento disciplinare, irrogato in conseguenza dello stesso comportamento per cui il lavoratore è stato processato in sede penale, presuppone l’identità del fatto materiale cioè la condotta e che si tratti di una sentenza divenuta cosa giudicata. In ogni caso, però, il giudice civile deve procedere autonomamente alla rivalutazione del fatto e del materiale probatorio per valutare la condotta del lavoratore e la prova della giusta causa del licenziamento. Nel caso di specie, la sentenza di assoluzione non era comunque divenuta ancora definitiva. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 ottobre – 10 dicembre 2014, n. 26039 Presidente Stile – Relatore Tria Svolgimento del processo 1.- La sentenza attualmente impugnata rigetta l'appello di C.A. avverso la sentenza del Tribunale di Latina, n. 3159 del 2007, che, respingendo il ricorso proposto da C.A. , ha dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al ricorrente dalla Banca di Roma s.p.a. oggi UNICREDIT s.p.a. in data 12 dicembre 2002. La Corte d'appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che a l'appellante deduce la mancanza di prova dei fatti posti a fondamento della contestazione e del licenziamento e aggiunge che, comunque, anche se i fatti risultassero provati nella loro materialità, comunque non integrerebbero una giusta causa di licenziamento, ma semmai una condotta irregolare meritevole di una sanzione conservativa, in considerazione della assenza sia di un proprio profitto tratto dalla condotta contestata sia di un pregiudizio economico o di immagine arrecato alla banca datrice di lavoro b le censure sono infondate c al C. , dipendente della Banca di Roma s.p.a., distaccato presso lo sportello aperto nella ASL di Latina, con mansioni di addetto operativo e cassiere III area professionale IV livello , all'esito di una verifica ispettiva, vennero contestati una serie di comportamenti reiterati rivelatori della prassi seguita dal C. , per molto tempo, di effettuare prelievi su conti bancari dei clienti all'insaputa dei titolari e di concedere sconfinamenti senza ordine scritto, operazioni che si sottraevano agli ordinari controlli in quanto, per esempio, per gli sconfinamenti il potere di autorizzazione dell'organo sovraordinato non era esercitabile se non veniva richiesto dal dipendente che doveva effettuare l'operazione d i fatti risultanti dalla verifica ispettiva sono stati tutti confermati oltre che dalla documentazione in atti anche dalla prova testimoniale, pure per quel che riguarda l'elemento intenzionale e ne deriva che è indubitabile che si tratti di una condotta di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, tanto più in un rapporto di lavoro bancario, oltretutto nella specie caratterizzato da una certa autonomia, dato lo svolgimento della prestazione in uno sportello molto attivo e distaccato dalla sede della filiale, che quindi era anche fisicamente sottratto ai controlli quotidiani diretti f né assume alcun rilievo - al fine di escludere la giusta causa - la dedotta mancanza di un vantaggio diretto del dipendente e l'asserita assenza di un pregiudizio per la Banca 2.- Il ricorso di C.A. domanda la cassazione della sentenza per due motivi resiste, con controricorso, UNICREDIT s.p.a. Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ Motivi della decisione I - Sintesi dei motivi di ricorso. 1.- Il ricorso è articolato in due motivi, con i quali si deduce A in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 cod. civ. primo motivo , sostenendosi che la Corte d'appello non avrebbe valutato correttamente la proporzionalità della sanzione espulsiva perché non avrebbe tenuto conto né del curriculum del C. dipendente della Banca da più di venti anni al momento dei fatti contestati né della modesta entità del danno come accertato in concreto B in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia secondo motivo , ribadendosi - rispetto alle fasi di merito del giudizio - che la datrice di lavoro non avrebbe fornito alcun sostegno probatorio alle proprie deduzioni e si aggiunge che la Corte romana, senza chiarire il percorso logico seguito, sarebbe giunta all'erronea conclusione di confermare la legittimità del licenziamento, aderendo, acriticamente alle tesi della Banca, senza neppure tenere conto della sentenza penale di assoluzione con formula piena del ricorrente dal reato di cui agli artt. 81, 646, 61 n. 11 cod. pen., pronunciata dal Tribunale di Latina ed emanata nel corso dell'udienza di discussione del giudizio di appello in oggetto. II - Esame delle censure. 2.-1 motivi del ricorso - da esaminare congiuntamente data la loro intima connessione - non sono da accogliere per le ragioni di seguito esposte. 3.- In linea generale va precisato che, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nell'intestazione del primo motivo, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata ma non per errori di logica giuridica - che sono gli unici idonei a rendere la motivazione stessa incongrua o incoerente e quindi emendabile in sede di giudizio di cassazione - bensì per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l'inammissibile intento di sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito. Viceversa, nella specie, le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l'iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Infatti, in particolare, dalla sentenza si desume con chiarezza che la Corte d'appello è pervenuta alla conclusione - che, peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, come accade nella specie - di ritenere sussistenti in concreto gli estremi della giusta causa del recesso attraverso un'attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta. È pacifico che al ricorrente, dipendente della Banca di Roma s.p.a., distaccato presso lo sportello aperto nella ASL di Latina, con mansioni di addetto operativo e cassiere III area professionale IV livello , all'esito di una verifica ispettiva, sono stati contestati una serie di comportamenti reiterati rivelatori della prassi seguita, per molto tempo, di effettuare prelievi su conti bancari dei clienti all'insaputa dei titolari e di concedere sconfinamenti senza ordine scritto, operazioni che si sottraevano agli ordinari controlli in quanto, per esempio, per gli sconfinamenti il potere di autorizzazione dell'organo sovraordinato non era esercitabile se non veniva richiesto dal dipendente che doveva effettuare l'operazione. A fronte di tale situazione - che dalla sentenza risulta essere stata attentamente vagliata in tutti i suoi elementi - appare del tutto condivisibile e conforme alla giurisprudenza di questa Corte l'affermazione della Corte romana secondo cui il comportamento posto in essere dal ricorrente sia stato di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, tanto più perché posto in essere in un rapporto di lavoro bancario, oltretutto nella specie caratterizzato da una certa autonomia, dato lo svolgimento della prestazione in uno sportello molto attivo e distaccato dalla sede della filiale, che quindi era anche fisicamente sottratto ai controlli quotidiani diretti, essendo del tutto ininfluente - al fine di escludere la giusta causa - la dedotta mancanza di un vantaggio diretto del dipendente e l'asserita assenza di un pregiudizio per la Banca. 4.- Non va, infatti, dimenticato che, con specifico riferimento a fattispecie simili alla presente, questa Corte, con costante orientamento cui il Collegio intende dare continuità, ha affermato che nell'ipotesi del dipendente di un istituto di credito, l'idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo e concreto per il datore di lavoro vedi, per tutte Cass. 14 maggio 2005, n. 5504 Cass. 27 gennaio 2004, n. 1475 Cass. 9 agosto 2004, n. 15373 Cass. 2 febbraio 2009, n. 2579 Cass. 26 luglio 2010, n. 17514 . 5.- D'altra parte, non ha alcun rilievo che la Corte territoriale non abbia tenuto conto della sentenza penale di assoluzione con formula piena del ricorrente dal reato di cui agli artt. 81, 646, 61 n. 11 cod. pen., pronunciata dal Tribunale di Latina ed emanata nel corso dell'udienza di discussione del giudizio di appello in oggetto. Infatti, è jus receptum che l'eventuale rilevanza della sentenza penale di assoluzione nell'ambito del giudizio relativo alla dichiarazione di illegittimità di un licenziamento disciplinare irrogato in conseguenza del medesimo comportamento per il quale il lavoratore è stato sottoposto a procedimento penale presuppone - oltre alla identità del fatto materiale, rispettivamente vagliato in sede penale e in sede civile come condotta che ha determinato il licenziamento - che si tratti di una sentenza dibattimentale divenuta cosa giudicata e comunque non esclude il dovere del giudice civile di procedere in modo autonomo alla rivalutazione del fatto e del materiale probatorio ai fini della valutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa del licenziamento vedi, per tutte Cass. 13 settembre 2012, n. 15353 . Ne consegue che appare del tutto conforme al suindicato principio la decisione della Corte territoriale di non attribuire alcun rilievo alla indicata sentenza del Tribunale penale di Latina, non ancora divenuta definitiva. IV – Conclusioni. 6.- In sintesi,, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione -liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 cento/00 per esborsi, Euro 3000,00 tremila/00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.