Arresto in flagranza per corruzione, poi il carcere: illegittimo il licenziamento senza preavviso del dipendente

Decisivo il fatto che sia stata ritenuta applicabile una clausola contrattuale, ignorando la l. n. 97/2001. Di conseguenza, è da confermare la decisione con cui il Collegio di disciplina ha annullato il licenziamento. Necessario attendere prima la chiusura del procedimento penale.

Situazione davvero delicata per il dipendente della Motorizzazione prima l’arresto in flagranza di reato per il delitto di corruzione, poi il provvedimento di custodia cautelare in carcere emesso dal gip. Nonostante tutto, però, il provvedimento tranchant, adottato dalla pubblica amministrazione – la Regione Sicilia, in questo caso –, ossia il licenziamento senza preavviso, è da azzerare Cassazione, sentenza n. 24728, sez. Lavoro, depositata oggi . In galera. Casus belli è il lodo con cui il Collegio di disciplina costituito presso il Dipartimento del personale della Presidenza della Regione Sicilia ha annullato il licenziamento del dipendente arrestato in flagranza per il delitto di corruzione, e poi destinatario di un provvedimento di custodia cautelare in carcere . Pronta la reazione dei legali rappresentanti della pubblica amministrazione, finalizzata a ribadire la legittimità del provvedimento adottato. Ma anche i giudici di merito valutano, normative alla mano, sproporzionato il licenziamento. Decisiva la constatazione che il quadro scaturente dalla legge numero 97 del 2001 ha regolamentato in toto il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare, regolando le vicende del rapporto di lavoro in caso di sottoposizione del dipendente a procedimento penale . Di conseguenza, viste la specificità delle ipotesi previste e la completezza ed esaustività della disciplina, connotata dalla prevalenza sulla regolamentazione negoziale , è da ritenere illegittima la disposizione contenuta nella contrattazione collettiva posta a fondamento del provvedimento espulsivo . Licenziamento nullo. Diversa, ovviamente, la visione per la Regione Sicilia difatti, viene ribadita, col ricorso in Cassazione, la tesi della legittimità del licenziamento , sostenendo che i giudici di secondo grado hanno commesso un errore, provvedendo a sostituire di diritto, in sostanza, la clausola contrattuale posta a fondamento del licenziamento intimato dalla pubblica amministrazione . E a questo proposito viene ricordato che la fattispecie del licenziamento senza preavviso, per l’arresto in flagranza per i reati di peculato, concussione e corruzione, costituisce una autonoma fattispecie, non prevista e disciplinata dalla legge 97 del 2001 e che il licenziamento senza preavviso, che segue all’arresto in flagranza, se convalidato dal Gip, è configurabile quale licenziamento disciplinare per fatti di grave infedeltà, tali da rompere in maniera irreversibile e irrimediabile il rapporto di fiducia tra pubblica amministrazione e lavoratore . Quindi, secondo la visione dei rappresentanti della Regione, l’errore dei giudici è stato quello di non ritenere applicabile la clausola contrattuale relativa al comparto non dirigenziale del pubblico impiego della Regione Sicilia , la cui ratio è quella di sanzionare celermente, con la massima misura disciplinare, il dipendente infedele . Ma l’intero ragionamento viene a cadere di fronte all’obiezione messa ‘nero su bianco’ dalla Cassazione il contratto collettivo, come anche espressamente disposto dall’articolo 8 della legge numero 97 del 2001, giammai può prevalere sulla normativa della legge stessa . Ebbene, tale legge, evidenziano i giudici, ha regolamentato in toto il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare , prevedendo, in particolare, che l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego segue, di diritto, alla condanna alla reclusione non inferiore a tre anni per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del Codice Penale, mentre negli altri casi l’estinzione può essere disposta solo a seguito di procedimento disciplinare . Di conseguenza, è da ‘cestinare’ la tesi secondo cui la previsione collettiva costituirebbe una fattispecie autonoma, estranea alla disciplina di legge, che non interferirebbe sulla stessa e che, quindi, potrebbe finanche prescindere dall’esito del procedimento penale . Confermato, quindi, in conclusione, l’annullamento del licenziamento senza preavviso emesso nei confronti del dipendente della ‘Motorizzazione’.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 16 ottobre – 20 novembre 2014, n. 24728 Presidente Macioce – Relatore Nobile Svolgimento del processo Con ricorso del 27-1-2010 la Presidenza della Regione Siciliana e l'Assessorato delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica proponevano impugnazione avverso il lodo con il quale il Collegio di disciplina costituito presso il Dipartimento del personale della Presidenza della Regione Sicilia aveva annullato il licenziamento senza preavviso irrogato ad Antonino Nobile, istruttore direttivo della Motorizzazione civile di Palermo, tratto in arresto in flagranza di reato per il delitto di corruzione e destinatario di provvedimento di custodia cautelare in carcere emesso dal G.I.P. del Tribunale di Palermo. Le Amministrazioni nel chiedere l'annullamento del lodo, con il primo motivo deducevano la violazione dell'articolo 68, comma 8, lett. g, del c.c.r.l., dolendosi che erroneamente il Collegio lo aveva disapplicato, ritenendolo in contrasto con le previsioni della legge n. 97/2001, laddove, invece, la disposizione collettiva costituiva una ipotesi autonoma non coincidente né interferente con la disciplina statale con il secondo motivo censuravano, poi, l'impugnato provvedimento per non avere tenuto conto che l'articolo 14, lettera q, dello Statuto della Regione siciliana, attribuisce all'Ente autonomia normativa sullo stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione. Il Nobile si costituiva e resisteva all'impugnazione. La Corte d'Appello di Palermo, con sentenza depositata il 28-7-2011, respingeva l'impugnazione e compensava le spese. In sintesi la Corte rilevava che il quadro normativo scaturente dalla legge n. 97 del 2001 ha regolamentato in toto il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare, regolando le vicende del rapporto di lavoro in caso di sottoposizione del dipendente a procedimento penale ed affermava che la specificità delle ipotesi previste e la completezza ed esaustività della disciplina, connotata dalla prevalenza della stessa sulla regolamentazione negoziale preesistente o successiva eventualmente difforme induce, quindi, a ritenere illegittima la disposizione contenuta nella contrattazione collettiva, addotta a fondamento del provvedimento espulsivo . Peraltro, la Corte rilevava che la autonomia della Regione riguardava le disposizioni normative e non quelle contrattuali. Per la cassazione di tale sentenza la Presidenza e l'Assessorato delle Autonomie locali e della Funzione pubblica della Regione Siciliana hanno proposto ricorso con due motivi. Il Nobile ha resistito con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso, denunciandosi violazione dell'articolo 68, comma 8, lettera g, c.c.r.l. del comparto non dirigenziale in combinato disposto con gli artt. 1 e 8 e ss. della 1. n. 97/2001, si lamenta che la Corte d'Appello ha rigettato il gravame provvedendo a sostituire di diritto, in sostanza la clausola contrattuale posta a fondamento del licenziamento intimato dalla P.A. , così ignorando la ratio stessa sottesa alla disciplina in esame . In particolare si afferma che la fattispecie del licenziamento senza preavviso per l'arresto in flagranza per i reati di peculato, concussione e corruzione costituisce una autonoma fattispecie non prevista e disciplinata dalla legge 97/2001 e che, in particolare, il licenziamento senza preavviso che segue all'arresto in flagranza, se convalidato dal GIP, è esso stesso configurabile quale licenziamento disciplinare per fatti di grave infedeltà tali da rompere , in maniera irreversibile e irrimediabile il rapporto di fiducia tra P.A. e il lavoratore medesimo di guisa che, sotto tale profilo, la sanzione può prescindere dall'esito dello stesso procedimento penale, in quanto, secondo tale schema logico, non vi è alcuna interferenza tra la legge 97/2001 e la norma contrattuale invocata . In conclusione si sostiene che la Corte di merito ha errato nel ritenere non applicabile il citato articolo 68 del c.c.r.l. la cui ratio è quella di sanzionare celermente, con la massima misura disciplinare, il dipendente infedele . Con il secondo motivo, denunciandosi violazione degli artt. 1 e 8 e ss. della 1. n. 97/2001, in combinato disposto con l'articolo 14, lettera q, dello Statuto della Regione Siciliana e con l'articolo 68, comma 8, lettera g del citato c.c.r.l., si afferma che, avendo la Sicilia autonomia normativa sullo stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione , il c.c.r.l. di comparto non dirigenziale in cui è inserito il citato articolo 68 costituisce indubbia espressione della potestà normativa attribuita alla Regione medesima sulla regolamentazione del rapporto di lavoro e tale potestà normativa può integrare le norme di legge in questione, anche considerando che la fattispecie disciplinata non è prevista espressamente nella legge 97/2001 . Entrambi i detti motivi, così come proposti e sviluppati, non meritano accoglimento. In primo luogo va rilevato che, come più volte affermato da questa Corte v. fra le altre Cass. 15-3-2007 n. 6028, Cass. 3-5-2007 n. 10209, Cass. 30-9 2009 n. 21035, Cass. 18-10-2013 n. 23675 , in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia deciso sull'impugnazione per nullità del lodo arbitrale, al fine di verificare se la sentenza medesima sia adeguatamente e correttamente motivata in relazione ai motivi di impugnazione del lodo, il giudice di legittimità non può apprezzare direttamente la pronuncia arbitrale, e può esaminare solo la decisione emessa nel giudizio di impugnazione, con la conseguenza che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione della sentenza che ha deciso sull'impugnazione del lodo. Tanto premesso, sul primo motivo è sufficiente rilevare che il contratto collettivo, come anche espressamente disposto dall'articolo 8 della legge n. 97/2001, giammai può prevalere sulla normativa della legge stessa. Peraltro correttamente la Corte d'Appello ha rilevato che la detta legge ha regolamentato in toto il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed in particolare, tra l'altro oltre alla efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare - articolo 1 -, alla modifica dell'articolo 445 c.p.p. - articolo 2 -, al trasferimento a seguito di rinvio a giudizio , salva l'applicazione della sospensione dal servizio in conformità a quanto previsto nei rispettivi ordinamenti - articolo 3 - e alla sospensione a seguito di condanna non definitiva - articolo 4- ha previsto che la estinzione del rapporto di lavoro o di impiego segue di diritto alla condanna alla reclusione non inferiore a tre anni per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 c.p. v. articolo 32 quinquies c.p. inserito dall'articolo 5, comma 2, della 1. n. 97/2001 mentre negli altri casi l'estinzione può essere disposta solo a seguito di procedimento disciplinare. Del tutto infondata è quindi la tesi secondo cui la previsione collettiva de qua articolo 68, comma 8, lett. g, del c.c.r.l. costituirebbe una fattispecie autonoma. estranea alla disciplina di legge_ che nnn interfertoboehhe sulla stessa eoche, secondo i ricorrenti, potrebbe finanche prescindere dall'esito del procedimento penale. Parimenti infondato è poi il secondo motivo, in quanto è evidente che la previsione statutaria della autonomia normativa sullo stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione non attribuisce di certo al c.c.r.l. de quo un rango superiore, restando lo stesso pur sempre un contratto collettivo seppure del comparto non dirigenziale del pubblico impiego della Regione Sicilia . Il ricorso va pertanto respinto e i ricorrenti, in ragione della soccombenza, vanno condannati al pagamento delle spese in favore del controricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a pagare al controricorrente le spese liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi oltre spese generali al 15% e accessori di legge.