Il conferimento dell’incarico dirigenziale rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione

In materia di pubblico impiego privatizzato, l'intera materia degli incarichi dirigenziali è retta dal diritto privato e l'atto di conferimento è espressione del potere di organizzazione che, nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 29/1993 e successive modifiche, è conferito all'amministrazione dal diritto comune. Ne consegue che se gli atti di conferimento e revoca degli incarichi sono ascrivibili al diritto privato, non possono che essere assoggettati ai principi fondamentali dell'autonomia privata e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi e non sono soggetti alle disposizioni della l. n. 241/1990 sui procedimenti amministrativi, né ai vizi propri degli atti amministrativi.

Così è stato stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 23062, depositata il 30 ottobre 2014. La vicenda domanda di un dirigente pubblico di II fascia di riconoscimento del diritto all’incarico di dirigente di I fascia e conseguenti differenze retributive spettanti. Un dirigente pubblico di II fascia agiva in giudizio al fine di ottenere il riconoscimento del diritto all’incarico di dirigente di I fascia e conseguente condanna del proprio Ente al pagamento delle differenze retributive derivanti dal riconoscimento del livello superiore. Il Tribunale del lavoro respingeva la domanda. Proposto appello il dirigente, analogamente la Corte d’Appello respingeva la domanda, rigettando l’appello proposto. Ricorreva allora in Cassazione il dirigente per la riforma della pronuncia d’appello. Il conferimento di incarichi dirigenziali nella p.a Il ricorrente sostiene nel proprio ricorso che nel procedimento di selezione per il conferimento degli incarichi dirigenziali la p.a. sarebbe tenuta all’osservanza ai principi generali previsti dalla legge n. 241/1990, posto che la pubblica amministrazione, anche quando agisce iure privatorum , è tenuta al perseguimento degli interessi pubblici, con osservanza dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione rispetto ai canoni di autonomia del diritto privato. Il motivo proposto, secondo i giudici di legittimità è infondato. Afferma la Suprema Corte che la materia del conferimento di incarichi dirigenziali pubblici è disciplinata dal diritto privato e l'atto di conferimento è espressione del potere di organizzazione che, nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 29/1993 e successive modifiche, spetta alla pubblica amministrazione. L’irrilevanza dei motivi della scelta. Pertanto il datore di lavoro pubblico ha un'ampia potestà discrezionale nella scelta dei soggetti ai quali conferire incarichi dirigenziali, cui corrisponde, in capo a coloro che aspirano all'incarico, una posizione qualificabile come di interesse legittimo di diritto privato, riconducibile, quanto alla tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei diritti di cui all'art. 2907 c.c E, ulteriore conseguenza, gli atti di conferimento degli incarichi non possono che essere assoggettati ai principi fondamentali dell'autonomia privata e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi e non sono soggetti alle disposizioni della l. n. 241/1990 sui procedimenti amministrativi, né ai vizi propri degli atti amministrativi. La motivazione della Corte incensurabile in sede di legittimità. Il ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia dato conto delle ragioni che erano sottese alle scelte dei dirigenti incaricati e dell’esclusione del ricorrente dal novero degli incarichi. Osserva la Suprema Corte che, prima di tutto, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente avrebbe dovuto riportare nel proprio atto il contenuto della delibera di conferimento degli incarichi, a suo dire viziata. Inoltre, dalla motivazione della sentenza impugnata, traspare che la Corte di merito abbia esaminato la delibera di nomina, i curricula e le schede personali dei candidati, prodotte in giudizio nel merito. E non abbia rilevato vizi di sorta od omissioni nelle valutazioni operate dall’ente pubblico, il quale aveva esaminato in sede di scelta dei candidati, anche il fascicolo personale del ricorrente. Quindi, la Corte d’Appello non ha rilevato un uso distorto del potere discrezionale da parte dell’Ente. E di ciò ne ha dato motivazione logica ed immune da vizi censurabili in sede di legittimità. La tardiva costituzione del convenuto non sana la genericità delle allegazioni del ricorrente. Si duole infine il ricorrente che la Corte di merito abbia ritenuto generiche le allegazioni del ricorrente contenute nel ricorso introduttivo. Secondo il ricorrente, la tardiva costituzione dell’ente convenuto e la conseguente irrilevanza delle contestazioni mosse da quest’ultimo, doveva far ritenere provate le allegazioni della parte attrice, senza ulteriore approfondimento istruttorio. Anche tale doglianza è priva di fondamento. Secondo i giudici di legittimità occorre distinguere tra onere di allegazione ed onere della prova. La circostanza che il convenuto si costituisca tardivamente non fa venir meno il diritto a muovere contestazioni alle affermazioni dell’attore. Ove tali allegazioni siano generiche non potrà farsi applicazione del principio di non contestazione, posto che il convenuto non può contestare ciò che non è stato detto. E il giudice di merito ben potrà disattenderle, ritenendole generiche ed indimostrate.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 24 settembre – 30 ottobre 2014, n. 23062 Presidente Roselli – Relatore Nobile Svolgimento del processo Con sentenza n. 9016 del 2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma, rigettava la domanda con la quale il Dott. G.F. , dirigente di II fascia dell'INPDAP, premesso di essere stato illegittimamente pretermesso dal conferimento di funzioni di livello generale stabilite con la delibera 7-12-2000, aveva chiesto l'accertamento del proprio diritto all'incarico di dirigente di I fascia con la condanna dell'istituto alle connesse differenze retributive, ovvero, accertata la violazione delle regole di correttezza e buona fede, la condanna dell'INPDAP al risarcimento del danno, oltre accessori. Il G. proponeva appello avverso la detta pronuncia deducendo che, a differenza di quanto ritenuto dal primo giudice, l'Amministrazione avrebbe dovuto procedere ad una attenta valutazione comparativa degli aspiranti che vi era stato un uso scorretto della discrezionalità riservata all'Amministrazione, la quale, oltre a non aver esaminato il fascicolo personale di esso appellante, aveva proceduto alla nomina di alcuni dirigenti in specifica violazione del disposto dell'art. 19, comma 6, d.lgs. n. 29/93 che richiede a tal fine il pregresso svolgimento, per almeno un quinquennio, di funzioni dirigenziali. L'appellante chiedeva quindi l'accoglimento della originaria domanda. L'istituto appellato si costituiva e resisteva al gravame. La Corte d'Appello di Roma, con sentenza depositata il 9-11-2007, rigettava l'appello. In sintesi, premesso che, trattandosi di conferimento di incarico dirigenziale di primo livello, all'interno della area dirigenziale, l'Amministrazione non era tenuta ad attivare alcuna procedura selettiva, mentre la normativa interna prevedeva un'ampia discrezionalità nella valutazione dei parametri indicati e del peso da dare a ciascuno ai fini del giudizio complessivo, la Corte territoriale rilevava che, in tale contesto, era onere dell'attore allegare e provare fatti dai quali desumere un uso non corretto dei poteri di nomina da parte dell'INPDAP, con violazione dell'obbligo di buona fede e correttezza. Non avendo quindi l'attore assolto a tale onere, né essendo emerso in qualche modo un uso distorto dei poteri da parte dell'Amministrazione nelle nomine effettuate, la Corte confermava, quindi, il rigetto della domanda. Per la cassazione di tale sentenza, il G. ha proposto ricorso con tre motivi. L'INPDAP ha resistito con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt. 2697,2727, 2729, 2735 c.c. e 416 c.p.c., il ricorrente sostiene che, avendo egli con il ricorso introduttivo dedotto e argomentato le incongruenze e la non correttezza del procedimento di nomina dei dirigenti evidenziando in specie la mancata acquisizione del fascicolo personale, la non partecipazione al procedimento nonché l'omissione nell'elenco di numerosi incarichi conferitigli , la mancata costituzione nei termini dell'Istituto convenuto, la irrilevanza delle tardive contestazioni avanzate dallo stesso e la mancata esibizione dei documenti ordinata dal giudice di primo grado dovevano far ritenere provate le allegazioni della parte attrice senza ulteriore approfondimento istruttorio. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. La censura risulta in primo luogo generica e priva di autosufficienza, non essendo riportato integralmente il contenuto delle allegazioni attoree citate contenuto vieppiù necessario per confutare la decisione della Corte di merito che ha affermato che era onere di parte attrice allegare e provare, in maniera puntuale e rigorosa, fatti dai quali desumere un uso non corretto dei poteri di nomina da parte dell'INPDAP e quindi una violazione dell'obbligo di correttezza e buona fede e che parte attrice non ha assolto a tali oneri . Parimenti del tutto generica e priva di autosufficienza risulta anche la censura concernente l'asserita mancata esibizione di non meglio indicati e precisati documenti da parte dell'INPDAP, circostanza peraltro specificamente contestata da parte dell'Istituto controricorrente. La tesi, poi, sostenuta dal ricorrente, risulta altresì infondata. Come è stato ripetutamele affermato da questa Corte v. Cass. S.U. 17-6-2004 n. 11353, Cass. 9-2-2012 n. 1878, Cass. 4-10-2013 n. 22738 , nel processo del lavoro, le parti concorrono a delineare la materia controversa, di talché la mancata contestazione del fatto costitutivo del diritto rende inutile provare il fatto stesso perché lo rende incontroverso, mentre la mancata contestazione dei fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria opera unicamente sulla formulazione del convincimento del giudice. Tuttavia, intanto la mancata contestazione da parte del convenuto può avere le conseguenze ora specificate, in quanto i dati fattuali, interessanti sotto diversi profili la domanda attrice, siano tutti esplicitati in modo esaustivo in ricorso o perché fondativi del diritto fatto valere in giudizio o perché rivolti a introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria , non potendo, il convenuto, contestare ciò che non è stato detto, anche perché il rito del lavoro si caratterizza per una circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova, donde l'impossibilità di contestare o richiedere prova - oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito - su fatti non allegati nonché su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano state esplicitate in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo . Peraltro, come pure è stato più volte precisato v. fra le altre Cass. 9-10-2007 n. 21073, Cass. 16-7-2002 n. 10280 , la preclusione di cui all'art. 416, secondo comma, cod. proc. civ. ha ad oggetto le sole eccezioni in senso proprio e non si estende alle eccezioni improprie ed alle mere difese, ossia alle deduzioni volte alla contestazione dei fatti costitutivi e giustificativi allegati dalla controparte a sostegno della pretesa, le quali trovano la loro disciplina nel comma terzo dello stesso art. 416, la cui disposizione, malgrado il fatto che dette deduzioni non vengano proposte nella memoria di costituzione, non commina comunque la sanzione della decadenza . Nel caso in esame, quindi, deve ritenersi che l'Istituto convenuto, seppure costituitosi tardivamente in primo grado, nel contestare le citate allegazioni non è incorso in alcuna decadenza e che la Corte di merito legittimamente ha ritenuto generiche e non provate le allegazioni stesse. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione della legge n. 241 del 1990, deducendone la applicabilità ai procedimenti di selezione per il conferimento di incarichi dirigenziali di primo livello, essendo prevalente il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione rispetto ai canoni di autonomia propri del diritto privato , ed essendo tenuta la pubblica amministrazione, anche quando agisce iure privatorum , al perseguimento degli interessi pubblici . Tale motivo è infondato. Come è stato affermato da questa Corte v. fra le altre Cass. 22-2-2006 n. 3880, Cass. 9-6-2006 n. 13454 l'intera materia degli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni statali è retta dal diritto privato e l'atto di conferimento è espressione del potere di organizzazione che, nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all'art. 2, primo comma, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, è conferito all'amministrazione dal diritto comune. Ne consegue che se gli atti di conferimento e revoca degli incarichi sono ascrivibili al diritto privato, non possono che essere assoggettati ai principi fondamentali dell'autonomia privata e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi e non sono soggetti alle disposizioni della legge 7 agosto 1990, n. 241 sui procedimenti amministrativi, né ai vizi propri degli atti amministrativi . Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e vizio di motivazione, in sostanza lamenta che la Corte di merito avrebbe dovuto dare conto delle ragioni che erano sottese alle scelte dei dirigenti incaricati ed i motivi della esclusione di esso dr. G. , non essendo il datore di lavoro pubblico autorizzato ad operare scelte arbitrarie . Anche tale motivo non merita accoglimento. Innanzitutto il ricorrente, avrebbe dovuto, in ossequio al principio di autosufficienza, riportare il contenuto della delibera di conferimento degli incarichi dirigenziali di cui si discute. Nella specie, poi, la sentenza impugnata ha affermato che come rilevato dal primo giudice, dall'esame della motivata delibera di nomina e dai curricula dei dirigenti nominati, rilevabili dalle schede acquisite nel corso del giudizio di primo grado, non si evincono elementi tali per ritenere un uso distorto della discrezionalità dell'ente, risultando al contrario che i dirigenti nominati presentavano esperienze professionali, e preparazioni culturali, prima facie adeguate agli incarichi conferiti . La Corte territoriale, in particolare, ha rilevato che non è stato provato che il G. sia stato escluso per l'incompletezza peraltro genericamente dallo stesso dedotta della scheda valutativa compilata dall'ente, restando il fatto che l'INPDAP ha esaminato fatto rimasto non confutato il fascicolo personale del G. stesso. Quanto, poi, alla asserita violazione dell'alt, 19, comma 6, d.lgs. n. 29/1993, la Corte di merito ha rilevato che comunque, seppure si ritenga applicabile tale norma anche agli enti pubblici non economici il requisito del quinquennio dell'esercizio delle funzioni dirigenziali è limitato agli incarichi conferiti a soggetti esterni all'amministrazione ed è alternativo al possesso di una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro, o provenienti dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori ed ha concluso che sulla insussistenza di queste ultime nulla ha specificamente dedotto il G. . Orbene tale motivazione resiste alla censura del ricorrente, che, in sostanza, si limita a ribadire genericamente il proprio assunto senza neppure considerare il decisum specifico sul punto. Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese in favore dell'Istituto controricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare all'INPDAP le spese, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.