Una strana pronuncia della Cassazione: la neo-mamma può dimettersi oralmente

Qualora il lavoratore lamenti di essere stato licenziato oralmente, ed il datore di lavoro eccepisca invece la sussistenza di sue dimissioni, la prova gravante sul dipendente è limitata alla sola estromissione dal servizio, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 22542, depositata il 23 ottobre 2014. Il caso. La Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, rigettava l’impugnazione avanzata da una lavoratrice, relativa alla nullità del licenziamento asseritamente orale intimatole poco dopo la nascita del figlio. A sostegno della propria decisione, i Giudici di merito osservavano come il dedotto recesso orale non risultasse provato mentre, al contrario, gli esiti della prova testimoniale portassero a ritenere che la lavoratrice si fosse volontariamente allontanata dal posto di lavoro. Contro questa pronuncia la lavoratrice proponeva ricorso alla Corte di Cassazione. Il datore di lavoro deve dimostrare le dimissioni. Per quel che qui interessa, la ricorrente lamentava come i Giudici di merito avessero erroneamente posto a suo carico l’onere di dimostrare l’oralità del recesso, con ciò violando i principi ormai da tempo elaborati dalla giurisprudenza conformi a quello esposto in massima . In questo contesto, ad avviso della stessa lavoratrice, la Corte d’appello non aveva tenuto adeguatamente conto della mancata comparizione della società innanzi alla DPL per il tentativo obbligatorio di conciliazione, nonché della messa a disposizione delle proprie energie lavorative. Argomentazioni che tuttavia non vengono condivise dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta il ricorso. Per la Corte l’allegazione diventa prova . In particolare, al suesposto e largamente condiviso principio, la Cassazione aggiunge un inciso per cui sarebbe a carico del lavoratore l’onere della dimostrazione della sua estromissione . Questo inciso tuttavia, il cui rilievo è solo apparentemente trascurabile, induce in errore i Giudicanti portandoli nei fatti a gravare il dipendente di oneri non suoi e, in definitiva, a rigettare una domanda per ragioni concettualmente errate. La Cassazione si adagia infatti sulla valutazione dei Giudici di merito, per la quale mancava la prova della sua estromissione , e sulla circostanza che l’offerta della prestazione lavorativa successiva alla cessazione del rapporto non fosse sufficiente a fini probatori, poiché afferente ad un periodo successivo e come tale non può essere presa in considerazione . Il lavoratore deve solo dimostrare la cessazione del rapporto . L’erroneità di tali considerazioni è evidente, poiché richiedere al lavoratore la prova della propria estromissione , come la Corte fa, significa nei fatti gravarlo della prova del licenziamento, con ciò vanificando il principio che solo formalmente la stessa Corte fa proprio. Al contrario, l’onere di cui è gravato il lavoratore riguarda la sola cessazione del rapporto rispetto alla quale, contrariamente a quanto affermato, è senza dubbio utile l’offerta della propria prestazione lavorativa e la semplice allegazione dell’oralità del licenziamento. Allegazione cui corrisponderà, se del caso, l’onere per il datore di lavoro di provare le dimissioni. Davvero la neo-mamma/lavoratrice può dimettersi liberamente? La sentenza in commento appare errata anche sotto un ulteriore profilo che, per la verità, potrebbe essere stato mal interpretato da chi scrive, atteso che al riguardo la sentenza non è chiara . Anche a volere seguire il a nostro avviso errato percorso argomentativo tracciato dalla Cassazione, non si capisce come una lavoratrice in periodo c.d. protetto possa dimettersi – secondo quanto ci sembra di intuire dalla pronuncia in commento – oralmente. Più correttamente, ad avviso di chi scrive, la Corte avrebbe comunque dovuto prendere atto della mancata convalida delle ipotetiche dimissioni innanzi ai competenti Organi ispettivi del Ministero e, conseguentemente, dichiarare in ogni caso la loro inefficacia aspetto che invece la Corte non ha espresso nemmeno a fini valutativi . Insomma, una sentenza mal scritta e mal argomentata, ben lontana dagli standard a cui la Corte ci ha abituato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 2 luglio – 23 ottobre 2014, n. 22542 Presidente Vidiri – Relatore Napoletano Svolgimento del processo La Corte di Appello di Roma, parzialmente riformando la sentenza del Tribunale di Roma, rigettava, per quello che interessa in questa sede, il capo della domanda proposta da D.S. A. nei confronti della società Domus Medica avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento che assumeva essergli stato intimato oralmente dalla predetta società. A base del decisum la Corte territoriale, dopo aver rilevato che sulla base del solo certificato di nascita della figlia della D.S. non si poteva ritenere provato il dedotto licenziamento verbale, assumeva che non risultava provato quanto allegato dalla lavoratrice che dopo essersi assentata dal lavoro a causa di minacce d’aborto si era ripresentata venendo verbalmente licenziata. Dalle dichiarazioni della teste B., secondo la Corte territoriale, piuttosto si evinceva che la D.S. si era volontariamente allontanata dal lavoro. Avverso questa sentenza la D.S. ricorre in cassazione sulla base di due censure. La società resiste con controricorso. Motivi della decisione Con il ricorso la ricorrente deducendo, contemporaneamente, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, commi 1 e 2, cc nonché omessa o insufficiente motivazione circa un punto” decisivo della controversia, sostiene che la Corte erroneamente non ha considerato che sul lavoratore incombe il solo onere della prova relativo alla sua estromissione dal rapporto di lavoro mentre la relativa prova della controdeduzione spetta la datore di lavoro. Assume, poi, la ricorrente che la Corte del merito non ha tenuto conto della convocazione della società Domus per il tentativo di conciliazione dinanzi la DPL di Roma in epoca d’interdizione del licenziamento e la conseguente messa a disposizione della ricorrente per il ripristino del rapporto di lavoro. La censura - rectius le censure - sono infondate. Invero la giurisprudenza di questa Corte, richiamata dalla ricorrente, secondo la quale qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza di dimissioni del lavoratore, il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice di merito, tenendo conto che, nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, secondo comma, cc” Cass. 19 ottobre 2011 n. 21684 pone a carico del lavoratore l’onere della dimostrazione della sua estromissione. Ebbene la Corte del merito, nell’affermare che vi è solo la prova dell’allontanamento volontario della D.S., appunto ritiene che difetta la prova della estromissione. Né la dimostrazione di tale circostanza può essere deducibile, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, dalla mancata presentazione della società alla convocazione per il tentativo di conciliazione avanti alla DPL di Roma e dalla messa a disposizione, in tale sede, delle energie lavorative da parte della D.S Trattasi, invero, di fatti che in quanto afferenti ad un periodo successivo alla data dell’assunto licenziamento non possono rilevare ai fini di cui trattasi e come tali non possono essere presi in considerazione anche con riferimento alla denunciata interdizione dal licenziamento. Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso va rigettato rimanendo assorbite tutte le altre critiche di cui all’esaminato ricorso. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. P.Q.M . La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in E. 100.00 per esborsi ed E. 3500,00 per compensi oltre accessori di legge.