Nuora e suocera lavorano insieme: quando si tratta di lavoro, non c’è famiglia che tenga

Il carattere residuale dell’impresa familiare, come risulta dall’art. 230- bis c.c., intende coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto, che sia parente entro il terzo grado o affine entro il secondo, che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per cui non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, confinando così in un’area ristretta quella del lavoro familiare gratuito.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 19925, depositata il 22 settembre 2014. Il caso. La Corte d’appello di Messina dichiarava la natura subordinata di un rapporto di lavoro intercorso tra due donne all’epoca nuora e suocera per il periodo 1989 – 1994, con il relativo diritto alla percezione dell’importo. I giudici di merito valorizzavano il fatto che dal 1994 al dicembre 1996 era stato formalizzato tra le due parti un rapporto di impresa familiare, ai sensi dell’art. 230- bis c.c Di conseguenza, la prestazione di lavoro subordinato poteva essere intercorsa solo per il periodo anteriore al 1994, mentre per il periodo successivo al 1996 non poteva ritenersi che l’attività di partecipazione all’impresa familiare fosse effettivamente cessata. La datrice di lavoro, suocera della lavoratrice, ricorreva in Cassazione, sostenendo che la dichiarazione di impresa familiare del 1994 aveva dato una veste formale ad una situazione pregressa esistente da tempo. Perciò, il rapporto intercorso tra le parti nel periodo precedente sarebbe dovuto rientrare nell’ambito delle prestazioni gratuite effettuate affectionis vel benevolentiae causa o dell’impresa familiare. Natura residuale. I giudici della Corte di Cassazione ricordano che il carattere residuale dell’impresa familiare, come risulta dall’art. 230- bis c.c., intende coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto, che sia parente entro il terzo grado o affine entro il secondo, che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per cui non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, confinando così in un’area ristretta quella del lavoro familiare gratuito. Se l’attività è stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito ha l’obbligo di valutare le risultanze di causa, in modo da distinguere tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all’impresa familiare, escludendo comunque la causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. Nel caso di specie, i giudici di merito, pur tenendo presente il vincolo di affinità tra le due donne, avevano valorizzato correttamente le deposizioni testimoniali da cui era emerso che il rapporto effettivamente realizzato era dotato delle caratteristiche della subordinazione. Ciò emergeva anche dalla presenza continuativa della donna in negozio e dall’orario di lavoro. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 maggio – 22 settembre 2014, n. 19925 Presidente Lamorgese – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo Con la sentenza n. 711 del 2011 la Corte d'Appello di Messina riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Patti e dichiarava che fra C.I.S.e G.C. era intercorso una rapporto di lavoro di natura subordinata per il periodo dal 2 maggio 1989 al 4 febbraio 1994 e che in virtù del suddetto rapporto - che aveva avuto ad oggetto l'esercizio di mansioni di commessa nell'esercizio di abbigliamento della all'epoca suocera, sito in Capo d'Orlando - la lavoratrice aveva diritto a percepire l'importo di € 39.465,51 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. Allo scopo la Corte valorizzava la circostanza che dal 4 febbraio 1994 al 6 dicembre 1996 era stato formalizzato tra le parti un rapporto di impresa familiare ex art. 230 bis c.c. riteneva pertanto che la prestazione di lavoro subordinato potesse essere intercorsa soltanto per il periodo anteriore a tale data, mentre per il periodo successivo al 6 dicembre 1996, a differenza di quanto ritenuto dal primo giudice, non poteva ritenersi che l'attività di partecipazione all'impresa familiare fosse effettivamente cessata. Per la cassazione di tale sentenza C.I.S. ha proposto ricorso affidato a due motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c., cui ha resistito G.C. con controricorso. Motivi della decisione 1 Il ricorso per cassazione è affidato a due motivi I.1 .Come primo motivo la ricorrente deduce Violazione o falsa applicazione degli articoli 2094, 2697 primo comma e 2727 del codice civile e omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio . Sostiene che una volta accertato che la dichiarazione di impresa familiare del 2 febbraio 1994 aveva dato una veste formale ad una situazione pregressa esistente da tempo, la Corte avrebbe dovuto inquadrare il rapporto intercorso tra le parti anche per il periodo anteriore nell'ambito delle prestazioni gratuite effettuate affectionis vel benevolentiae causa oppure dell'impresa familiare, il che peraltro sarebbe stato coerente con l'omessa dimostrazione in giudizio, da parte della ricorrente, degli elementi caratterizzanti il lavoro subordinato, quali l'onerosità della prestazione e la sussistenza del vincolo di subordinazione. 1.2. Come secondo motivo deduce l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione relativa alla valutazione delle risultanze probatorie in ordine alla natura subordinata della prestazione resa nel periodo dal 1989 al febbraio 1994. 2. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto attengono entrambi, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, alla valutazione della Corte di merito che ha ritenuto di lavoro subordinato la prestazione svolta nel periodo compreso tra il 4 febbraio 1994 e il 6 dicembre 1996, non sono fondati. 2.1. Il carattere residuale dell'impresa familiare, quale risulta dall`incipit dell'art. 230 bis cod. civ., mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all'impresa del congiunto - parente entro il terzo grado o affine entro il secondo - che non rientrino nell'archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, con l'effetto di confinare in un'area limitata quella del lavoro familiare gratuito. Nei casi nei quali un'attività lavorativa sia stata svolta nell'ambito dell'impresa, il giudice di merito deve tuttavia valutare le risultanze di causa per distinguere tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all'impresa familiare, escludendo comunque la causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. Cass. Sez. L, Sentenza n. 20157 del 18/10/2005 . Sulla base di tale principio, la Corte di merito ha accertato quali fossero le modalità con le quali la prestazione lavorativa era stata resa e, pur tenendo in considerazione il vincolo di affinità che legava la Casella alla proprietaria del negozio, che all'epoca ne era la suocera, ha confermato la sentenza del Tribunale che aveva valorizzato le deposizioni testimoniali dalle quali era emerso che il rapporto effettivamente realizzato era dotato delle caratteristiche della subordinazione, desunte in particolare dalla presenza continuativa della ricorrente in negozio e dal suo orario di lavoro. 2.2. Occorre qui ribadire che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c. nella formulazione operante ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta dall' dall'art. 54, D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 , non equivale a revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione del giudice del merito per una determinata soluzione della questione esaminata, posto che essa equivarrebbe ad un giudizio di fatto, risolvendosi in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità con la conseguente estraneità all'ambito del vizio di motivazione della possibilità per questa Corte di procedere a nuovo giudizio di merito attraverso un'autonoma e propria valutazione delle risultanze degli atti di causa Cass. 28 marzo 2012, n. 5024 Cass. 19 marzo 2009, n. 6694 . Sicché, per la configurazione di un vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo della controversia è necessario che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle risultanze fondanti il convincimento del giudice, onde la ratio decidendi appaia priva di base, ovvero che si tratti di elemento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata Cass. 21 aprile 2006, n. 9368 Cass. 7 luglio 2005, n. 14304 . Tale decisività non si verifica tuttavia nel caso di specie. Le circostanze valorizzate dalla ricorrente sono infatti il contenuto di alcune delle deposizioni testimoniali escusse e la dichiarazione di impresa familiare sottoscritta il 1 febbraio 1994, che avrebbe ratificato una situazione preesistente nella parte in cui dispone che Mangano Salvatore non ne avrebbe fatto più parte. Si rileva però, quanto ai testimoni, che la Corte ha ratificato la valutazione di maggiore attendibilità di alcuni di essi rispetto agli altri per la loro qualità soggettiva e la maggiore conoscenza dei fatti di causa, sicché non può essere sollecitata una diversa valutazione sul merito di tale scelta da parte di questa Corte di legittimità quanto alla dichiarazione di impresa familiare, che la Corte d'Appello ne ha tenuto presente la natura esplicitamente costitutiva, finalizzata a determinare con effetto per il futuro i diritti dei collaboratori ivi indicati, tra i quali viene individuata la Casella, a nulla rilevando che la prestazione del Mangano potesse per il passato configurarsi in un modo diverso. 3. Per le esposte considerazioni il ricorso dev'essere rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 3.000,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi ed accessori di legge.