Dipendente pubblico e avvocato: dubbi sulla legittimità del licenziamento

Per accertare la legittimità del licenziamento per giusta causa motivato dall’incompatibilità tra la professione di avvocato ed il lavoro subordinato presso una p.a., il giudice non deve limitarsi a verificare la sussistenza di un danno effettivo al prestigio dell’amministrazione, ma deve altresì valutare la proporzionalità tra la sanzione espulsiva e l’addebito contestato, nell’ottica del bene giuridico tutelato, ossia l’immagine ed il prestigio della p.a

E’ questa l’indicazione interpretativa contenuta nella sentenza n. 19682/2014 della Corte di Cassazione, depositata il 18 settembre 2014. Dipendente dell’Agenzia delle Entrate, avvocato, vicepretore onorario edisoccupato. Un dipendente part-time dell’Agenzia delle Entrate otteneva l’abilitazione all’esercizio della professione forense, al che, l’Agenzia gli dava 36 mesi di tempo per decidere se rientrare in servizio a tempo pieno o se risolvere il rapporto di lavoro. Non ricevendo alcuna risposta dal dipendente - avvocato, l’Agenzia dava il via ad alcune indagini e scopriva che questi si era cancellato dall’albo degli avvocati e svolgeva il ruolo di vicepretore onorario, senza aver avuto alcuna autorizzazione in tal senso dell’Agenzia. Partiva quindi la contestazione disciplinare per aver svolto, successivamente ai 36 mesi di tempo per l’esercizio dell’opzione, un’attività lavorativa incompatibile con l’impiego presso una p.a Ne scaturiva un lungo contenzioso nel quale la Corte d’Appello, pur avendo accertato la sussistenza di un illecito, aveva ritenuto che quest’ultimo non fosse così grave da legittimare un licenziamento per giusta causa. L’Agenzia delle Entrate ricorreva, quindi, in Cassazione. Incompatibilità e licenziamento. Nelle proprie difese l’Agenzia delle Entrate avvalora la legittimità del licenziamento sulla base del tenore letterale degli artt. 59 e ss. l. n. 662/1996, il cui combinato disposto prevede l’esplicito divieto per i dipendenti di una p.a. di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro, sia esso subordinato od autonomo, che non sia espressamente autorizzato dalla stessa p.a La violazione di tale divieto comporta, ex art. 61 della stessa legge, il licenziamento per giusta causa, nonché la decadenza dall’impiego pubblico, previa diffida alla cessazione della situazione di incompatibilità. L’incompatibilità tra impiego pubblico ed altra attività lavorativa costituisce, quindi, una giusta causa di licenziamento per esplicita previsione legislativa. Tuttavia, la Suprema Corte si spinge oltre il dato letterale ed oggettivo delle norme e, al fine di accertare la legittimità del licenziamento, suggerisce di valutare anche la proporzionalità tra la sanzione espulsiva e l’illecito commesso. Non basta, quindi, che l’illecito sia considerato esplicitamente come giusta causa di licenziamento, ci vuole qualcosa in più la proporzionalità tra sanzione espulsiva ed illecito commesso. Proporzionalità tra sanzione espulsiva ed illecito commesso. Per valutare la proporzionalità tra la sanzione espulsiva e l’addebito contestato al dipendente, la Suprema Corte suggerisce di considerare l’entità della lesione inferta al bene giuridico tutelato, che, nel caso di specie, consiste nel prestigio della p.a., minato dall’esercizio di un’attività lavorativa incompatibile con la funzione pubblica. Ebbene, la l. n. 662/1996 e la l. n. 309/2003 danno al dipendente 36 mesi di tempo per scegliere se proseguire il rapporto di lavoro subordinato presso la p.a. o se recedere dal contratto con quest’ultima ed avventurarsi in un'altra attività lavorativa. Se il dipendente sceglie di restare alle dipendenze della p.a., allora ha il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, a tempo pieno se, invece opta per una diversa attività lavorativa quale la professione forense , mantiene per 5 anni dall’opzione il diritto alla riassunzione in servizio presso la p.a., entro 3 mesi dalla richiesta, ad eccezione di un esubero di personale. Secondo la Corte di Cassazione un simile impianto legislativo dimostrerebbe l’interesse della p.a. a mantenere in servizio i propri dipendenti, pertanto la lesione di tale interesse deve certamente essere considerata ai fini della legittimità del licenziamento. Il giudice di ultima istanza cassa, quindi, la sentenza impugnata e rinvia il giudizio alla Corte territoriale, affinché questa rivaluti la proporzionalità del licenziamento, alla luce non solo del danno subito dalla p.a., ma anche e soprattutto in base all’effettiva lesione del bene giuridico tutelato, che corrisponde al prestigio della p.a. Resta quindi il dubbio sulla legittimità del licenziamento disciplinare comminato al dipendente di una p.a. che abbia esercitato, al contempo, la professione forense.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 29 maggio – 18 settembre 2014, n. 19682 Presidente Roselli – Relatore Berrino Svolgimento del processo P.L. , assunto il 28/12/1999 come collaboratore tributario presso l'ufficio di Urbino a seguito di procedura concorsuale bandita dal Ministero delle Finanze, stipulò in data 29/1/2002, a seguito di accoglimento di una sua richiesta, contratto di lavoro a tempo parziale c.d. part-time con l'Agenzia delle Entrate, dopodiché, in data 13/5/2002, gli venne concessa l'autorizzazione allo svolgimento dell'attività di avvocato. Tuttavia, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 339 del 25.11.2003, che aveva reintrodotto il divieto di iscrizione all'albo degli avvocati del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni, l'Agenzia comunicò al dipendente che aveva 36 mesi di tempo a disposizione per decidere di rientrare in servizio a tempo pieno o di risolvere il rapporto. Data la mancanza di comunicazioni da parte dell'interessato, l'Amministrazione eseguì degli accertamenti inerenti all'attività svolta dal dipendente, che le consentirono di accertare l'avvenuta cancellazione del P. dall'albo degli avvocati e lo svolgimento non autorizzato, da parte del medesimo, di attività di vice procuratore onorario anche dopo la diffida fattagli pervenire il 17/1/2007. A ciò seguì la contestazione disciplinare, pervenuta al P. il 24/10/2007, e a conclusione del relativo procedimento l'amministrazione finanziaria gli intimò il licenziamento in data 4/12/2007, a causa dello svolgimento, da parte del medesimo, dell'attività di avvocato in epoca successiva al 31/12/2006, termine ultimo, questo, stabilito dalla legge n. 339/2003 per l'esercizio dell'opzione alla prosecuzione del servizio, con contestuale cessazione dell'attività di legale. L'impugnativa del licenziamento fu respinta dal giudice del lavoro del Tribunale di Urbino, ma con sentenza del 28/2 - 2/4/2013 la Corte d'appello di Ancona annullò il predetto atto di recesso, dopo aver ritenuto che la sanzione inflitta appariva sproporzionata all'entità degli addebiti, per cui, in riforma della decisione di primo grado, accolse la domanda del P. di vedersi reintegrato in servizio e di sentir condannare l'amministrazione datrice di lavoro al pagamento delle mensilità dal momento del licenziamento a quello della reintegrazione. Per la cassazione della sentenza ricorre l'Agenzia delle Entrate con due motivi, mentre P.L. rimane solo intimato. Motivi della decisione 1. Col primo motivo l'Agenzia delle Entrate denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, commi 57-58-60 e 61 della legge n. 662/1996, degli artt. 53 e 55 del D.lgs n. 165/2001, degli artt. 60 e 61 del d.p.r. n. 3/1957 e dell'art. 67, comma 6, lettera d del CCNL del Comparto delle Agenzie fiscali del 28/5/2004. In particolare, la ricorrente si lamenta del fatto che la Corte d'appello, pur avendo accertato la commissione di un illecito da parte del P. , consistito nell'esercizio, da parte di quest'ultimo, dell'attività non autorizzata di vice-procuratore onorario anche dopo la diffida rivoltagli per la cessazione di ogni attività incompatibile col servizio presso l'amministrazione finanziaria, ha ritenuto che il predetto illecito non fosse così grave da giustificare la sanzione massima del licenziamento. Al riguardo, la ricorrente evidenzia che tale decisione si pone in contrasto con le disposizioni di cui ai commi 58 e 60 dell'art. 1 della legge n. 662 del 1996, atteso che la prima di tali norme stabilisce che il dipendente in regime di tempo parziale è tenuto a comunicare, entro quindici giorni, all'amministrazione nella quale presta servizio, l'eventuale successivo inizio o la variazione dell'attività lavorativa, mentre la seconda dispone che al personale è fatto divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo, tranne i casi di espressa autorizzazione. Nel contempo, la ricorrente fa osservare che le conseguenze della violazione del divieto di cui al comma 60 del citato art. 1 della legge n. 662/96 e della mancata comunicazione di cui al comma 58 della stessa norma sono previste dal comma 61 dell'art. 1 della stessa legge che prevede in tali casi, unitamente all'ipotesi di comunicazioni non veritiere, la sussistenza della giusta causa di recesso per i rapporti disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro e della decadenza dall'impiego per il restante personale, sempreché le prestazioni rese al di fuori del rapporto d'impiego con l'amministrazione di appartenenza non siano rese a titolo gratuito presso associazioni di volontariato o cooperative a carattere socio-assistenziale senza scopo di lucro. Una ulteriore violazione è ravvisata dalla ricorrente nel contrasto del contenuto della motivazione impugnata con quanto disposto dall'art. 60 del d.p.r. n, 3 del 1957 in ordine al divieto per il pubblico dipendente di esercizio di altra professione o attività non autorizzata, divieto, questo, per il quale l'art. 63 dello stesso testo normativo contempla la diffida alla cessazione della situazione di incompatibilità, la cui inottemperanza comporta la decadenza dall'impiego ai sensi dell'art. 127 dello stesso testo unico. La difesa erariale richiama, altresì, la norma di cui all'art. 53 del D.lgs. n. 165 del 2001 per la quale resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e seguenti del testo unico approvato col d.p.r. n. 3 del 10 gennaio 1957. Inoltre, è dedotta la violazione della disposizione collettiva di cui all'art. 67, comma 6, lett. d , del CCNL del comparto delle agenzie fiscali, all'epoca vigente, del 28.5.2004, che prevedeva la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso nell'ipotesi di commissione di fatti o atti di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. Infine, si fa osservare che l'utilizzo, da parte dell'amministrazione, del procedimento disciplinare e non della decadenza dall'impiego, prevista dal citato testo unico degli impiegati civili dello Stato, era stato determinato dal fatto che la norma di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 rinviava, nel caso di dipendente in regime di impiego a tempo parziale, alla disciplina di cui ai commi 58 e seguenti dell'art. 1 della legge n. 662/1996 che prevedeva, in tali ipotesi, il licenziamento disciplinare. 2. Col secondo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2730, 2731, 2732, 2733 e 2735 cod. civ., in quanto contesta la parte della motivazione attraverso la quale la Corte d'appello ha ritenuto che l'ammissione fatta dal dipendente in sede stragiudiziale di continuare a svolgere l'attività di avvocato, anche dopo la diffida rivoltagli il 17/1/2007 per la cessazione di detta attività, non aveva valenza probatoria, avendo il medesimo negato tale circostanza in sede di ricorso giurisdizionale e dovendosi interpretare le dichiarazioni stragiudiziali dal contenuto confessorio come riferite al periodo anteriore alla predetta diffida. Assume, pertanto, la ricorrente che la confessione stragiudiziale effettuata dal dipendente nelle note del 19/9/2007 e del 9/11/2007 aveva valore di piena prova e non poteva essere liberamente valutata dalla Corte d'appello, posto che la dichiarazione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale ai sensi dell'art. 2735 cod. civ Ne conseguiva che la negazione del fatto confessorio effettuata in sede di ricorso giurisdizionale non poteva avere efficacia revocatoria della confessione in assenza di errore di fatto o di violenza, così come previsto dall'art. 2732 cod. civ. In subordine, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012, in quanto la Corte d'appello non avrebbe potuto ordinare la reintegrazione del P. nel posto di lavoro, ma avrebbe dovuto dichiarare risolto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, salvo il risarcimento del danno, atteso che il novellato art. 18 della legge n. 300/70 dispone la reintegrazione, oltre al risarcimento del danno, nel caso di licenziamento nullo perché discriminatorio ed allorquando non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni collettive o dei codici disciplinari applicabili, mentre nella fattispecie l'illecito disciplinare commesso dal P. non era punibile con una specifica sanzione conservativa, essendo previsto il licenziamento. Osserva la Corte che per ragioni di connessione, dovute alla comune questione della proporzionalità della sanzione del licenziamento, i due motivi possono essere trattati congiuntamente. Al riguardo la Corte territoriale, dopo aver dato atto del fatto che pure il lavoratore aveva ammesso che la protratta attività di vice procuratore onorario da lui svolta dopo il 31.12.2006 doveva essere autorizzata, in quanto le esigenze di reperibilità e disponibilità connesse lo esigevano anche rispetto al dipendente impiegato a tempo parziale, è però pervenuta al convincimento che nella fattispecie il protrarsi della suddetta attività aveva riguardato pochi mesi e non risultavano essersi verificati in concreto inconvenienti per l'espletamento del servizio o per il prestigio dell'amministrazione, nemmeno in termini di possibile incompatibilità del ruolo, per cui la sanzione espulsiva non poteva ritenersi adeguata. Tale motivazione non è condivisibile e presta il fianco alle censure mosse dalla ricorrente. Invero, nel valutare la proporzione della sanzione inflitta al dipendente la Corte di merito ha delimitato il giudizio alla sola verifica della sussistenza o meno di un danno effettivo al prestigio dell'amministrazione in conseguenza della incompatibilità del ruolo di vice procuratore onorario, svolto dal P. dopo il 31.12.2006, rispetto alla prestazione del servizio di pubblico impiego al quale il medesimo non aveva rinunziato. In tal modo, la Corte d'appello ha ignorato altri elementi decisivi, quali quelli indicati dall'odierna ricorrente, che avrebbero dovuto indurla a considerare l'illecito addebitato al dipendente, ai fini della verifica del carattere proporzionale della sanzione inflitta, nell'ottica della messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalle norme di riferimento e non solo del concreto verificarsi di un danno. Occorre, infatti, considerare che la legge applicata nella fattispecie, vale a dire quella del 25 novembre 2003 n. 339, contiene norme precise in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato e mira a scongiurare il rischio dovuto al verificarsi di una eventuale situazione di incompatibilità, potenzialmente dannosa per l'immagine ed il prestigio della pubblica amministrazione, attraverso la previsione di un determinato meccanismo art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 339/2003 basato sull'esercizio del diritto di opzione del dipendente ancora iscritto all'albo degli avvocati, da esercitarsi entro un preciso termine trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della legge n. 339/2003 , tra la ripresa del servizio a tempo pieno nel pubblico impiego, previa cancellazione dal suddetto albo, o la continuazione della libera professione, previa cessazione del rapporto di pubblico impiego. Non va, infatti, trascurato che, una volta esercitata la scelta per il mantenimento del rapporto di pubblico impiego, il dipendente ha diritto ad essere reintegrato a tempo pieno art. 2, comma dell'art. 2, l. n. 339/2003 , per cui è ancor più evidente il rischio di una messa in pericolo del bene tutelato dalla norma in esame, vale a dire l'eliminazione di situazioni di incompatibilità a garanzia dell'immagine e del prestigio della pubblica amministrazione. Oltretutto, anche per il dipendente pubblico in regime di lavoro a tempo parziale c.d. part-time che abbia, invece, esercitato l'opzione per la professione forense l'art. 2, comma 4, della stessa legge n. 339/2003, prevede che il medesimo conservi per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell'opzione presso l'Amministrazione di appartenenza, aggiungendo che in tal caso l'anzianità resta sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla data di riammissione. Egualmente non è esente da censure il ragionamento dei giudici d'appello laddove i medesimi, nell'esaminare il modulo sottoscritto il 19.9.2007 e la nota del 9.11.2007 di risposta alla contestazione disciplinare, hanno affermato che l'indicazione fornita in tali documenti di svolgere attività di avvocato non era riferibile all'attualità. Infatti, come ha correttamente posto in rilievo la difesa erariale, il biennio di riferimento contenuto nel predetto modulo, il cui contenuto venne ribadito nella successiva nota di risposta alla contestazione disciplinare, atteneva all'arco temporale compreso tra il 19.9.2005 ed il 19.9.2007, per cui era comprensivo anche del periodo di tempo, successivo al 31.12.2006, rispetto al quale era sorto in concreto il problema dell'incompatibilità oggetto di causa. Infatti, il P. aveva continuato a svolgere le funzioni di vice procuratore onorario in mancanza di una specifica autorizzazione in relazione al periodo in cui era già maturato il suo diritto alla reintegrazione nel rapporto di pubblico impiego a tempo pieno. Pertanto, il ricorso è fondato nei termini sopra illustrati da questa Corte. In conseguenza dell'accoglimento del ricorso la sentenza impugnata va cassata ed il procedimento va rinviato ad altra Corte d'appello, che si individua in quella di Perugia, che eseguirà un nuovo giudizio sulla natura proporzionale o meno del licenziamento alla luce degli elementi di diritto e dei dati processuali sopra indicati, provvedendo anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il giudizio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Perugia.