I compensi per le prestazioni sono concordati in misura inferiore al tariffario professionale: nessun salvagente dal giudice

In ambito di lavoro autonomo, ove le prestazioni siano state remunerate in base a compenso previamente pattuito, pur in misura inferiore a quanto stabilito dal tariffario professionale applicabile, non può trovare applicazione l’art. 2233 c.c., nella parte in cui prevede che il compenso spettante sia determinato dal giudice. Ciò in quanto il potere di determinazione giudiziale del corrispettivo presuppone l’inesistenza di una pattuizione, non la sua insufficienza o difformità rispetto alle tariffe professionali.

Principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19224, pubblicata l’11 settembre 2014. La vicenda domanda di un medico specialista di riconoscimento di rapporto di lavoro subordinato o in subordine di condanna al pagamento delle differenze di compenso tra quelle erogate e quelle derivanti dal tariffario professionale. Un medico specialista neurologo aveva proposto azione nei confronti dell’Azienda sanitaria presso cui prestava la propria attività al fine di ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e la conseguente illegittimità del licenziamento adottato o in subordine, la condanna dell’ente al pagamento delle differenze di compenso tra quelle erogate e quelle spettanti in applicazione del tariffario professionale. Il Tribunale del lavoro rigettava le domande. Proposto appello il medico, la Corte territoriale, respingeva il gravame. Ricorreva in Cassazione il medico per la riforma della sentenza di secondo grado. Il regime del compenso per l’attività prestata, secondo l’art. 2233 c.c Un primo motivo di ricorso riguarda l’omesso esame della domanda di condanna al pagamento delle differenze di compenso derivanti dall’applicazione delle tariffe professionali mediche. E viene denunciata la violazione degli artt. 2233, 2235 e 2041 c.c La Suprema Corte censura il motivo proposto, osservando prima di tutto che non è stato chiarito dal ricorrente se le remunerazioni effettivamente erogate siano state unilateralmente imposte dall’azienda, o se siano frutto di una preventiva pattuizione. E dunque già per tale aspetto, il ricorso si scontra con il principio di autosufficienza. In ogni caso, osservano i giudici di legittimità, il potere del giudice di determinare il compenso per l’attività professionale svolta, in applicazione dell’articolo 2233 c.c., presuppone la mancanza di pattuizione del compenso essendo in tal caso chiamato il giudice a sostituirsi alla volontà delle parti. Ove, come nel caso in esame, il compenso sia stato preventivamente concordato dalle parti, pur in misura inferiore a quanto stabilito dal tariffario professionale, non potrà farsi applicazione di tale potere giudiziale. Né l’accordo di determinazione dei compensi potrà essere considerato nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c., in quanto l’inderogabilità delle tariffe professionali è diretta a tutelare non interessi di carattere generale, ma la dignità e il decoro professionale. La prova della natura subordinata è a carico del lavoratore e le valutazioni sono incensurabili in sede di legittimità. Altro motivo di ricorso riguarda il mancato riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso. Sul punto, tuttavia, la Suprema Corte si limita ad osservare che la prova della natura subordinata del rapporto di collaborazione è a carico del lavoratore. Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità, sussiste solo ove risulti nel ragionamento seguito dal giudice il mancato o insufficiente esame di un fatto decisivo della controversia. La valutazione delle prove può essere controllata in sede di legittimità unicamente sotto il profilo logico-formale, ma non può spingersi ad un riesame delle valutazioni già espletate dai giudici di merito. Il ricorso proposto si riduce, sostanzialmente, ad una difforme valutazione delle risultanze probatorie rispetto a quelle adottate, con ragionamento completo ed immune da vizi, dalla Corte d’Appello. Dunque il ricorso è stato rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 luglio – 11 settembre 2014, n. 19224 Presidente Macioce – Relatore Manna Svolgimento del processo Con sentenza depositata il 18.2.11 la Corte d'appello di Roma rigettava il gravame proposto dal dr. G.M. - medico specialista neurologo - contro la sentenza del Tribunale capitolino che ne aveva respinto la domanda intesa ad ottenere il riconoscimento d'un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 13.10.94 alle dipendenze della Casa Generalizia dell'Ordine Ospedaliero S. G. di Dio - Ospedale Calabita Fatebenefratelli e la reintegra nel posto di lavoro a seguito dell'illegittimo licenziamento sostanzialmente ravvisabile nella comunicazione con cui il 21.12.2000 l'ospedale lo aveva estromesso dal posto di lavoro. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il dr. M. affidandosi a due motivi. La Casa Generalizia dell'Ordine Ospedaliero S. G. di Dio - Ospedale Calabita Fatebenefratelli resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione 1- Con il primo motivo si lamenta omessa pronuncia e vizio di motivazione nella parte in cui l'impugnata sentenza non ha statuito sulla domanda di pagamento, secondo le tariffe professionali, delle prestazioni da lui espletate dal l'.2.95 al 21.12.2000, con ciò violando anche gli artt. 2233, 2235 e 2041 c.c. Il motivo è inammissibile perché non chiarisce la decisività dell'error in procedendo, ossia le ragioni per le quali la pronuncia, se adottata, avrebbe dovuto portare all'accoglimento della domanda avanzata in subordine dal ricorrente. A tale riguardo si noti che lo stesso ricorrente ammette di essere stato remunerato, dal 1 ° .2.95 al 21.12.2000, a prestazione. Non chiarisce, però, se il quantum del compenso per ciascun tipo di prestazione medica sia stato previamente pattuito tra le parti o sia stato unilateralmente imposto dalla controricorrente, rivelandosi il ricorso non autosufficiente perché non trascrive le allegazioni a riguardo contenute nell'atto introduttivo del giudizio. È, poi, appena il caso di ricordare che, ove la remunerazione sia avvenuta in base a previa pattuizione del compenso per quanto - in ipotesi - inferiore alle tariffe professionali, ad ogni modo risulterebbe fuori luogo la dedotta violazione degli artt. 2233 e 2235 c.c., giacché il potere di determinazione giudiziale del corrispettivo dovuto al libero professionista suppone l'inesistenza di una pattuizione, non la sua insufficienza o la sua difformità rispetto alle tariffe previste per gli esercenti la professione medica peraltro, l'art. 2 co. 3° legge n. 244/63 - applicabile ratione temporis al caso di specie - il quale prevede l'obbligatorietà della tariffa nazionale, è diretto a tutelare interessi non di ordine generale, ma riferibili alla dignità e al decoro della categoria professionale, con la conseguenza che l'eventuale violazione dell'indicato precetto, con un patto di deroga al minimo tariffario, non comporta nullità del patto medesimo ai sensi dell'art. 1418 c.c. cfr. Cass. n. 6151/86 Cass. n. 260/83 . Infatti, per consolidata giurisprudenza di questa S.C. cui va data continuità , il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa e adeguato all'importanza dell'opera solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l'art. 2233 c.c. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di quest'ultima e in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non operano i criteri di cui all'art. 36 co. 1° Cost., applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato cfr., da ultimo, Cass. n. 17222/11 Cass. n. 21235/09 . Né avrebbe spazio l'azione generale di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., che ex art. 2042 c.c. ha carattere solo sussidiario, potendo essere esperita unicamente quando manchi un titolo specifico su cui fondare il credito, non quando il credito stesso si riveli giuridicamente insussistente. 2- Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 legge n. 230/62, dell'art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale mal valutato le risultanze probatorie documentali e dichiarative , risultanze che avrebbero dovuto indurla ad accogliere la domanda di riconoscimento d'un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e di reintegra nel posto di lavoro. Il motivo - che sostanzialmente lamenta solo un cattivo governo della prova - si colloca all'esterno dell'area dell'art. 360 co. l° n. 5 c.p.c. nel testo previgente, applicabile ratione temporis nel caso di specie . Infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema - da cui non si ravvisa motivo alcuno di discostarsi - il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di un fatto decisivo della controversia, potendosi in sede di legittimità controllare unicamente sotto il profilo logico - formale la valutazione operata dal giudice del merito, soltanto al quale spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione cfr., ex aliis, Cass. S.U. 11.6.98 n. 5802 e innumerevoli successive pronunce conformi . Né il ricorso isola come invece avrebbe dovuto singoli passaggi argomentativi per evidenziarne l'illogicità o la contraddittorietà intrinseche e manifeste vale a dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura del materiale di causa , ma ritiene di poter enucleare vizi di motivazione dal mero confronto con documenti e deposizioni, vale a dire attraverso un'operazione che suppone un accesso diretto agli atti ed una loro delibazione non consentiti in sede di legittimità. Per il resto, il ricorso si dilunga in difformi valutazioni delle risultanze del processo, che l'impugnata sentenza ha esaminato in maniera completa e con motivazione immune di vizi logico-giuridici. 3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo e in proporzione al valore della controversia, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 100,00 per esborsi e in euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge ed oltre spese generali nella misura del 15%.