Da risarcire il lavoratore, tanto quanto dura il demansionamento

Accertato il demansionamento, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno professionale. La quantificazione di tale danno può essere operata dal giudice di merito in via equitativa, tenendo conto dei soli giorni lavorativi in cui la professionalità è stata compromessa.

E’ quanto emerge dalla sentenza n. 18965 della Corte di Cassazione, depositata il 9 settembre 2014. Il caso. I Giudici di primo grado accoglievano la richiesta risarcitoria per danni alla professionalità della lavoratrice per essere stata dequalificata e quantificavano equitativamente il risarcimento nella misura della metà delle retribuzioni ricevute per le giornate di effettiva attività durante il periodo del demansionamento. La Corte d’appello confermava la determinazione equitativa del risarcimento del danno subito dalla lavoratrice per essere stata adibita a mansioni dequalificate rispetto al grado rivestito ed alla professionalità raggiunta. La società, datrice di lavoro, ricorreva in Cassazione censurando l’impugnata sentenza per aver taciuto del tutto sui parametri in base ai quali aveva operato la liquidazione equitativa. Da indicare i criteri seguiti per determinare il risarcimento. Il motivo è infondato. E’ pacifico in sede di legittimità che qualora proceda alla liquidazione del danno in via equitativa, il giudice di merito, affinché la sua decisione non presenti i connotati dell’arbitrarietà, deve indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, risultando il suo potere discrezionale sottratto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell’ammontare dei danni liquidati Cass., n. 8213/2013 . E’ equo il risarcimento riferito alle sole giornate dedicate alle mansioni dequalificanti. Nel caso in esame, la Corte d’appello, nel confermare la pronuncia di primo grado, ha correttamente affermato che considerato anche che il demansionamento si è perpetuato per meno di sei mesi, appare rispondente ad equità ritenere che il suo bagaglio professionale sia stato compromesso solo durante la poche giornate in cui la lavoratrice si è dedicata alle nuove mansioni che, peraltro, non richiedevano alcun impegno e non la occupavano per tutte le ore di lavoro . Alla stregua di quanto affermato, la Corte Suprema rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 giugno – 9 settembre 2014, n. 18965 Presidente Roselli – Relatore Nobile Svolgimento del processo Con ricorso al Giudice del lavoro del Tribunale di Napoli del 21-3-2001 B.G. , quadro presso il Banco di Napoli, già preposta prima all'ufficio VIII e poi all'ufficio X, assumeva che il 15-10-1999 era stata assegnata all'ufficio VII senza specifiche mansioni che il 14-1-2000 le era stata affidata la preposizione dell'ufficio I Segreteria del Servizio senza ricevere le consegne dal precedente titolare né gli strumenti normativi necessari che dagli inizi del 1999 la Direzione aveva adottato nei suoi confronti soprusi e angherie che dal 18-9-2000, trasferita all'ufficio VI, aveva trascorso la sua giornata quasi del tutto inattiva perché non le era stato affidato alcun incarico che tali comportamenti erano stati particolarmente gravi in quanto iniziati in un periodo per lei difficile per gravissimi motivi familiari essendo stato il coniuge colpito da una grave malattia che lo aveva portato alla morte nel dicembre 1999 . Tanto premesso la ricorrente chiese il risarcimento dei danni subiti per effetto delle continue vessazioni mobbing di cui era stata destinataria, da quantificarsi anche in via equitativa chiese, poi, che accertata la sua dequalificazione, le fossero assegnate mansioni adeguate alla sua professionalità, con condanna della società al risarcimento danni, da quantificarsi anche in via equitativa. La s.p.a. San Paolo IMI contestava quanto sostenuto dalla B. e concludeva per il rigetto della domanda. Il giudice adito, con sentenza depositata il 7-10-2003, dichiarava la nullità della domanda riguardante il mobbing ed accoglieva la richiesta risarcitoria per danni alla professionalità per esservi stata dequalificazione nel periodo 18-9-2000/21-3-200 quantificava equitativamente il risarcimento nella misura della metà delle retribuzioni ricevute per le giornate di effettiva attività con riferimento al predetto periodo, oltre accessori. Con ricorso dell'8-7-2004 la San Paolo IMI impugnava parzialmente la decisione di primo grado, con riferimento soltanto all'accertamento della dequalificazione, in quanto i testi escussi avevano reso dichiarazioni non interpretate correttamente dal primo giudice. Evidenziava, poi, che quest'ultimo si era spinto ultra petita in quanto aveva disposto il risarcimento del danno con riferimento alla perdita di professionalità, mentre la B. aveva chiesto il risarcimento per danni subiti sul piano biologico. Precisava comunque che non era stato provato alcun danno, considerato in re ipsa dal giudice, e concludeva, pertanto, per la parziale riforma della sentenza di primo grado con rigetto della domanda riguardante la asserita dequalificazione e condanna dell'appellata alla restituzione della somma di Euro 4.760,11 corrisposta in dipendenza della esecuzione della sentenza di primo grado. La B. si costituiva resistendo al gravame di controparte e proponendo appello incidentale, chiedendo che la quantificazione del risarcimento fosse estesa anche ai giorni di assenza dal lavoro nel periodo riconosciuto dal primo giudice e che fosse accolta anche la domanda di risarcimento da mobbing essendo stato dedotto ogni elemento utile ai fini della sua individuazione. La Corte d'Appello di Napoli, con sentenza depositata il 31-7-2007, rigettava entrambi gli appelli. In sintesi la Corte territoriale, in base alle risultanze della prova testimoniale, riteneva accertato il demansionamento con il trasferimento all'ufficio VI Vigilanza, allorquando la B. si trovò gerarchicamente sottoposta al quadro S.R. , svolgendo attività del tutto secondarie e marginali. Nel contempo la Corte confermava la determinazione equitativa del risarcimento del danno, evidenziando che il primo giudice non era incorso in alcuna ultrapetizione, avendo la attrice fin dall'inizio chiesto il risarcimento dei danni per essere stata adibita a mansioni dequalificate rispetto al grado rivestito e ed alla professionalità raggiunta . La Corte di merito riteneva, poi, corretta la quantificazione operata dal primo giudice sulla base delle giornate lavorative effettive e, seppure considerava valida la domanda di risarcimento per mobbing, la rigettava nel merito, non essendo stati neppure allegati reiterati e specifici comportamenti datoriali vessatori e aggressivi a suo danno, come tali mobbizzanti . Per la cassazione di tale sentenza la Intesa San Paolo s.p.a. ha proposto ricorso con cinque motivi. La B. ha resistito con controricorso. La s.p.a. Intesa San Paolo ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 2103 c.c. e degli artt. 1362 e ss. sull'interpretazione del CCNL di categoria 11-7-1999 e dell'accordo 7-5-1997, la ricorrente si duole che la Corte territoriale si è lasciata suggestionare dalla considerazione che la B. dal 18-9-2000 era stata assegnata all'ufficio Vigilanza, dove non aveva conservato la posizione di preposta e deduce che le mansioni di preposizione non sono le uniche attribuite ai quadri e neppure quelle maggiormente qualificanti e che la Corte di merito avrebbe dovuto accertare la equivalenza o meno delle nuove mansioni rispetto a quelle precedenti. Il motivo in parte è inammissibile e in parte è infondato. In primo luogo non viene indicata specificamente la collocazione tra gli atti processuali del CCNL e dell'accordo aziendale richiamati v. Cass. S.U. 3-11-20 U n. 22726 , dei quali vengono, peraltro, riportati soltanto alcuni stralci del tutto inidonei ai fini dell'osservanza del principio di autosufficienza, in relazione al vizio di interpretazione dei detti atti denunciato. La censura si incentra, poi, nella denuncia di insufficiente e contraddittoria motivazione al riguardo e circa il necessario accertamento della equivalenza o meno delle nuove mansioni rispetto alle precedenti. Tale censura è infondata in quanto la Corte di merito, dopo aver attentamente analizzato le risultanze della prova testimoniale ha accertato che la B. , allorquando venne spostata all'ufficio VI ha perso la preposizione che aveva avuto in precedenza ed è stata addetta a tenere un registro statistico delle rapine, mansione che, oltre ad essere di minima rilevanza, la teneva occupata solo per poco tempo . Successivamente la B. all'inizio del 2001 fu spostata all'ufficio budget ed addetta a digitare dati al computer, per poi giungere all'ufficio Segreteria ove si occupò dello smistamento della Posta. Tanto rilevato la Corte territoriale ha affermato che le mansioni affidate alla appellata dal settembre 2000, dunque, non sono più state quelle di preposto con altri dipendenti a lei sottoposti ma, oltre ad essere di poca rilevanza, escludevano anche la posizione di preposto che, sebbene non siano le uniche affidate ai quadri, sono certo quelle maggiormente qualificanti, rappresentative e gratificanti anzi, ella fu sottoposta gerarchicamente ad un altro quadro e lasciata sostanzialmente inattiva, visto che le attività affidatele la tenevano occupata poco tempo nell'ambito della giornata lavorativa . Tale accertamento di fatto risulta congruamente motivato e resiste alla censura della società ricorrente, che, peraltro, in effetti, neppure indica specificamente quali siano state le mansioni qualificanti anche se non di preposizione , svolte dalla lavoratrice, che sarebbero state trascurate dalla Corte di merito. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la mancata considerazione del fatto che la B. aveva rifiutato di ricevere il foglio contenente il carico di lavoro che le era stato affidato , così manifestando un sostanziale rifiuto di eseguire le mansioni maggiormente qualificanti che le erano state assegnate , e che nel periodo in questione la lavoratrice era rimasta spesso assente per malattia e cause varie. Anche tale motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. In primo luogo la ricorrente afferma di aver censurato sul punto con l'atto di appello la pronuncia di primo grado, ma non riporta specificamente il contenuto di tale atto nella parte de qua , in ossequio al principio di autosufficienza. La ricorrente, poi, neppure indica alcuna risultanza istruttoria dalla quale sarebbe emersa la circostanza di fatto invocata, per cui deve ritenersi che la stessa in definitiva sia rimasta una mera asserzione. Infine della circostanza che il demansionamento si è perpetrato per meno di sei mesi durante i quali la presenza al lavoro della appellata non è stata certo costante la Corte di merito ha già tenuto ampiamente conto. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta ultrapetizione deducendo che i giudici di merito hanno riconosciuto un risarcimento del danno alla professionalità, pur avendo il ricorso introduttivo ad oggetto soltanto il danno alla salute. Tale motivo è infondato giacché, come ha rilevato la Corte d'Appello, la B. con il ricorso introduttivo aveva chiesto il risarcimento dei danni per essere stata adibita a mansioni dequalificate rispetto al grado rivestito ed alla professionalità raggiunta , di guisa che non vi è stata alcuna ultrapetizione. Del resto si tratta chiaramente di una componente del danno complessivo lamentato con la domanda. Infine con il quarto motivo la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata avrebbe taciuto del tutto sui parametri in base ai quali ha operato la liquidazione equitativa . Anche tale motivo è infondato. Come è stato chiarito da questa Corte qualora proceda alla liquidazione del danno in via equitativa, il giudice di merito, affinché la sua decisione non presenti i connotati della arbitrarietà, deve indicare i criteri seguiti per determinare l'entità del risarcimento, risultando il suo potere discrezionale sottratto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell'ammontare dei danni liquidati v. fra le altre Cass. 4-4-2013 n. 8213 . Nel caso in esame la Corte d'Appello, nel respingere l'appello incidentale della B. e nel confermare la pronuncia di primo grado, circa la quantificazione del risarcimento del danno nel 50%, delle retribuzioni giornaliere spettanti per ogni giorno di effettivo servizio, ha affermato che, considerato anche che il demansionamento si è perpetrato per meno di sei mesi vedi sopra , appare rispondente ad equità ritenere che il suo bagaglio professionale sia stato compromesso solo durante le poche giornate in cui ella si è dedicata alle nuove mansioni che, peraltro, non richiedevano alcun impegno e non la occupavano per tutte le ore di lavoro . Tale motivazione risulta senz'altro conforme al principio sopra richiamato essendo evidenziati il criterio e i fatti rilevanti e resiste alla censura della ricorrente. Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della B. . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla B. le spese liquidate in Euro 100,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali e accessori di legge.