Niente ‘fermata’ causa rom in attesa, lite violenta con un collega: addio lavoro per l’autista

Fatale la decisione dell’oramai ex conducente di autobus dell’Atac di Roma di avere evitato di far salire alcune persone di etnia rom, che avevano con loro una bombola del gas. Quell’episodio conduce a una violenta lite con un collega. E ciò spinge l’azienda, legittimamente secondo i giudici, ad allontanare definitivamente l’autista, colpevole di una condotta che lo ha reso indegno della pubblica stima.

Ben 7 anni trascorsi dal fattaccio lo scontro fisico con un collega, scontro provocato da un episodio verificatosi durante il normale orario di lavoro. E ora la chiusura definitiva della vicenda confermato il licenziamento del dipendente – un autista di autobus – dell’Atac di Roma. Fatale l’applicazione del Regio decreto n. 148/1931, ossia l’avere assunto una condotta tale da rendere il dipendente indegno della pubblica stima Cassazione, sentenza n. 18954, sez. Lavoro, depositata oggi . Fermata saltata. Casus belli la scelta dell’autista di evitare, all’epoca – anno 2007 – la fermata prevista lungo il regolare tragitto dell’autobus da lui condotto per le strade di Roma fatale, racconta l’uomo, la presenza di alcune persone di etnia rom, in attesa, con un carrello della spesa contenente una bombola di gas . Quella decisione mette, però, in moto una incredibile ‘reazione a catena’ Difatti, un collega – alla guida di un secondo bus, sempre sulla stessa linea – accusa di razzismo l’autista, segnalandolo all’ispettore aziendale di turno. E, poi, chiede, in maniera minacciosa, un incontro all’autista che aveva ‘saltato’ la fermata, dandogli appuntamento nella struttura del deposito della Magliana. Proprio in quello scenario si concretizza la lite – aggravata anche dalla presenza del figlio minorenne dell’autista criticato dal collega di turno –, e tale episodio spinge l’azienda – l’Atac – a licenziare il conducente, che aveva saltato la fermata, a causa dello scontro fisico coll’altro conducente. Provvedimento eccessivo? Assolutamente no, ribattono i giudici di merito, ritenendo corretto il licenziamento per giusta causa deciso dall’azienda, e valutando fatale la condotta dell’autista, co-protagonista della lite e, soprattutto, recatosi all’incontro nel deposito della Magliana colla chiara intenzione di affrontare lo scontro fisico. Lite fatale. Secondo l’uomo – con ben diciotto anni di lavoro alle spalle, sempre nell’Atac –, però, la misura adottata dall’azienda è eccessiva. Anche perché, viene evidenziato nel ricorso in Cassazione, normativa alla mano, per alterchi, disordini, risse nei locali dell’azienda o loro dipendenze è prevista la sospensione dal servizio e non la destituzione . Ma tale obiezione non viene ritenuta plausibile dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, difatti, confermano, in via definitiva, il licenziamento . Decisivo, spiegano i giudici, il fatto che il lavoratore abbia assunto una condotta tale da renderlo indegno della pubblica stima . Su questo punto, in particolare, i giudici ancora sottolineano che l’uomo era andato appositamente all’appuntamento nel deposito della Magliana, quando egli aveva invece terminato il proprio turno di lavoro molte ore prima, dimostrando la intenzionalità dei propri comportamenti .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 7 maggio – 9 settembre 2014, numero 18954 Presidente Vediri – Relatore Napoletano Svolgimento del processo La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di C.S., proposta nei confronti della società ATAC, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento per giusta causa. La Corte del merito, dopo aver sottolineato che il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento in base all'art. 45 numero 6 del RD numero 148 del 1931 per aver il lavoratore assunto una condotta tale da renderlo indegno della pubblica stima, poneva a fondamento del decisum, per quello che interessa in questa sede, il rilievo, secondo il quale sussisteva la giusta causa del licenziamento essendosi il C. presentato all'appuntamento con il V. accettando il rischio di addivenire alle vie di fatto, agendo, quindi, con dolo eventuale, ossia con la consapevolezza e la volontà che qualora ve ne fosse stato bisogno, anche egli sarebbe stato pronto alle vie di fatto, cosa che poi era effettivamente accaduta, così che il rischio si era tradotto in evento dannoso concreto. Alla luce di questo carattere comunque e complessivamente doloso del comportamento tenuto dal C., secondo la predetta Corte, andava rigettato l'ulteriore motivo del gravame relativo alla pretesa sproporzione tra sanzione e l'illecito disciplinare contestato. Né, aggiungeva la Corte capitolina, rilevava la richiesta prova testimoniale tesa a dimostrare che il C. era stato aggredito dal V. atteso che ciò che rimaneva a lui imputabile e rimproverabile era di essere andato appositamente all'appuntamento nel deposito della Magliana quando egli invece aveva terminato il proprio turno di lavoro molte ore prima dimostrando la intenzionalità dei propri comportamenti perfettamente compatibili con l'aspra violenza manifestata nell'occasione dal V. addirittura verso una persona minorenne . Avverso questa sentenza il C. ricorre in cassazione sulla base di due censure, illustrate da memoria. Resiste con controricorso la società intimata che deposita, altre!, memoria ai sensi dell'art. 378 cpc. Motivi della decisione Con il primo motivo del ricorso il C., deducendo che la Corte di Appello ha deciso la controversia in modo non conforme ad una legge dello Stato, sostiene che non è stata erroneamente applicata la legge numero 148 del 1931 ed in particolare l'art. 42 punto 15 del relativo allegato, secondo il quale per alterchi in via di fatto, ingiurie verbali, disordini, risse o violenze sui treni, lungo le linee, nei locali dell'azienda o loro dipendenze è prevista la sospensione dal servizio e non la destituzione. La censura è infondata. Parte ricorrente, infatti, non tiene conto che il licenziamento è stato intimato e valutato, come rimarcato dalla Corte del merito, ex art. 45 numero 6 del RD numero 148 del 1931 per aver il lavoratore assunto una condotta tale da renderlo indegno della pubblica stima e non, quindi, per la rilevanza in sé della condotta ascritta, ma per i riflessi che questa comportava ai fini ed agli effetti del richiamato art. 45 numero 6 del RD numero 148 del 1931. Né può sottacersi che comunque la questione di cui al motivo di censura in esame, che comporta un accertamento di fatto, non risulta trattata in alcun modo nella sentenza impugnata ed il ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non ha indicato in quale atto del giudizio precedente ha dedotto la questione Cass. 2 aprile 2004 numero 6542, Cass. Cass. 21 febbraio 2006 numero 3664 e Cass. 28 luglio 2008 numero 20518 . Conseguentemente il motivo, a parte ogni considerazione circa la mancata formale indicazione del vizio denunciato che può essere ricondotto nell'ipotesi di cui al numero 3 dell'art. 360 cpc, è infondato. Con la seconda censura il ricorrente, deducendo violazione dell'art. 421 cpc, assume che il giudice di appello ha omesso di accertare i fatti attraverso i testi. La censura è infondata. Infatti la Corte del merito dà conto che la richiesta prova testimoniale, tesa a dimostrare che il C. era stato aggredito dal V., non rileva poiché ciò che rimaneva a lui imputabile e rimproverabile – come già ricordato nello storico della lite - era di essere andato appositamente all'appuntamento nel deposito della Magliana quando egli invece aveva terminato il proprio turno di lavoro molte ore prima dimostrando la intenzionalità dei propri comportamenti perfettamente compatibili con l'aspra violenza manifestata nell'occasione dal V. addirittura verso una persona minorenne . Ebbene tale ragione della decisione, sul punto in questione, non è specificamente censurata. Né il ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza, trascrive nel ricorso i capitoli di prova per tutte Cass. 19 maggio 2006 numero 11886 e Cass. 9 aprile 2013 numero 8569 impedendo in tal modo qualsiasi sindacato di legittimità sul punto in questione. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1 quater, del DPR numero 115 del 2002 introdotto dall'art. l, comma 17, della L. numero 228 del 2012 P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in E. 100,00 per esborsi oltre E. 3500.00 per compensi ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR numero 115 del 2002 introdotto dall'art. l, comma 17, della L. numero 228 del 2012 si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.