Demansionamento e perdita chance: la prova del primo non esclude quella della seconda

La prova di un demansionamento non è idonea e sufficiente a dimostrare la perdita di chance, quando sia carente la prova e l’allegazione della concreta possibilità professionale perduta.

E’ quanto emerge dalla sentenza n. 17755 della Corte di Cassazione, depositata il 7 agosto 2014. Il caso. Il Tribunale del lavoro accoglieva parzialmente la domanda di risarcimento del danno da demansionamento, proposta da un lavoratore, e condannava la società datrice di lavoro al pagamento di una somma a titolo di danno biologico e di un’altra somma a titolo di danno esistenziale. La Corte d’appello rideterminava la somma dovuta al lavoratore. Ricorreva allora in Cassazione l’uomo, lamentando la violazione e falsa applicazione di norme di legge in quanto lo stesso aveva dedotto e provato di aver superato un concorso interno per funzionario di primo grado, ma non aveva mai ricevuto le relative mansioni, mentre altri dipendenti, pur non avendo svolto detto concorso avevano avuto l’assegnazione alla direzione di succursali. Il ricorrente, con un primo motivo, lamentava, in particolare, il mancato riconoscimento di un danno risarcibile per la subita perdita di chance di progressione di carriera ex art. 2103 c.c Mancava la prova della perdita di chance. Il motivo è infondato. Infatti, come spiega la Cassazione, il Giudice di merito aveva correttamente rigettato la domanda per perdita di possibilità sulla base della mancata allegazione di fatti idonei a comprovare che il ricorrente avesse subito un compromissione effettiva delle sue concrete aspettative di natura professionale causa della dequalificazione o dell’atteggiamento discriminatorio del datore di lavoro. Giustamente, afferma la Cassazione, il Giudice di merito aveva ritenuto che non fosse sufficiente la prova di un demansionamento per ritenere provata anche la perdita di chance in carenza della prova e dell’allegazione della concreta possibilità professione perduta. Sulla base di tali argomenti, la Corte Suprema rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 aprile – 1 agosto 2014, n. 17755 Presidente Roselli – Relatore Bronzini Svolgimento del processo Il Tribunale del lavoro di Potenza con sentenza del 9.6.2006 accoglieva parzialmente la domanda proposta da L.M. di risarcimento del danno da demansionamento nei confronti della Banca Carime spa e condannava la stessa al pagamento della somma di Euro 109.544,38 di cui Euro 41.430,00 a titolo di danno biologico e di Euro 68.110.38 a titolo di danno esistenziale. La Corte di appello di Potenza con sentenza del 17.5.2007, in accoglimento dell'appello delle parti per quanto di ragione, rideterminava la somma dovuta al L. per risarcimento del danno in Euro 61.434,00. La Corte territoriale osservai/a che, come ritenuto anche dal Giudice di prime cure, la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance era priva di sufficienti allegazioni e che non erano state prospettate le concrete occasioni di lavoro perdute dal L. , né questa domanda si poteva ritenere provata implicitamente dalla accertata dequalificazione. La Corte territoriale escludeva, poi, che si fosse verificato un mobbing ai danni del L. posto che non era emerso un intento persecutorio e discriminatorio ai danni del lavoratore e che non sussistevano i plausibili indici attraverso i quali era stata costruita la figura del mobbing. Non poteva dirsi scorretta la valutazione del danno biologico in quanto la CTU era stata contestata genericamente e non sussisteva il diritto al lucro cessante in quanto incompatibile con l'istituto del danno biologico. Le spese mediche, come danno patrimoniale, non erano state richieste. Veniva, invece, accolta la domanda relativa al danno morale per la Corte di appello di Potenza certamente esistente alla luce della lunga avvenuta violazione dell'art. 2087 c.c. che aveva causato una profonda sofferenza nel L. . Il danno, tenuto conto della grave dequalificazione subita e della sua intensità veniva dai Giudici di appello valutato in Euro 20.000,00. Circa l'appello della Banca, la Corte territoriale osservava che era emersa una situazione di grave dequalificazione del L. che aveva comportato lo svuotamento del ruolo di questi, con affidamento di soli pochi compiti scarsamente significativi. Il danno biologico era stato correttamente liquidato mentre fondato era l'appello relativo al danno esistenziale posto che tale voce di danno non era stato neppure richiesta nell'ambito del danno non patrimoniale e non erano stati comunque offerti elementi per stabilirne la sussistenza e l'entità. Tale danno per la Corte di appello in sostanza non era stato nemmeno descritto. Pertanto la somma effettivamente dovutaci L. veniva liquidata in quella precedentemente indicata. Per la cassazione di tale decisione ricorre il L. con quattro motivi corredati da memoria difensiva ex art. 378 c.p.c. resiste controparte con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 112-115-116-414 e 420 c.p.c. in relazione all'art. 2697 c.c. ed all'art. 432 c.p.c. e dell'art. 1126 c.c. Il ricorrente aveva dedotto e provato di avere superato un concorso interno per funzionario di primo grado, ma non aveva mai ricevuto le relative mansioni altri dipendenti pur non avendo svolto il detto concorso avevano avuto l'assegnazione alla direzione di succursali. L'assegnazione già accertata a mansioni inferiori comportava un danno risarcibile per la subita perdita di chance di progressione di carriera ex art. 2103 c.c Il motivo appare infondato. La Corte di appello cfr. pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata ha ricordato che il Giudice di prime cure aveva rigettato la domanda per perdita di chance sulla base della mancata allegazione di fatti idonei a comprovare che il ricorrente avesse subito una compromissione effettiva delle sue concrete aspettative di natura professionale a causa della dequalificazione subita o dell'atteggiamento discriminatorio del datore di lavoro ad esempio non si era affatto specificato da quali concorsi interni fosse stato escluso, a quali corsi di formazione non fosse stato ammesso, da quali prove selettive fosse stato illegittimamente escluso, quali promozioni avesse mancato per il periodo di inattività per il demansionamento subito. La Corte di appello richiamava l'orientamento seguito dal Giudice di primo grado che non aveva ritenuto che fosse sufficiente la prova di un demansionamento per ritenere provata anche la perdita di chance in carenza della prova, ed ancor di più, dell'allegazione della concrete possibilità professionali perdute. Ora per i Giudici di appello nell'atto di impugnazione si era riproposta la domanda senza esaminare affatto gli argomenti posti a fondamento del rigetto in prime cure. In questa sede, a parte considerazioni di ordine generale sul tema della risarcibilità del danno da perdita di chance, parte ricorrente non si perita affatto di ricostruire come tale voce di danno fosse stata fatta valere in primo grado ed anche in appello limitandosi in buona sostanza a richiamare la circostanza dell'avere superato un concorso interno per funzionario di primo grado senza ricevere le relative mansioni ed a ribadire la subita dequalificazione. Il motivo non appare autosufficiente in quanto non mostra come in effetti fossero infondati i rilievi del giudice di primo grado riportati in sentenza sulla dichiarata mancanza di allegazione nel ricorso originario, nonché i rilievi della Corte di appello sulla mancata specifica censura degli argomenti prima ricordati. Non si dimostra, quindi, che con idonei motivi di impugnazione il ricorrente avesse comprovato di avere allegato già in primo grado elementi sufficienti per l'accoglimento della domanda di cui si discute. La domanda è stata ripetiamo rigettata per mancanza di idonea contestazione sul punto della mancata prospettazione di effettive e concrete occasioni di sviluppo professionale perse dal ricorrente a causa dell'illegittima condotta del datore di lavoro, ma parte ricorrente neppure in questa sede ha ricostruito come la domanda sia stata fatta valere in primo grado e riproposta poi in appello. Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 115-116-414 e 420 cpc. in relazione agli artt. 2697 c.c. ed all'art. 432 c.p.c. ed all'art. 1226 c.c. Il danno esistenziale era stato fatto valere perché si era lamentato un gravissimo pregiudizio non solo fisico, ma anche psicologico che aveva alterato le abitudini del ricorrente. Il motivo appare infondato. La Corte di appello ha infatti correttamente seguito quella giurisprudenza che ritiene che siano richiedibili e liquidabili plurime voci di danno, anche ulteriori rispetto a quello di natura biologico, purché specificamente indicate e specificamente comprovate Cass. n. 13549/2006, Cass. n. 6572/2006 Cass. n. 2546/2007 . La Corte di appello ha sottolineato come nel ricorso introduttivo non fosse mai stato richiesto il danno esistenziale come componente del danno non patrimoniale né il danno esistenziale fosse stato neppure richiesto per i Giudici di appello come componente del danno biologico. Ora nel motivo si finisce con il confermare quanto sottolineato dai Giudici di appello in quanto non si indica come la specifica voce relativa al danno esistenziale sia stata richiesta in primo grado, accedendosi invece alla tesi infondata e non accolta dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale sarebbe sufficiente, per ritenere compresa una domanda per danno esistenziale, una generica ed omnicomprensiva richiesta di danno non patrimoniale già peraltro liquidato per le componenti effettivamente richieste . Con il terzo motivo si allega l'insufficiente e contraddittoria motivazione di atto controverso e decisivo per il giudizio. La liquidazione effettuata del danno biologico comunque non era adeguata e frutto di accertamenti peritali non correttamente effettuati. Con il quarto motivo si allega l'insufficiente e contraddittoria motivazione di atto controverso e decisivo per il giudizio. La Corte di appello ha operato una quantificazione non corretta del danno morale subito. Entrambi i motivi sono inammissibili poiché avendo invocato l'art. 360 primo comma, n. 5, c.p.c., il ricorrente non indica chiaramente il fatto controverso in relazione al quale assume la motivazione viziata per omissione o per contraddizione art. 366 bis c.p.c., all'epoca vigente ma si limita ad enunciare massime della decisione da lui pretesa. Conclusivamente si deve rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite del giudizio di legittimità-liquidate come al dispositivo della presente sentenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso, condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano i Euro 100,00 per spese, nonché in Euro 4.000,00 per compensi oltre accessori.