Licenziata per giusta causa la cassiera che non fa pagare la spesa

Grava sul datore di lavoro l’onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo del licenziamento e, di conseguenza, egli avrà altresì l’onere di provare l’elemento soggettivo della condotta addebitata al lavoratore.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con sentenza n. 12882, depositata il 9 giugno 2014. Cassiere il comportamento minimo esigibile. La cassiera di un supermercato veniva licenziata per giusta causa, avendo permesso ad una cliente di uscire dal negozio con la propria spesa, senza averla pagata. Il licenziamento era stato intimato regolarmente, previa contestazione disciplinare, tuttavia, la lavoratrice lo impugnava ritenendolo privo di giusta causa e, quindi, illegittimo. I primi due gradi di giudizio accoglievano le doglianze della lavoratrice condannando la società datrice di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno, ai sensi dell’allora vigente art. 18 Statuto dei Lavoratori. In buona sostanza, dall’analisi dei fatti era emerso che la lavoratrice non era abitualmente adibita alla mansione di cassiere, ma stava semplicemente sostituendo una collega. Data l’inesperienza in cassa, la lavoratrice non era riuscita a gestire la situazione ed aveva omesso sia di fermare la cliente, sia di denunciare l’accaduto al direttore. Secondo la Corte territoriale, il comportamento della lavoratrice non era così grave da ledere il rapporto di fiducia tra la stessa ed il datore di lavoro e, quindi, non era idoneo a rappresentare una giusta causa di licenziamento. L’inesperienza della lavoratrice come cassiera escludeva, di certo, l’intento doloso e faceva rilevare un lievissimo profilo colposo, essendo il fatto una semplice svista mero errore materiale nell’espletamento delle mansioni di cassiere. La Corte di Cassazione rilegge l’addebito ascritto alla lavoratrice, considerando il comportamento minimo esigibile da un cassiere. Ebbene, chi svolge le mansioni di cassiere è tenuto - come minimo - a richiedere ai clienti il pagamento della merce, oppure a pretendere la restituzione della stessa qualora il pagamento non sia possibile, oppure ancora a reagire in qualche modo nel caso in cui il cliente si allontani dal negozio con la merce, senza averla pagata. Il fatto che la lavoratrice licenziata non avesse posto in essere alcuno dei comportamenti minimi esigibili da un cassiere, fa sì che il suo comportamento non possa essere qualificato come svista, come mero errore materiale, ma ci sarebbe qualcosa di più. Tutte le sfumature dell’elemento soggettivo. A fronte dell’impossibilità di pagare la spesa a causa dell’asserito malfunzionamento del POS, la lavoratrice avrebbe dovuto farsi lasciare la merce prelevata dagli scaffali o, quantomeno, avvisare il direttore non di certo, lasciare che la cliente uscisse indisturbata dal negozio con in mano la sua spesa, senza averla pagata. La totale indifferenza della cassiera fa sorgere nella Suprema Corte il dubbio che la lavoratrice avesse dolosamente simulato la vendita, agevolando la cliente. Tuttavia, l’intento doloso non era stato provato nei primi due gradi di giudizio, pertanto è da escludere. Certo è che, tra l’intento doloso ed il mero errore di fatto, si collocano tutti i gradi della colpa, in particolare, la colpa cosciente, che pare essere più aderente al caso di specie e che avrebbe potuto legittimare il licenziamento nel caso di specie, la lavoratrice avrebbe negligentemente, ma consapevolmente, consentito alla cliente di allontanarsi dal supermercato con la spesa non pagata. Poiché la Corte territoriale aveva escluso il dolo, per poi ricadere direttamente nel mero errore di fatto, senza minimamente considerare la colpa cosciente, essa non ha motivato adeguatamente la propria decisione. Pertanto, la Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza impugnata, ricordando che sarà onere del datore di lavoro provare l’elemento soggettivo della condotta addebitata alla lavoratrice. Chi ha orecchie per intende, intenda. La sentenza in oggetto, pur non entrando nel merito della legittimità del licenziamento impugnato, indica senza troppi giri di parole, la via da seguire il dolo avrebbe legittimato il licenziamento per giusta causa, ma non è stato provato il mero errore di fatto non costituisce una condotta idonea a ledere il rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro, quindi, non integra una giusta causa di licenziamento resta da considerare la colpa cosciente, che, secondo la Corte, ben si addice al caso sottoposto alla sua attenzione.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 25 marzo – 9 giugno, n. 12882 Presidente Vidiri – Relatore Amoroso Svolgimento del processo 1. Con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Cosenza sez. lavoro, M.A. dipendente della società GAM s.p.a impugnava il licenziamento disciplinare irrogatole dalla datrice di lavoro, chiedendone la declaratoria di illegittimità e la condanna della parte convenuta alla reintegra ed al risarcimento dei danni ed inoltre il riconoscimento della nullità del contratto di formazione lavoro e della clausola di tempo parziale e lo svolgimento di mansioni superiori oltre che la condanna del datore per diversi titoli al pagamento di differenze retributive. A sostegno dell'impugnativa di licenziamento, deduceva l'irregolarità formale e sostanziale dello stesso. La datrice di lavoro resisteva alla domanda, sostenendo la piena legittimità del licenziamento. La domanda relativa all'impugnativa di licenziamento veniva accolta dal Tribunale di Cosenza, che con sentenza non definitiva del 8/04/2008. dichiarava la illegittimità del licenziamento e condannava la parte convenuta alla reintegra della lavoratrice ed al risarcimento del danno ex art. 18 S1. Lav 2. Avverso la sentenza, proponeva appello la datrice di lavoro, deducendo che il licenziamento era invece pienamente legittimo e censurava la sentenza di primo grado per la errata interpretazione della contestazione disciplinare sul punto relativo all'elemento soggettivo e per la errata valutazione degli addebiti, di cui non era stata adeguatamente considerata la gravità. Si costituiva la M. , che contestava le censure dell'appellante. Con sentenza del 2-30.11.2010 la Corte d'appello di Catanzaro rigettava l'appello e per l'effetto confermava l'impugnata sentenza. 3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la società con due motivi illustrati anche con successiva memoria. Resiste con controricorso la parte intimata. Motivi della decisione 1. Il ricorso è articolato in due motivi con cui si contesta l'adeguatezza e la coerenza della motivazione dell'impugnata sentenza quanto al difetto di proporzionalità e alla mancanza di dolo ritenuti dalla Corte d'appello. 2. Il ricorso - i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi - è fondato. 3. La sentenza impugnata prende le mosse dal tenore della lettera di contestazione che ha dato l'avvio al procedimento disciplinare conclusosi con la sanzione espulsiva lettera che descriveva in modo adeguatamente specifico i fatti, peraltro non contestati dalla lavoratrice quanto al loro materiale accadimento. L'addebito è consistito nell'aver la lavoratrice. operando occasionalmente come cassiera di un supermercato, contabilizzato ad una cliente una spesa di importo pari ad Euro 68,19, poi annullando lo scontrino relativo alla stessa e lasciando che la cliente, che inizialmente aveva offerto di pagare con una carta di credito rilevatasi non utile allo scopo perché non funzionante o incapiente , portasse via la spesa in questione senza pagarla, allontanandosi dal supermercato. Ha ritenuto la Corte d'appello che la condotta omissiva era consistita nel non aver impedito il prelievo della mercé medesima da parte della cliente ed implicitamente anche di non aver immediatamente denunciato il fatto al datore di lavoro o ad un suo incaricato. Ha poi osservato la Corte d'appello che, limitandosi all'oggettività dei fatti, non era desumibile dalla condotta della lavoratrice l'esistenza di un intento doloso diretto a favorire la cliente nella sottrazione indebita della spesa acquistata. Ed infatti - ha ulteriormente osservato la Corte territoriale - era risultato pacificamente che la lavoratrice non fosse stabilmente addetta alla cassa, ma che nella circostanza sostituiva momentaneamente altra cassiera. Il difetto di una stabile assegnazione alle mansioni di cassiera - secondo la Corte d'appello - impediva a priori l'esistenza di un intento doloso fraudolento diretto a danneggiare il datore di lavoro ed a favorire la cliente. Tale circostanza sminuiva altresì la gravità colposa della condotta, atteso che il mancato svolgimento stabile delle mansioni rendeva meno grave l'inadempimento, trattandosi di lavoratrice che affrontava una situazione lavorativa senza la necessaria esperienza. Ed allora ha ritenuto la Corte d'appello che, nel caso concreto, la scelta di sanzionare le inadempienze della dipendente con il licenziamento era censurabile. perché la datrice di lavoro non aveva correttamente valutato la gravità dei fatti contestati, né aveva proporzionato ad essi la sanzione comminata. 4. Le circostanze di fatto dell'addebito aver impedito il prelievo della mercé medesima da parte della cliente ed implicitamente anche la mancata immediata denuncia del fatto al datore o ad un suo incaricato deponevano - secondo la Corte d'appello - per un mero errore materiale nell'adempimento delle mansioni occasionalmente espletate”, errore materiale che non assumeva quella particolare gravità necessaria a giustificare la sanzione espulsiva. La colpa della lavoratrice non era tale da legittimare il licenziamento essenzialmente perché non vi era alcuna prova di un intento doloso, mentre la colpa - questa invece sì sussistente - assumeva profili lievi in ragione della temporaneità dell'assegnazione alle mansioni. Inoltre la lavoratrice, in sede di libero interrogatorio, aveva dichiarato, senza che nessuna ulteriore prova acquisita l'avesse smentita, che al momento dei fatti contestati il Direttore del supermercato non era presente, e che il giorno successivo essa stessa si era comunque recata dal Direttore per chiarire la situazione. Ha concluso la Corte d'appello che gli addebiti mossi alla lavoratrice non integravano gli estremi della particolare gravità, prescritta quale concreta applicazione del canone della giusta causa, necessari al fine dell'irrogazione della sanzione espulsiva. Né la lesione dell'elemento fiduciario del rapporto di lavoro era tanto grave da giustificare l'adozione della sanzione estrema del licenziamento. 5. Questa essendo la ricostruzione dei fatti, è essenzialmente la valutazione di non proporzionalità dell'addebito alla sanzione del licenziamento disciplinare ad essere contrastata dalle censure della società ricorrente che ha denunciato l'insufficiente valutazione dell'elemento soggettivo che connota la condotta della lavoratrice, per il resto sostanzialmente pacifica nella sua materialità. Il dato centrale della vicenda in esame riguarda infatti proprio l'elemento soggettivo essendo ben diversa la valutazione di proporzionalità della sanzione all'addebito secondo che si tratti di dolo o di colpa grave o di colpa lieve. È evidente che lo stesso comportamento addebitato alla lavoratrice, se doloso ed intenzionale, avrebbe una ben diversa connotazione di gravità. Ma anche il comportamento colposo è diversamente graduabile secondo che si tratti di colpa grave o di colpa lieve. Nella specie la Corte d'appello ha ritenuto che. non essendoci la prova del dolo, alla lavoratrice era addebitabile una condotta negligente e colpevole non aver impedito alla cliente - una cliente abituale del supermercato e nota al personale della stessa - di asportare la spesa fatta - e non potuta pagare dopo aver presentato una carta di credito inidonea allo scopo perché non funzionante o incapiente - allontanandosi dal supermercato e di non aver allertato alcuno perché la cliente non si allontanasse ovvero riponesse la spesa fatta. Invece la società ricorrente ascrive il comportamento della lavoratrice a dolo e non già a colpa addebitando alla lavoratrice di avere intenzionalmente voluto avvantaggiare la cliente - si legge nel ricorso – simulando un normale acquisto” e lasciando intendere, anche per il riferimento ad analogo episodio che, con la stessa cliente e lo stesso giorno, avrebbe visto come protagonista un'altra lavoratrice nell'espletamento delle stesse mansioni di cassiera, una intesa fraudolenta con la cliente. 6. Orbene, è vero che l'apprezzamento della gravità di tale condotta negligente e colpevole e della sua idoneità a ledere il vincolo fiduciario con la datrice di lavoro appartiene al tipico ambito della valutazione di merito non censurabile nel giudizio di legittimità se assistito da motivazione sufficiente e non contraddittoria. Ma occorre che ci sia conseguenzialità logica in tale valutazione di merito. La corte d'appello ha ritenuto che mancava la prova del dolo e che anzi vi era un elemento di fatto, pacifico in causa, che deponeva in senso contrario il fatto che la lavoratrice non fosse abitualmente adibita a mansioni di cassiera e che al momento del fatto il direttore del supermercato non era presente perché era già andato via avendo cessato il servizio . Indubbiamente la circostanza che la lavoratrice solo occasionalmente si fosse trovata a svolgere mansioni di cassiera e che in particolare nell'episodio in questione aveva momentaneamente sostituito altra dipendente questa sì abitualmente cassiera rendeva poco plausibile l'ipotesi del comportamento intenzionale e doloso. Ma ciò non esauriva la valutazione dell'elemento soggettivo laddove la Corte d'appello, con un evidente salto logico, degrada la colpa in svista , in errore di percezione, perché sintetizza l'episodio qualificandolo come mero errore materiale” così aderendo pienamente alla tesi della lavoratrice la quale, nella lettera di giustificazione, ha sostenuto di non essersi accorta che la cliente, invece di riporre la spesa fatta, non potendola pagare con la carta di credito, l'avesse portata via allontanandosi dal supermercato. Però la tesi del mero errore materiale” non discende direttamente dalla ritenuta esclusione di elementi che avrebbero potuto deporre per una condotta dolosa. Il comportamento minimo esigibile per chi svolge mansioni di cassiere ad un supermercato è quello di richiedere dagli avventori il pagamento della mercé prelevata ovvero di pretendere la restituzione della mercé ove il pagamento non possa aver luogo ovvero ancora di reagire in qualche modo nel caso in cui l'avventore mostri di volersi allontanare dall'esercizio commerciale portando con sé la mercé prelevata e non pagata. L'ipotesi della svista i.e. mero errore materiale” in cui sarebbe incorsa la lavoratrice - la quale avrebbe sì invitato la cliente a depositare la spesa che non poteva pagare per essere risultata non funzionante o incapiente la sua carta di credito, ma poi non si sarebbe accorta che la cliente, disattendendo o equivocando il suo invito, si sarebbe avviata all'uscita del supermercato portando con sé la mercé non pagata che. per essere puntualmente elencata nella lettera di contestazione dell'addebito, era apprezzabilmente voluminosa - avrebbe dovuto essere verificata ed approfondita ben diversa è ad es. la situazione di un'unica cassa con avventori in fila che abbiano già depositato la mercé prelevata e che premano per il pagamento della stessa e la situazione di plurime casse o di pochi avventori che avrebbero consentito alla lavoratrice di espletare le sua mansioni di cassiera con tranquillità e senza la pressione di clienti in fila. La prima rende plausibile la svista la seconda assai meno. Inoltre la prospettiva dell'”errore materiale” avrebbe richiesto anche un approfondimento di quella che sarebbe stata, il giorno dopo, la discovery del prelevamento ed asporto della mercé non pagata. La Corte d'appello si limita ad affermare che la lavoratrice si recò dal direttore del supermercato per chiarire la situazione”, ma non indaga su come la stessa si sia accorta o sia venuta a conoscenza del suo errore. Nell'interrogatorio libero - che risulta riportato in virgolettato dalla società ricorrente in ricorso - la lavoratrice ha dichiarato che il giorno dopo l'episodio in questione la cliente si recò al box informazioni del supermercato e le disse che qualcuno l'aveva vista”. E solo dopo la lavoratrice si recò dal direttore del supermercato per chiarire la situazione” ma l'affermazione ambigua - vista nel senso di scoperta ? - avrebbe richiesto un chiarimento anche nel processo. In sintesi, la Corte d'appello, dopo aver motivatamente ritenuto non provato il dolo e l'intenzionalità della condotta, ha operato un salto logico nell'affermare che si era trattato di un mero errore materiale”, che può iscriversi alla fattispecie della colpa lieve, senza considerare le sopra richiamate circostanze al contorno per escludere l'ipotesi intermedia, quella della colpa cosciente ossia aver negligentemente, ma consapevolmente, consentito alla cliente di allontanarsi dal supermercato con la spesa non pagata . Questa carenza motivazionale e di indagine - che avrebbe potuto essere colmata con l'attivazione dei poteri officiosi del giudice d'appello ex art. 437. secondo comma, c.p.c. Cass., sez. lav., 10 gennaio 2005. n. 278 4 maggio 2012, n. 6753 - rende perplessa, e quindi inficia, anche la motivazione sulla ritenuta non proporzionalità della sanzione espulsiva il licenziamento disciplinare all'addebito. 7. Il ricorso va pertanto accolto e l'impugnata sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d'appello di Reggio Calabria che colmerà la lacuna motivazionale sopra evidenziata, fermo restando, ovviamente, che ex art. 5 legge n. 604 del 1966 tuttora vigente ex dell’art. 1 d.lgs. 1 dicembre 2009, n. 179 grava sulla datrice di lavoro l'onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento e quindi anche dell'elemento soggettivo della condotta addebitata alla lavoratrice. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Reggio Calabria.